In fondo al tunnel della crisi

Le politiche volte a salvaguardare gli attuali rapporti di produzione impediscono lo sviluppo delle forze produttive e cancellano la sovranità popolare.


In fondo al tunnel della crisi Credits: http://fotomomo.blogspot.it/2012/04/titanic-100-anni-in-fondo-all.html

L’irrazionalità e l’iniquità del modo di produzione capitalistico – già riconosciuta dallo stesso Adam Smith, quando osservava che lo sviluppo della ricchezza in tale sistema avviene in funzione dell’impoverimento di una fascia crescente della popolazione – è ancora una volta confermata, per quanto concerne il nostro paese, dal più recente rapporto Istat. Quest’ultimo attesta una continua crescita della povertà nella penisola, al punto che, in termini relativi, ci avviciniamo pericolosamente alla soglia dei 10 milioni di poveri, mentre in termini assoluti, in riferimento alle persone con redditi al di sotto della soglia di sussistenza, siamo ormai prossimi ai 5 milioni, una quota praticamente raddoppiata rispetto al 2007, con una spaventosa crescita del numero dei giovani, sempre più disoccupati o precari. Ciò che davvero inquieta è che tale massiccio impoverimento e il conseguente aumento del divario fra le classi sociali non ha consentito al paese neanche di iniziare a uscire dal tunnel della crisi. Anzi, le luci in fondo al tunnel, che gli apologeti degli attuali rapporti di produzione affermano costantemente di scorgere, assumono sempre più le sinistre sembianze di un treno che ci viene addosso a una velocità sempre più elevata. Viene, così, da domandarsi: quanto ancora i ceti subalterni dovranno pagare i costi sociali della crisi per consentire una ripresa economica, che non metta in discussione quei rapporti di proprietà che ne costituiscono il fondamento?

Tale discorso vale più in generale per i paesi a capitalismo avanzato e in modo particolare per l’UE che, pur godendo negli ultimi anni di condizioni favorevoli alla ripresa grazie alla svalutazione dell’Euro, al basso costo delle materie prime e in particolare del petrolio, al Quantitative easing, ha avuto tassi di crescita davvero modesti. Nel quadro già fosco dell’Unione europea, la situazione italiana è particolarmente tragica e il divario con gli altri paesi tende ad aumentare, a partire dal pil che resta lontanissimo dai livelli antecedenti all’emergere della crisi e dagli investimenti complessivi che rimangono del 28% inferiori ai livelli del 2007.

Eppure gli addetti al governo del comitato di affari della borghesia, che ci hanno diretto in questi ultimi decenni, hanno fatto tutto quanto era in loro potere per rilanciare l’accumulazione capitalistica, senza incontrare significative resistenze da parte dei ceti subalterni, sempre più succubi di un’aristocrazia operaria e di intellettuali tradizionali piccolo borghesi. Ad esempio l’Italia si piazza al quinto posto tra i paesi Ocse per i livelli di tassazione dei salari, per cui, nonostante il costo del lavoro sia fra i più elevati – scoraggiando gli investimenti e aumentando la disoccupazione – i salari restano fra i più bassi, a danno dei profitti di quel 70% delle imprese italiane che mirano a vendere, quasi esclusivamente, sul mercato nazionale. Tutto ciò a dimostrazione che tutti i bonus elargiti dal governo erano funzionali a meri scopi elettoralistici e che gli stessi incentivi all’occupazione del Jobs act, necessari a far accettare la precarizzazione del lavoro, hanno semplicemente dopato i valori dell’occupazione, che sono ritornati ai bassi livelli di partenza non appena gli incentivi sono necessariamente venuti meno.

Così, nonostante il pesante attacco al salario nelle sue diverse forme, l’aumento dei ritmi e degli orari di lavoro, il crescente controllo padronale sull’utilizzo della forza lavoro, con la sua progressiva precarizzazione, l’occupazione stenta a ripartire. Anzi, nonostante i forti incentivi alle aziende per assumere, con la libertà di licenziare, il tasso di occupazione italiano resta ai livelli più bassi dell’Unione europea, al punto che ormai risultano occupate 6 persone su 10 in età di lavoro, tanto che solo in Grecia vi è una situazione più allarmante. Inoltre i costi sociali della crisi sono fatti pagare ai più deboli per favorire, con il consueto principio del divide et impera, la guerra fra poveri. Così l’incubo della disoccupazione colpisce in primo luogo gli immigrati, poi gli abitanti del sud – dove gli occupati sono meno del 50%, mentre al nord sfiorano il 70% – e le donne (51% di occupate contro il 71% degli uomini) che vengono così progressivamente ricacciate nella schiavitù domestica.

Lo stesso pil pro capite italiano, rapportato al potere d’acquisto, è di quasi il 5% inferiore alla media UE, gap che sfiora il 25% nei confronti della Germania, nonostante che il nostro paese investa meno in spesa pubblica. Il che è solo apparentemente un paradosso, in quanto persino secondo il Fondo monetario internazionale, gli investimenti pubblici favoriscono gli investimenti privati in misura decisamente superiore rispetto agli incentivi e alla detassazione, su cui hanno puntato gli ultimi governi italiani. Al contrario la spesa pubblica è drasticamente scesa in questi anni, calando dal 2009 al 2016 di quasi 20 miliardi. Così se gli investimenti pubblici sono calati, in quest’arco temporale, in Europa di oltre il 10%, il calo da noi è stato almeno del doppio. Al punto che, anche quest’anno, pur potendo godere di una clausola di flessibilità che ci autorizzava ad aumentare gli investimenti pubblici di ben 4 miliardi, la spesa pubblica è rimasta al palo, tanto che corriamo il rischio di subire la beffa della revoca di tale “concessione”. Il calo degli investimenti pubblici ha così favorito il calo degli investimenti privati precipitati, nel 2009 e nel 2011, per ben due volte del 15%, una caduta senza precedenti, in un arco temporale tanto limitato, per un paese a capitalismo avanzato.

