Il profilo inquietante dell’amministrazione Biden

Ancora non siamo riusciti a liberarci del tutto dall’incubo Trump e già non possiamo dormire tranquillamente riflettendo sui sempre più inquietanti scenari che si profilano all’orizzonte con l’amministrazione Biden.


Il profilo inquietante dell’amministrazione Biden

Non abbiamo fatto in tempo a gioire per la sconfitta del radicale di destra Donald Trump e già non possiamo che inquietarci dinanzi alle prospettive del prossimo governo Biden. Come è noto, come vicepresidente, Biden ha scelto la filo-sionista Kamala Harris, “contraria a qualsiasi limitazione agli aiuti militari e finanziari Usa a Israele”. [1] A questo proposito non si può nemmeno dimenticare “che l’uomo dietro alla campagna di donazioni per Biden sia Haim Saban, sostenitore acceso di Israele e dell’Accordo di Abramo” [ibidem]. Per altro, come ha chiarito il giornalista e analista israelo-statunitense Ben Lynfield: Biden “non tornerà indietro su Gerusalemme e il Golan e spingerà per nuovi accordi di normalizzazione tra paesi arabi e Israele” [ibidem].

Come segretario di Stato, equivalente del nostro ministro degli Esteri, Biden ha scelto Antony Blinken, distintosi nel governo Obama prima per essere tra i più accesi sostenitori dell’aggressione imperialista alla Libia “e per le proposte più avventurose per destabilizzare la Siria”. [2] Peraltro dopo la caduta di Obama Blinken “ha fondato WestExec e si è arricchito vendendo consulenza a compagnie di armamenti e agenzie mercenarie in tutto il mondo, dagli Stati Uniti a Israele attraverso l’Arabia Saudita. Questo milionario, anche lui meritocraticamente figlio di milionari, difende apertamente una più dura politica di sanzioni economiche contro la Russia che «dimostri al popolo russo che c’è una multa molto pesante da pagare per chi sostiene criminali internazionali come Putin»” [ibidem].

Abbiamo poi come prossimo segretario del dipartimento per la Sicurezza interna Alexander Mayorkas, figlio di un imprenditore cubano giunto negli Stati Uniti, come ha affermato il figlio “per sfuggire al comunismo”, che ha fatto del suo meglio per raggiungere durante il mandato di Obama “il record di deportazioni di immigrati in tutta la storia degli Stati Uniti”, [3] record insuperato dallo stesso Trump.
Senza dimenticare che a capo della Cia Biden ha promosso Avril Haines, distintasi per aver “progettato il programma di «uccisioni selezionate» con droni di Obama” e per essere stata “difensore pubblico di Gina Haspel quando Trump l’aveva nominata a capo di quell’agenzia. Haspel è stata uno degli artefici della rete di prigioni segrete della Cia dove l’amministrazione Bush torturava” (ibidem). 

Come consigliere economico, alla guida del National Economic Council, Biden punta su Brian Deese, “figura chiave nell’opera di salvataggio dell’industria dell’auto dopo la crisi del 2008”, che ora ricopre il ruolo di “manager della BlackRock, la più grande società di investimento del mondo”. [4]

I collaboratori individuati da Biden non fanno che confermare la sua assoluta estraneità alle componenti di sinistra del suo stesso partito e il suo essere il candidato dello Stato profondo. Non a caso, come ricorda a ragione Manlio Dinucci: “130 alti funzionari repubblicani (sia a riposo sia in carica) hanno pubblicato il 20 agosto una dichiarazione di voto contro il repubblicano Trump e a favore del democratico Biden”. Fra di essi vi sono veri e propri super falchi specializzati in operazioni sporche al servizio del Deep State a stelle e strisce come John Negroponte. [5] 

“Poi, oltre 100 repubblicani esperti in sicurezza nazionale hanno scritto una lettera aperta, chiedendo l’avvio della transizione immediato, denunciando «significativi rischi alla sicurezza nazionale», mentre «gli Stati Uniti affrontano una pandemia globale e minacce da avversari e terroristi». L’elenco dei firmatari comprende, fra gli altri, l’ex responsabile della Sicurezza interna dell’amministrazione Bush Tom Ridge, l’ex direttore della Cia Michael Hayden e l’ex direttore dell’intelligence John Negroponte.

