Il rebus scuola

I lavoratori dotati di un minimo di coscienza di classe dovrebbero essere consapevoli che il lavoro a distanza comporta un’occupazione tendenzialmente a cottimo, a progetto, un tasso più elevato di autosfruttamento e, quindi, una riduzione del tempo da dedicare alla riproduzione della propria forza lavoro.


Il rebus scuola

Le dinamiche della scuola sono di per sé complesse e non di immediata comprensione. In primo luogo in quanto vi operano lavoratori anche molto differenti fra loro, come i docenti, il personale Ata, i tecnici, i dirigenti scolastici e i lavoratori esternalizzati dipendenti generalmente da cooperative. Mentre per gli insegnanti esistono gli organi collegiali, che favoriscono il rapporto fra lavoratori, più complessi sono i rapporti con le altre categorie. Tutti i dipendenti dello Stato hanno comunque la possibilità di interloquire nelle assemblee sindacali, mentre non vi sono luoghi istituzionalizzati in cui i lavoratori pubblici possono interloquire con i lavoratori esternalizzati.

Per quanto riguarda gli insegnanti sono lavoratori con una personalità sociale alquanto complessa e contraddittoria al proprio interno. In primo luogo in quanto sono parte del ceto medio e quindi non sono propriamente né sfruttati, né sfruttatori. Sono impiegati dello Stato borghese e intellettuali, e questo li porta spesso a illudersi di esser parte della classe dominante. Sono al contempo, soprattutto se precari, o fuori sede o con prole, in via di proletarizzazione. Questo li porta da una parte ad avvicinarsi al proletariato, da un’altra a fare di tutto per distinguersi da esso, per rivendicare il proprio status sociale di classe intermedia.

Inoltre da una parte gli insegnanti sono lavoratori salariati, subordinati, anche se non hanno un vero e proprio padrone, se non lo Stato borghese. Questo li porta da una parte, in quanto lavoratori salariati, a difendere la propria forza lavoro, quindi il prezzo al quale la si vende, le condizioni del suo utilizzo da parte dello Stato e l’orario di lavoro. Da questo punto di vista tenderebbero a ragionare come proletari. D’altra parte sono impiegati statali e, quindi, tendono a sviluppare una eticità che li porta a dare il meglio di sé, fino all’autosfruttamento, in quanto consapevoli dell’importanza del proprio ruolo sociale. Anche perché l’insegnamento è un lavoro che consente un certo margine di creatività, più tempo a disposizione per riprodurre la propria forza lavoro rispetto ai lavoratori manuali e la possibilità di sublimare nel lavoro la propria carica libidica. Peraltro è una professione che dà un certo potere e che, quindi, consente di sfogare all’esterno il proprio istinto di morte.

In quanto intellettuali gli insegnanti sono in sé contraddittori. Da una parte quali impiegati dello Stato del capitale finanziario sono istituzionalmente a esso organici. Allo stesso tempo, soprattutto quelli dotati di un sapere umanistico sono al contempo intellettuali tradizionali, che in quanto tali possono porsi al servizio della classe dominante, ma potrebbero anche passare dalla parte delle classi dominate. Infine, la loro tendenziale proletarizzazione rischia di farne addirittura degli intellettuali organici alle classi subalterne, i più pericolosi per le classi dominanti.

Infine, gli insegnanti sono nella grande maggioranza dei casi donne, diverse delle quali sposate o conviventi con uomini, che possono essere disoccupati, lavoratori salariati, ceti medi o borghesi. Dunque pur percependo grosso modo lo stesso stipendio, i tenori di vita degli insegnanti sono molto diversi fra loro e, quindi, anche la coscienza di classe, quando c’è, è molto variegata.

