Riformismo, quanto ci costi!

Il memorandum e la sinistra: praticare l’austerità a mo’ di sinistra è illusorio.


Riformismo, quanto ci costi!

Il memorandum e la sinistra: praticare l’austerità a mo’ di sinistra è illusorio e contribuisce a confondere le idee in merito alla vera natura delle politiche che vengono proposte e al funzionamento reale del sistema, in generale e nella crisi. Crisi che, in assenza di una guerra, domanda austerità: ed ecco come la spesa statale, a sostegno sia della domanda che della produzione, resta comunque al servizio del capitale.

di Alessandro Bartoloni

La crisi greca sta terremotando tutto ciò che si muove a sinistra delle organizzazioni organiche al partito socialista europeo. In questo ginepraio di partiti si distinguono tre strategie: chi sostiene la necessità di continuare a lottare contro l’austerità all’interno della dimensione sovra-nazionale dell’Unione europea (es. Syriza); chi pone come condizione preliminare la trasformazione socialista del modo di produzione, con annesso abbandono dell’Ue e della Nato (es. KKE); chi ritiene necessario sganciarsi dall’euro e dai vincoli ad esso associati per poter così imboccare la strada che conduce al socialismo del XXI secolo (es. Unità Popolare). In questo articolo ci occuperemo dei primi.

La strategia di questi che potremmo chiamare “riformisti” si incentra su cambiamenti di politica monetaria e di bilancio, trasformando radicalmente tutto l’impianto economico-giuridico sul quale è fondata l’Ue. Riguardo la politica di bilancio, la proposta riformista può essere sintetizzata negli stimoli alla spesa (appalti, forniture, servizi pubblici, trasferimenti a famiglie e imprese, ecc) e negli stimoli alla produzione (controllo dei prezzi, la regolazione del settore privato, le nazionalizzazioni, ecc). In altri termini, sostegno alla domanda e all’offerta, da finanziarsi mediante la tassazione dei redditi alti e dei patrimoni ed il ricorso al deficit di bilancio primario. Queste politiche, trovando fondamento in una ben precisa interpretazione della dinamica economica, hanno un significato di classe che deve essere riconosciuto dai lavoratori per non cadere vittima di illusioni.

Alla base di tali politiche vi è la constatazione che le risorse a disposizione vengono utilizzate per produrre beni privi di un impiego programmato. Di conseguenza le risorse a disposizione - espresse come valore complessivo di beni e servizi prodotti, oppure dei redditi percepiti dai proprietari di quelle risorse, quindi salari e profitti - e gli impieghi possibili di tali risorse, rappresentati da consumo individuale e investimenti aziendali, non è detto che coincidano. Lo squilibrio più frequente è dato dalla carenza di domanda rispetto all’offerta disponibile (le merci non si riescono a vendere). Per prevenire o quanto meno correggere tale squilibrio, i riformisti propongono di incrementare la domanda attraverso l’intervento pubblico (statale o sovranazionale poco importa) invece di lasciare che il libero mercato comprima e svaluti la produzione attraverso fallimenti, svalutazioni, disoccupazione, precarizzazione, ecc. Secondo questo approccio, infatti, è necessario agire direttamente sull’offerta quando c’è bisogno di stimolare la crescita della produzione.

Sembra tutto molto bello e lineare. Ma la storia parla chiaro. Non è stato il New Deal a tirar fuori il capitalismo dalla crisi del ‘29 ma la seconda guerra mondiale, così come politiche espansive del dopoguerra non hanno impedito al sistema economico mondiale di entrare in una crisi, quella di fine anni sessanta, da cui ancora non riesce ad uscire. Ancora, a seguito del crollo della Lehman Brothers, gli stati non si sono certo risparmiati, attuando la più spettacolare socializzazione delle perdite che la storia economica ricordi. Eppure tutto ciò non è bastato.