Infine, analogo passo si apprestavano a fare oltre 100 imprenditori e finanzieri di New York, fra cui alcuni grandi donatori del partito repubblicano”. [6]

Del resto Biden, nella sua lunga carriera, si è sempre contraddistinto per la sua capacità di rappresentare gli interessi dell’imperialismo americano nel suo complesso, in modo indiscutibilmente migliore di Trump che, con il suo smisurato egocentrismo, ha finito con il creare non poche difficoltà allo Stato profondo a stelle e strisce. Biden da presidente democratico della commissione Esteri del Senato, “sostenne nel 2001 la decisione del presidente repubblicano Bush di attaccare e invadere l’Afghanistan e, nel 2002, promosse una risoluzione bipartisan di 77 senatori che autorizzava il presidente Bush ad attaccare e invadere l’Iraq. 

Sempre durante l’amministrazione Bush, quando le forze Usa non riuscivano a controllare l’Iraq occupato, Joe Biden faceva passare al Senato, nel 2007, un piano sul «decentramento dell’Iraq in tre regioni autonome curda, sunnita e sciita»: in altre parole lo smembramento del paese funzionale alla strategia Usa. Parimenti, quando Joe Biden è stato per due mandati vicepresidente dell’amministrazione Obama, i repubblicani hanno appoggiato le decisioni democratiche sulla guerra alla Libia, l’operazione in Siria e il nuovo confronto con la Russia”. [7]

Da questo punto di vista Biden rappresenta nel miglior molo il candidato dell’establishment, di quel partito trasversale, ovvero del deep state che mira, in modo decisamente bipartisan, al predominio al livello internazionale dell’imperialismo statunitense. Perciò, come appare in modo emblematico dal titolo e dal sottotitolo di una interessante intervista de “L’Espresso” a una grande esperta della politica estera statunitense: [8] “La politica estera di Joe Biden? Cambierà lo stile, ma poco la sostanza”. “Il nuovo presidente continuerà la linea dura con la Cina. E in Medio Oriente vorrà sempre tenere a bada l’Iran. Però sarà meno indulgente con Putin.” Non a caso l’esperta esordisce sottolineando “in Medio Oriente la strategia della presidenza americana troverà continuità, com'è spesso storicamente accaduto”. Per aggiungere poco dopo “l'amministrazione Biden supporterà gli "Accordi di Abramo", senza dubbio, anche nella prospettiva di sviluppare una partnership più integrale con gli Emirati Arabi”. [9] 

Secondo l’esperta di politica estera statunitense Biden seguirà la giusta linea sviluppata dai due precedenti presidenti di individuare nella Cina il principale ostacolo al predominio internazionale degli Stati uniti. Per cui “Obama aveva provato a ritirare tutte le truppe americane da Bagdad, nel 2011, nell’idea di concentrare i suoi sforzi su quello che riteneva dovesse essere il cuore della suo mandato a livello diplomatico, cioè il contenimento della Cina”. In secondo luogo, “bisogna ammettere che Trump ci aveva visto giusto nel suo individuare la Cina come un antagonista a cui fare molta attenzione: a lungo si è sottovalutata la capacità di crescita della Cina. La Cina è diventata una potenza economica assoluta”. Per concludere: “Siamo in un'era di competizione per la leadership mondiale e Biden da un lato proverà a riportare gli Stati Uniti alla guida del gruppo di democrazie occidentali per sfidare la Cina sul fronte economico e tecnologico” [ibidem].

