La linea della palma sale

Un recente fatto di cronaca fa riflettere sulla sempre maggiore diffusione di un senso comune che interpreta le relazioni sociali.


La linea della palma sale

Un recente fatto di cronaca fa riflettere sulla sempre maggiore diffusione di un senso comune che interpreta le relazioni sociali nell’ottica della più diffidente chiusura e della mancanza di accoglienza e solidarietà. Un terreno fertile per il mantenimento e la crescita dei potentati mafiosi.

di Antonino Infranca

Una vicenda che si è svolta nell’ultima settimana mi offre lo spunto per una riflessione sulla coscienza civile - e anche sulla sua mancanza - nella nostra società e sull’indifferenza diffusa, sempre più diffusa, anche in ambienti che si propongono moralmente come modelli.

“Tutto mi aspettavo, tranne che la civilissima Milano potesse reagire così”. Iniziamo dal commento della vittima alla vicenda che l’ha coinvolta. Sono le parole di Gianluca Calì di Bagheria, da 15 anni imprenditore che si è ribellato a Cosa Nostra e che è stato costretto a lasciare la Sicilia per rifugiarsi a Milano, dove credeva di essere, se non proprio ammirato, almeno rispettato per la resistenza offerta alla mafia; più probabilmente cercava soltanto di essere dimenticato da tutti, così da poter vivere una vita normale, cosa che gli era impedita nella sua isola. Invece una rappresentante dei genitori dei compagni di scuola dei suoi figli chiede l’intervento della polizia e dei carabinieri per impedire che Gianluca Calì parli di mafia e di legalità da solo, cioè senza la presenza delle forze dell’ordine, ai bambini della scuola.

La prima impressione che dà la lettura della lettera della rappresentante, inviata al Dirigente Scolastico della scuola dei figli di Gianluca Calì e leggibile nell’account di Facebook di Calì stesso, è che il problema sia Gianluca Calì. Se fosse rimasto in Sicilia, ad Altavilla Milicia e avesse pagato il pizzo a Cosa Nostra, ci avrebbero guadagnato tutti: i genitori dei compagni di scuola, in primis la signora che ha scritto la lettera, i figli di Calì, Gianluca Calì stesso e, ovviamente, Cosa Nostra. Questo è un esempio chiarissimo di come funzioni la mentalità dell’ambiente dove Cosa Nostra agisce: la sua azione rassicura, garantisce, protegge da lei stessa, crea consenso nei propri confronti. È stato sufficiente che una Mercedes nera apparisse all’uscita dei bambini della scuola milanese, frequentata dai figli di Gianluca Calì, che due occupanti della stessa Mercedes, chiedessero, con marcato accento siciliano, alla baby sitter di Gianluca Calì se quelli fossero i figli dell’imprenditore, per convincere questa rappresentante dei genitori che il prossimo evento sarà una carneficina generalizzata di bambini per uccidere i figli di Gianluca Calì. La paura indotta da Cosa Nostra ha funzionato, il suo virus ha infettato quella rappresentante e probabilmente i genitori che ella rappresenta.

Parlo di virus, perché questa rappresentante, come tanti genitori di oggi, ha suggerito la soluzione al Dirigente Scolastico, che per lei è incapace di trovare soluzione scolastiche a problemi scolastici: "Sarebbe il caso che i bambini in questione [i figli di Gianluca Calì] uscissero da una porta secondaria e non all’orario canonico e comunque vorremmo tutti maggiori misure di sicurezza perché non ci sentiamo sicuri". Ma la rappresentante “in questione” arriva anche a intervenire nella vita privata di Gianluca Calì: "Siamo rattristati per i piccoli che subiscono l’eredità dei padri", cioè questo genitore infettato li costringe a vivere in una situazione di pericolo.

Per la rappresentante “in questione” l’antimafia è un virus pericoloso che passa da genitori a figli, che devono essere isolati, perché se “i bambini in questione” uscissero, alla chiusura quotidiana della scuola, felici e liberati dal lavoro scolastico, come tutti i bambini del mondo, la loro felicità potrebbe essere contagiosa, tanto da indurre gli altri bambini, e forse i loro genitori, a pensare che l’antimafia non è pericolosa, che con l’antimafia si può vivere, si può essere felici. Insomma Cosa Nostra comincerebbe a dubitare del suo potere. La rappresentante “in questione” ha pensato come un normale membro di Cosa Nostra. La rappresentante “in questione” vorrebbe vivere una sua vita normale: i figli di Gianluca Calì stessero isolati, dentro strutture sicure, come se fossero prigionieri, lontani da contatti con altri bambini. In fondo se Gianluca Calì ha voluto resistere a Cosa Nostra sono problemi suoi, problemi di siciliani. Ricordo che Gianluca Calì non è un pentito di mafia, cioè un delinquente che per qualche sua particolare convenienza collabora con la giustizia e ottiene uno sconto di pena. Gianluca Calì è un normale cittadino che paga le tasse soltanto allo Stato e non vuole pagare il pizzo a Cosa Nostra. Gianluca Calì è uno di noi.

Tutta la storia sembra ridicola, buona per una commedia all’italiana, del genere “Benvenuti al Nord”, se non fosse terribilmente seria, perché di mezzo c’è una città come Milano, la capitale morale d’Italia. Capitale di quale morale? Sicuramente della morale imprenditoriale, di cui Gianluca Calì è un portatore. Minacciato ad Altavilla Milicia, Gianluca Calì si trasferisce nella “civilissima Milano” e scopre che la presenza sua e dei suoi figli è percepita come pericolosa. Scopre che la mentalità imprenditoriale non è totalmente diffusa, che la “civilissima Milano” non è unanimemente civile.