Il singolo capitalista, infatti, fa sempre profitto indipendentemente dal carattere produttivo del lavoro che sfrutta, quindi indipendentemente che produca o meno plusvalore. Inoltre, per lui è irrilevante l’utilizzo che il compratore farà della merce. Per tanto la contabilità nazionale dei paesi capitalistici, procedendo per aggregazione (consolidamento) dei conti delle singole unità che producono e spendono oblitera la differenza tra lavoro (e consumo) produttivo e lavoro (e consumo) improduttivo, arrivando ad eliminare la differenza tra prodotto netto e reddito netto (vale a dire tra il prodotto ed il modo in cui esso si distribuisce) e tra la circolazione del capitale e la circolazione delle merci. I risultati sono esilaranti: il salario della badante viene sommato alla pensione del vecchio che la paga, l’aumento di inefficienza della pubblica amministrazione fa crescere il Pil, lo studente che compra l’Economist dal giornalaio è come Elkann che ne acquisisce la testata. E gli esempi potrebbero continuare. Dunque non stupisce che lo stato venga chiamato a ricoprire il ruolo di deus ex machina in grado di assorbire, direttamente con la propria spesa o indirettamente attraverso i trasferimenti ai privati, la produzione invenduta.

D’altronde questo modo di procedere è inevitabile se l’utilità soggettiva sostituisce l’oggettività del lavoro come sostanza del valore, se ci si dimentica che il comportamento della totalità, il sistema economico nel suo complesso, non può essere ridotto alla somma delle sue componenti, vale a dire gli agenti che lo popolano. Da ciò consegue l’occultamento del reale funzionamento del sistema e del significato delle politiche che si propongono. Le cose stanno dunque diversamente da come ce le raccontano le statistiche e gli economisti borghesi. E se la diagnosi è sbagliata è difficile che la terapia possa produrre effetti benefici.

Della quantità totale di valori d’uso annualmente modificati (produzione lorda), una parte deve essere destinata alla sostituzione dei materiali e degli strumenti di lavoro consumati. In termini capitalistici, significa che dall’immane raccolta di merci (tangibili e non) deve essere sottratto il capitale costante. Dalla produzione netta così calcolata, che esiste sotto forma di mezzi di sussistenza e di produzione, è poi necessario sottrarre l’ammontare di risorse necessarie a mantenere la forza-lavoro impiegata nella creazione di questi valori d’uso (dal neovalore prodotto si deduce il salario). Si ottiene così il reddito netto o plusprodotto (in termini capitalistici: plusvalore) che può esser destinato al lavoro improduttivo (servizi), al mantenimento della popolazione non attiva, dei ceti parassitari e ad allargare la produzione.

Si vede subito che beni e servizi sono concettualmente distinti e non possono essere riuniti, che un conto è lo scambio che media il processo che ha per oggetto la produzione di plusvalore, un conto lo scambio che media la sua distribuzione; che un conto è il lavoro per produrlo, un conto il lavoro per distribuirlo. Dal punto di vista capitalistico, infatti, “il concetto di lavoro produttivo, dice Marx, si restringe. La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore. Il lavoratore non produce per sé, ma per il capitale. Quindi non basta più che il lavoratore produca in genere. Deve produrre plusvalore. È produttivo solo quel lavoratore che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all’autovalorizzazione del capitale. Un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola. Il concetto di lavoratore produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività ed effetto utile, fra lavoratore e prodotto del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine storica, che imprime al lavoratore il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale”.

Questo permette di chiarire il carattere improduttivo delle attività dello stato, dal momento che il lavoro e i beni che impiega non vengono consumati come capitale per essere valorizzati, ma come prodotti. Lo stato, quindi, non produce plusvalore ma lo consuma a beneficio sopratutto dei capitalisti che vincono appalti, ottengono commesse, forniture, ecc e che per tale mezzo vedono sostenuta la trasformazione del proprio capitale-merce in capitale-denaro. Inoltre, fornendo servizi gratuiti o quasi ai lavoratori, lo stato sgrava i padroni di una parte dei costi relativi all'acquisto della forza-lavoro, che altrimenti dovrebbe ricevere un salario maggiore per acquistare quei servizi sul mercato.