Il taglio della spesa pubblica ha colpito in particolare la sanità, i cui costi gravano sempre di più direttamente sui cittadini. Ciò nonostante, il tanto vituperato sistema pubblico italiano, per quanto sempre più colpito dai tagli, risulta fra i più efficienti, considerato che l’Italia svetta nel panorama europeo quasi esclusivamente per gli indicatori relativi alla bassa mortalità, in particolare infantile, e più in generale per la tutela della salute.

Inoltre il nostro paese risulta, nella maggioranza degli indicatori analizzati dall’Istat, al di sotto della media UE, non solo dal punto di vista produttivo e per i livelli dell’occupazione, ma anche per quanto concerne il decisivo settore della formazione. Non solo resta in modo allarmante basso il numero dei laureati, ben al di sotto della media europea, ma risulta alto e al di sopra della media il tasso di abbandono scolastico. Non c’è dunque da stupirsi del preoccupante aumento medio dell’ignoranza a livello culturale, denunciato da ultimo da un’allarmante indagine promossa da Libreriamo, secondo la quale siamo divenuti “il popolo più ignorante d’Europa”. Così, nonostante viviamo in uno dei paesi più ricchi culturalmente e artisticamente, il livello culturale medio ha teso a precipitare negli ultimi anni, come conferma la classifica Ipsos Mori, secondo la quale abbiamo raggiunto il livello più basso in Europa. Tale livello d’ignoranza porta con sé l’aumento dei pregiudizi, al punto che, ad esempio, la maggioranza degli italiani crede che l’immigrazione, ferma al 7%, abbia raggiunto il 30%. In questo modo i costanti tagli alla cultura, portati avanti dalle politiche liberiste, risultano funzionali a far apparire, dinanzi a una popolazione sempre più ignorante, il populismo di destra quale unica alternativa.

Quest’ultimo, sfruttando il fatto che le istituzioni del capitalismo finanziario transnazionale, a cominciare dall’Ue, erodono sempre più i margini della sovranità popolare, rivendica, contro i conflitti sociali, l’interclassismo e il neocorporativismo quali unici antidoti alla perdita della sovranità nazionale. In tal modo, sproloquiando sul presunto superamento delle differenze fra destra e sinistra, si occulta il fatto che sono proprio le classi dominanti a ricorrere alle istituzioni dell’imperialismo transnazionale per spazzare via ogni forma di sovranità popolare che ostacoli le loro tendenze oligarchiche. Ciò avviene in primo luogo a livello economico, per sottrarre con i trattati liberisti europei ogni possibilità alle masse popolari di determinare la politica economica, sino a misure come il Fiscal compact e il pareggio di bilancio in Costituzione, che rendono impossibile non solo una politica socialista, ma persino una politica economica keynesiana. In secondo luogo, le classi dominanti favoriscono in ogni modo la limitazione della sovranità popolare sul piano della politica alla scelta fra governi di unità nazionale, governi tecnici o populisti più o meno apertamente di desta, tutti portatori di una politica interclassista e neocorporativa funzionale al mantenimento degli attuali rapporti di produzione. In terzo luogo le classi dominanti mirano a cancellare ogni influenza della sovranità popolare sulla stessa politica estera, a cominciare dalle stesse forze che dovrebbero essere addette alla difesa nazionale e sono in realtà sempre più integrate, in funzione subordinata, ad alleanze militari come la Nato, volte a difendere a livello globale gli interessi generali del capitale finanziario che ha le proprie basi nei paesi dell’alleanza. Così, mentre nel caso politico ed economico la cessione di sovranità popolare passa per il rafforzamento dell’Unione europea, dal punto di vista della politica estera e militare passa attraverso il rafforzamento della Nato egemonizzata dagli Stati Uniti. Così, non solo la classe dirigente italiana al servizio della classe dominante ha dato piena copertura politica alle azioni militari sempre più oltranziste degli Stati Uniti di Trump, ma mette a disposizione le proprie basi per le forze militari Nato e statunitensi, impegnate nelle aggressioni imperialiste, e per le loro armi, comprese le più recenti e distruttive armi di distruzione di massa.

Ancora più assurde appaiono le posizioni volte a rivendicare l’esigenza di politiche di unità nazionale o neocorporative a difesa del made in Italy. In primo luogo poiché, nel modo di produzione capitalistico, l’unica logica che vale per i grandi attori economici è la logica della massimizzazione dei profitti. Così anche gli imprenditori che più hanno costruito buona parte delle proprie fortune politiche ed economiche sull’interclassismo nazionalista, da “forza italia” a “siamo tutti sulla stessa barca”, si dimostrano pronti a cedere persino ai “comunisti” cinesi i propri gioielli di famiglia. D’altra parte lo stesso made in Italy, per poter sopravvivere all’interno della società capitalista, non può che seguirne la stessa logica spietata. Ecco allora che, persino i principali Brand del made in Italy, fra i più noti produttori di scarpe a livello internazionale, come testimonia una preziosa inchiesta della Campagna Abiti Puliti e di Change your Shoes, si limitano a progettare in Italia le proprie merci, per poi farle produrre, da “lavoratori stranieri in condizioni miserabili” in paesi come l’Albania o la Birmania, in cui la forza-lavoro non è affatto tutelata. Del resto, come denuncia la stessa inchiesta, anche quando la produzione si svolge ancora nel nostro paese, questo avviene generalmente in quanto è subappaltata a “terzisti che pagano salari contrattati al di sotto” del livello di sussistenza.

22/04/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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