In secondo luogo la scuola la vivono, in forme diverse, gli alunni e i genitori. Per i primi la scuola è il luogo in cui godere del diritto costituzionale allo studio. Inoltre la scuola è uno strumento essenziale per la formazione del discente. Anche quest’ultimo, però, costituisce una totalità molto composita al proprio interno. Vi è una parte maggioritaria di forza-lavoro in formazione e una parte minoritaria che si forma per divenire parte della classe dominante. Quindi la maggioranza apprende a essere subalterna e si forma per essere sfruttata, in modo di poter utilizzare la sola risorsa di cui realmente, in generale, dispone, ossia la propria forza lavoro per potersi riprodurre. La minoranza si prepara per divenire sfruttatrice quale classe dominante, o per amministrare lo Stato per conto della prima come classe dirigente. Inoltre anche fra gli alunni che sono forza-lavoro in formazione vi sono grandi differenze a seconda del settore in cui si mira a vendere la propria capacità di lavoro. Si riproducono, quindi, anche al suo interno delle differenze, che sono alla base di tutte le differenze di classe, ovvero fra chi mira a divenire un lavoratore della mente, un intellettuale, e chi un lavoratore manuale.

Inoltre la scuola per gli alunni è un luogo molto importante di socialità e dove soddisfare la propria carica libidica, particolarmente accentuata fra gli adolescenti. Inoltre anche i giovani hanno l’esigenza di scaricare all’esterno il proprio thanatos e, perciò, anche perché poco consapevoli della propria radicale finitudine, tendenzialmente sono notevolmente più spericolati dei lavoratori adulti.

Per quanto riguarda i genitori la scuola è in primo luogo una parte importante del salario sociale indiretto, indispensabile per la riproduzione della classe proletaria. Anche in questo caso abbiamo genitori lavoratori, il cui interesse per la scuola è legato alla difesa di questa componente del proprio salario social; in secondo luogo è per loro funzionale alla riproduzione della propria forza lavoro attraverso la formazione dei figli. Costituisce, infine, un aspetto essenziale del regime borghese, ossia consente, potenzialmente, il passaggio molecolare da una classe all’altra. Quindi attraverso la scuola i propri figli codetermineranno la posizione che avranno nella scala sociale. In particolare, da questo punto di vista, conta se i figli riusciranno, mediante la scuola, a raggiungere un livello culturale e professionale, uguale, superiore o inferiore a quello della propria famiglia di provenienza.

Vi sono poi i genitori borghesi, che a loro volta si dividono in grandi, medi o piccolo borghesi che tendono a considerare la scuola come un propria proprietà. In parte in quanto costituisce una componente del salario sociale che pagano come classe ai proletari, in parte perché è una istituzione fondamentale del proprio Stato. Da una parte, dunque, in quanto borghesi tendono a considerare la scuola un faux frais della produzione. Perciò, spinti dalla concorrenza, cercano di ridurre al minimo la spesa per la scuola pubblica. Anche perché da liberali sono fautori della scuola privata e vedono nella scuola pubblica una concessione democratica fatta alle classi subalterne affinché non sviluppino posizioni socialiste. Allo stesso tempo, però, nelle scuole si forma anche la futura classe dominante e dirigente, si formano gli intellettuali a essa organici, o gli intellettuali tradizionali da essa generalmente dipendenti, i propri impiegati, gli apparati repressivi del proprio Stato e i propri proletari da sfruttare. Per cui hanno bisogno che la scuola e, persino la scuola pubblica, almeno in parte funzioni

Tanto più che la scuola costruisce, al contempo, uno dei principali strumenti di egemonia della società civile, ossia una funzione essenziale della gestione del potere nella società moderna, in cui oltre al monopolio della violenza legalizzata gioca un ruolo essenziale la capacità di esercitare il proprio dominio di classe con il consenso, attivo o quantomeno passivo, della maggioranza delle classi subalterne e delle classi medie. Anche questa funzione richiede degli investimenti significativi nell’istruzione e, persino, nell’istruzione pubblica.

D’altra parte questa casamatta nella guerra di posizione all’interno della società civile borghese può essere contesa dalle classi subalterne e, quindi, in particolare la scuola pubblica, ma persino la scuola privata può divenire un luogo illuminista in cui si formano persone che siano in grado di pensare bene con la propria testa e che, quindi, hanno sviluppato un sapere critico.