Ma il potere salvifico della mano visibile, per il complesso della classe padronale, si ferma sulle soglie della crisi generale da sovrapproduzione visto che la spesa pubblica non fa altro che alimentare e sostenere le contraddizioni del processo economico che inevitabilmente conducono alla crisi. Detto altrimenti, l’azione statale non è finalizzata ad eliminare il problema, vale a dire il contrasto tra l’enorme sviluppo delle forze produttive da un lato e i rapporti sociali incentrati su sfruttamento e concorrenza dall’altro. La crisi, infatti, non si origina dalla carenza di domanda sanabile attraverso il ricorso alla spesa pubblica ma dall’eccesso di sovrapproduzione di merci che devono essere utilizzate come capitale, rispetto ai capitali disponibili a valorizzarle e reimpiegarle in un nuovo ciclo di produzione di plusvalore. Per questo, con il prolungarsi della crisi, in assenza di una guerra, si deve necessariamente passare all’austerità: ridurre la spesa sociale per comprimere la quota indiretta e differita del salario; rimodulare trasferimenti alle aziende, appalti e forniture per assicurare la centralizzazione del capitale attraverso opportuni fallimenti di piccole e medie imprese; perseguire l’attivo di bilancio primario per liberare risorse da dirottare verso il rimborso dei crediti elargiti dai grandi istituti finanziari transnazionali. D’altronde, uno stato capitalisticamente produttivo diventerebbe esso stesso causa del problema che gli si chiede di risolvere.

Anche per quanto riguarda il versante del sostegno alla produzione, dunque, lo stato si conferma pienamente al servizio del capitale. La forma pubblica delle imprese e degli enti, ad esempio, nasconde il controllo capitalistico che si esercita attraverso la loro gestione privatistica, clientelare e tendente a favorire la trasformazione del capitale monetario in capitale merce delle aziende poste a monte o a valle (fornitura sotto-costo o gratuita di energia, infrastrutture, servizi, ecc). Ma il carattere più smaccatamente classista degli interventi sul lato dell’offerta si ha con le c.d. politiche di sviluppo e dei redditi, i cui modelli giustamente prescrivono la compressione dei salari e dei consumi al fine di incrementare i profitti e l’accumulazione. “Ad eccezione dei suoi propri lavoratori, dice Marx, per ciascun capitalista la massa complessiva di tutti gli altri lavoratori non è una massa di lavoratori, ma una massa di consumatori, di posessori di valori di scambio (salario), di denaro, che essi scambiano con la sua merce. Riguardo al suo lavoratore ciascun capitalista sa bene che egli non gli sta d fronte come produttore a consumatore, e perciò desidera restringere il più possibile il suo consumo, vale a dire la sua capacità di scambio, il suo salario. Il capitale stesso considera allora la domanda da parte dei lavoratori - ossia il pagamento del salario, su cui questa domanda poggia - non come un guadagno, ma come una perdita. In altri termini, il rapporto immanente tra capitale e lavoro impone i suoi diritti”.

Diritti la cui sorveglianza viene data allo stato. Se, dunque, non c’è soluzione di continuità tra questo e la società, l’attività economica di quest’ultimo rimane espressione della struttura economica della società ed è da questa condizionata. Questo non significa affermare che la politica industriale o finanziaria delle autorità pubbliche non possa esercitare alcuna influenza, ma che essa non può andare contro la logica dominante del sistema, le sue leggi di funzionamento, dovendo mantenerne e riprodurne caratteristiche e contraddizioni, a partire dalla crisi e dalla polarizzazione tra classi e territori.

Infine, ma non da ultimo, i finanziamenti. Come visto, il primo fondo per coprire le spese pubbliche è il plusvalore, vale a dire la quota di produzione netta estorta ai lavoratori. Con lo sviluppo imperialistico, però, si sviluppano anche le funzioni dello stato e si incrementano le fonti di finanziamento. Grazie all’enorme concentrazione di capitale, al trasferimento di valore dai paesi a più bassa composizione organica, ai rendimenti degli investimenti e delle speculazioni all’estero, ai bottini di guerra e alla creazione di un’aristocrazia operaia pagata più del minimo necessario per riprodurla quantitativamente e qualitativamente, le autorità dei paesi dominanti sono in grado di estendere il finanziamento delle proprie spese al di là del plusvalore. Fino ad arrivare che il carico tributario gravante sul proletariato, attivo e pensionato, è maggiore di quanto gli torna indietro sotto forma di salario indiretto e differito.

19/09/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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