Per il resto un po’ tutti i commentatori si aspettano dall’amministrazione Biden un rilancio, dopo i pesanti attacchi di Trump, della collaborazione interimperialista, a partire dal rilancio della Nato, definita da Biden “un sacro dovere per gli Stati Uniti” in funzione anticinese e antirussa. Nel colloquio col segretario generale della Nato, Biden “ha sottolineato l’importanza dell’Alleanza per la sicurezza Usa ed europea”, rinnovando “l’impegno degli Stati Uniti verso la Nato compreso il principio fondamentale della difesa collettiva in base all’articolo 5, nonché il desiderio di consultarsi con gli alleati su tutta la gamma delle questioni della sicurezza transatlantica”. Aggiungendo “l’impegno ad approfondire e rivitalizzare la relazione Usa-Ue”.

Peraltro, lo stesso Biden ha così sintetizzato “il suo programma di politica estera: mentre «il presidente Trump ha sminuito, indebolito e abbandonato alleati e partner, e abdicato alla leadership americana, come presidente farò immediatamente passi per rinnovare le alleanze degli Stati Uniti, e far sì che l’America, ancora una volta, guidi il mondo». Il primo passo sarà quello di rafforzare la Nato, che è «il cuore stesso della sicurezza nazionale degli Stati Uniti». A tal fine Biden farà gli «investimenti necessari» perché gli Stati Uniti mantengano «la più potente forza militare del mondo» e, allo stesso tempo, farà in modo che «i nostri alleati Nato accrescano la loro spesa per la Difesa» secondo gli impegni già assunti con l’amministrazione Obama-Biden”. [10]

Peraltro, come ricorda ancora nel citato articolo Dinucci, il programma di politica estera di Biden, approvato in agosto dal Partito democratico, è stato elaborato “con la partecipazione di oltre 2.000 consiglieri di politica estera e sicurezza nazionale, organizzati in 20 gruppi di lavoro – non è solo il programma di Biden e del Partito democratico. Esso è in realtà espressione di un partito trasversale, la cui esistenza è dimostrata dal fatto che le decisioni fondamentali di politica estera, anzitutto quelle relative alle guerre, vengono prese negli Stati Uniti su base bipartisan” [ibidem]. 

Infine, non dobbiamo sottovalutare i risvolti inquietanti per la politica italiana: “ora che ha vinto Biden, subito, come un riflesso pavloviano, ecco gli zombie della (nostra) sinistra a gridare che «si vince al centro». Se c’è una cosa che il voto americano ha mostrato è quanto quel paese sia diviso. Ragionare in termini di «si vince al centro» è totalmente fuorviante. E non a caso, riappaiono i Veltroni, i Renzi, i Giddens (quale ritorno! Un vero zombie). Con, naturalmente, gli alfieri di «Repubblica» a dar loro voce”. [11]

 

Note:

[1] Giorgio, M., Trump e Biden divisi su tutto ma non sul Medio Oriente, in “Il manifesto” del 6/12/2020.

[2] Santos, A., Gli uomini (e le donne) dell'amministrazione Biden, da http://avante.pt, traduzione di Marx21.it 

[3] Ibidem.

[4] Catucci, M., Un team di sole donne gestirà la comunicazione della Casa bianca in “Il manifesto” del 6 dicembre 2020.

[5] Dinucci, M., La politica estera di Joe Biden, in “Il manifesto” del 10/11/2020.

[6] Gramaglia, G., Non solo Blinken. Chi farà la politica estera di Joe Biden.

[7] Dinucci, M., La politica estera di Joe Biden

[8] Si tratta di Emma Sky, consigliera delle forze armate Usa in Iraq con i generali Odierno e Petraeus, governatrice di Kirkuk dal 2003 al 2004, analista politica, docente del Jackson Institute per gli Affari Internazionali dell’università di Yale e direttrice del Greenberg World Fellows Program.

[9] Mondello, M., "La politica estera di Joe Biden? Cambierà lo stile, ma poco la sostanza", in “L’Espresso” del 18/11/2020.

[10] Dinucci, M., La politica estera di Joe Biden

[11] Ardeni, P.G., Il riflesso condizionato delle nostre sinistre, in “Il manifesto” del 29/11/2020.

12/12/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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