Anche questo aspetto assume, come un po’ tutto nella società capitalista, un significato duplice. Perché tale sapere è uno strumento essenziale per la futura classe dirigente e dominante, ma può divenire uno strumento sovversivo nelle mani di un proletariato dotato di coscienza di classe. In altri termini la borghesia rischia costantemente di generare i propri potenziali becchini, ossia gli intellettuali organici alle classi subalterne.

Tutte queste distinzioni, opposizione e contraddizioni tendono a rendere quanto mai complesso intuire quale sia la cosa giusta da fare in un periodo come il nostro, in cui la pandemia – in una società neoliberista, quindi strutturalmente inadeguata a farvi fronte adeguatamente – tende a rendere permanente lo stato di eccezione. Da qui il rebus fra didattica d’emergenza, la cosiddetta didattica a distanza, o la reale didattica, ossia la didattica in presenza. Per comprendere le diverse posizioni in campo bisogna tener conto di tutte le variabili sopra menzionate.

Per quanto riguarda i lavoratori della scuola è evidente che come lavoratori salariati tendono in primo luogo a difendere la propria sicurezza sul posto di lavoro. Quindi, dinanzi a una pandemia costantemente fuori controllo nei paesi neoliberisti, tendono a preferire il lavoro a distanza. In particolare gli insegnanti, in generale avanti con l’età, in quanto sono costretti a stare per diverse ore in spazi chiusi e ristretti – visto che non si è fatto nulla per eliminare le classi pollaio – con un significativo numero di alunni, quasi sempre minorenni e che non hanno generalmente sviluppato la consapevolezza della loro radicale finitezza

Dall’altra parte la professionalità, l’eticità spinge chi, come gli insegnanti, è impegnato con la didattica a battersi per l’unica didattica realmente efficace: quella in presenza. Anche perché gli strumenti pubblici a disposizione per fare didattica a distanza dal proprio posto di lavoro sono spesso inefficaci. Per altro i lavoratori dotati di un minimo di coscienza di classe dovrebbero essere consapevoli che il lavoro a distanza comporta un’occupazione tendenzialmente a cottimo, a progetto, un tasso più elevato di autosfruttamento e, quindi, una pericolosa riduzione del tempo da dedicare alla riproduzione della propria forza lavoro. Inoltre, lo sviluppo della didattica a distanza favorisce l’automatizzazione della produzione che comporta, in prospettiva, una netta diminuzione del numero di insegnanti.

D’altra parte la società liberista rende impraticabile la soluzione migliore, auspicata dalla maggioranza degli insegnanti in buona fede, ossia una didattica in presenza in sicurezza. Il sistema impone di fatto agli insegnanti di scegliere fra la peste e il colera, ovvero fra la didattica d’emergenza, senza la necessaria presenza, e la presenza senza la possibilità di realizzare una didattica adeguata e con il rischio di lunghe assenze dovute alla mancanza di sicurezza in diversi luoghi di lavoro.

Da parte loro gli alunni sono tendenzialmente portati a preferire la didattica in presenza, in quanto consentirebbe, potenzialmente, una reale fruizione del proprio diritto allo studio e in quanto garantirebbe l’altrettanto indispensabile socialità. D’altra parte, se per avere questo sono costretti a correre il rischio di ammalarsi, di essere messi in quarantena, o di dover fare parte della didattica a distanza con gli strumenti spesso inadeguati della scuola pubblica, finiscono per aver nostalgia del colera, ovvero della didattica a distanza.

Discorso analogo vale per i genitori. Per i genitori lavoratori la scuola è una componente essenziale del loro salario, al quale non possono rinunciare per potersi adeguatamente riprodurre, al contempo inviare i propri figli in dei luoghi insicuri, dove si rischia il contagio, finisce per essere un gioco che non vale la candela. Per cui, pur essendo superfautori della didattica in presenza, anche i genitori quando possono finiscono, non di rado, per dare la priorità alla sicurezza tenendo i figli a casa.

08/01/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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