La stragrande maggioranza dei genitori della scuola “in questione” ha manifestato solidarietà a Gianluca Calì, ma meglio sarebbe stato che si formassero pattuglie di genitori che proteggessero Gianluca Calì e i suoi figli, all’uscita della scuola. Al nord sono abituati a formare pattuglie di protezione; lo ha fatto la Lega qualche anno per proteggere di notte le città del nord dai pericolosi immigrati, che si sono spostati al nord per cercare cibo, casa, la possibilità di realizzare un progetto di vita, lavorando; proprio come ha fatto Gianluca Calì.

Appunto è la società civile che viene messa in questione, perché la paura della mafia colpisce la società, se questa non è civile; ma se la società è civile, questa reagisce, si organizza e si protegge. La Lega che organizzava le pattuglie voleva proprio dimostrare il suo grado di civiltà. Una tale organizzazione si sarebbe dovuta mettere in atto ad Altavilla Milicia o a Bagheria, cioè nel regno di Cosa Nostra. Neanche Peppino Impastato aveva pensato a qualcosa del genere, perché sapeva che laggiù è impossibile e si era limitato a farsi beffe di Cosa Nostra, sapendo come sarebbe finita.

Qualche ora dopo l’assassinio di Falcone, il 23 maggio 1992, i palermitani “onesti”, per dimostrare che c’era ancora speranza in quella disgraziata città cominciarono a lasciare spontaneamente messaggi o piccoli simboli della loro speranza di vita contro Cosa Nostra, sull’albero davanti all’abitazione del magistrato ucciso, in via Notarbartolo 23. Qualche anno dopo l’omicidio di Falcone, gli inquilini del palazzo dove era vissuto il magistrato, decisero di tagliare l’albero, perché come per la rappresentante “in questione”, quei piccoli, direi “normali”, segni di una militanza civile erano un insopportabile fastidio alla loro normalità. Dovettero intervenire le autorità, come chiede la rappresentante “in questione” nel caso dell’opera di testimonianza antimafia di Gianluca Calì, per far capire agli inquilini di via Notarbartolo 23, che la società civile, che è un complesso di individui, aveva trasformato quell’albero in un simbolo di vita e un simbolo di vita non si può abbattere. In quell’occasione le autorità non agirono autorevolmente, ma rappresentativamente, cioè rappresentarono ai cittadini la volontà della società civile, della maggioranza dei palermitani, perché ricorda Gianluca Calì: «In Sicilia i coinvolti in affari di mafia sono circa 5.000, ma ci sono 5 milioni di onesti cittadini». Naturalmente Gianluca Calì è ottimista, ma le sue parole esprimono una qualche verità: i cittadini riuniti nella società civile hanno il diritto di vivere una vita normale, non nel senso della normalità che volevano gli inquilini di via Notarbartolo 23 o della rappresentante “in questione”, e questo diritto lo devono anche difendere.

Come nel caso di Gianluca Calì, nelle terre di mafia, sono i singoli individui a reagire, a resistere. Ma a Milano ci si poteva aspettare qualcosa di più, come la camminata in Galleria, ai tempi di Tangentopoli, quando la società civile milanese si strinse attorno alle sue autorità, perché esse stavano rappresentandola contro la corruzione e il malaffare. Adesso si pensa che la Sicilia è un’altra cosa? Non è parte della società civile milanese?

Ormai è accertato che le mafie meridionali operano nel settentrione, anche a Milano, essendo la capitale finanziaria del paese, ed avendo i mafiosi meridionali enormi capitali da poter investire nella produzione industriale del nord. A dire il vero si scopre sempre più spesso che agli imprenditori del nord i capitali di provenienza mafiosa non dispiacciono, perché come è noto per qualsiasi capitalismo, sotto qualsiasi parallelo, pecunia non olet. Sono ancora casi individuali, ma soltanto una mobilitazione della società civile può fermare questo fenomeno. Quella mobilitazione che non ci fu in Sicilia, proprio perché i siciliani preferivano la normalità mafiosa. La mancata mobilitazione ha permesso a Cosa Nostra di crescere e, quindi, adesso di tentare di trasferirsi al nord. Gianluca Calì ha iniziato la sua lotta in Sicilia, mantiene ad Altavilla Milicia la sua attività imprenditoriale, ma ha trasferito a Milano la famiglia per tenerla lontana dal pericolo. Sostenerlo significa sostenere la lotta antimafia in terra siciliana.

Leonardo Sciascia, un siciliano infettato di antimafia, una volta scrisse che “la linea della palma risaliva la penisola”. Per “linea della palma” intendeva allegoricamente che la linea della meridionalità, intesa come la linea del peggio dell’Italia contemporanea, il meridione, saliva lentamente lungo la penisola. E con la “linea della palma” risaliva anche la mentalità meridionale, quella fatta di valori rovesciati: obbedire alle angherie, riconoscere come uomo d’onore un disonorato incallito, farsi i fatti propri in modo da non essere coinvolti con gli “uomini d’onore”, isolare gli individui che non condividevano questi atteggiamenti passivi, dicendo che “se l’erano cercata”, che erano loro il problema e non gli “uomini d’onore”, o meglio disonorati. Proprio quello che la rappresentante “in questione” rivendica come un diritto violato: “I genitori hanno paura che possa succedere qualcosa di molto serio ai loro bambini” a causa di un uomo coraggioso.

22/01/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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