Recensione a L’altra faccia della storia. Come per secoli l’Occidente ha dominato il mondo di Manlio Dinucci

Il tradizionale racconto geo-storico che vede nel Continente europeo e nelle sue irradiazioni politiche e culturali nel tempo e nello spazio il cuore simbolico e propulsivo della vita planetaria ha con ogni evidenza esaurito la capacità di persuadere, dunque la sua egemonia. Si consolidano ormai letture dissonanti della vicenda umana, che preludono se non a sovvertimenti epocali dei quadri della convivenza a drastici spostamenti  d’asse delle relazioni internazionali e forse a una nuova sensibilità di massa.


Recensione a L’altra faccia della storia. Come per secoli l’Occidente ha dominato il mondo di Manlio Dinucci

Ritiratosi nel marzo 2022, per ragioni relative all’interpretazione da dare allo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, dal quotidiano Il Manifesto, sul quale per oltre dieci anni aveva tenuto con riconosciuta competenza la rubrica L’arte della guerra ed esaminato lo stato del pianeta dal punto di vista dei tanti conflitti cui la caduta del Muro di Berlino aveva dato la stura, Manlio Dinucci, storico e geografo professionale, pubblica una voluminosa contro-storia universale di lungo periodo. L’intenzione e le finalità paiono evidenti: opporre all’ormai boccheggiante narrazione occidentale e occidentalista ancora in voga (almeno in parte del quadrante ovest del pianeta, soprattutto ai piani medio-alti, e nel giornalismo embedded) un racconto che si sottragga alle rassicuranti suggestioni linearmente <<evolutive>> dell’avventura planetaria sotto l’egida della democrazia liberale, pensata come il culmine insuperato della politica e lo spazio privilegiato di irraggiamento della civiltà umana. Oggi titolare di una rubrica dal titolo Grandangolo - Pangea sulla Rete televisiva dei “cittadini” Byoblu, Dinucci sviluppa un’agile ma corposa ricognizione a vasto raggio, il cui perno concettuale è il superamento della centralità europea e “bianca” e l’apertura a un orizzonte che abbraccia e include le aree del pianeta a suo tempo cadute in vario modo sotto l’oppressiva influenza occidentale e relegate a fornitrici di materie prime e manodopera schiavile.  Sono proprio le ex-periferie del pianeta, infatti, a costituire il punto di snodo di una revisione profonda del racconto canonico invalso dall’epoca delle “grandi scoperte”, allorché prese il volo l’immagine trionfale di un Occidente gagliardamente proteso alla “conquista” e per ciò stesso alla civilizzazione, in/di un pianeta che sembrava offrirsi virginale alle virili suggestioni prometeiche di questa parte del pianeta e che si concedeva come res nullius, secondo uno stereotipo rinnovatosi con sempre maggior fatica fino ai nostri giorni, con “punte” esaltate e febbricitanti, dopo il crollo del Muro di Berlino. 

Si trattava, come appare a noi ovvio [1], di ben altro che di un benigno e lineare ingresso dei “bianchi” nel panorama planetario, e il diffuso paternalismo che connotava (in intermittenza con le tante feroci forme di oppressione e repressione di qualsivoglia istanza di libertà degli indigeni) la postura degli Europei non poteva occultare la sostanza di un dominio efferato, governato con la brutalità implicata in una preventiva de-umanizzazione dell’ “altro”. La disputa cinquecentesca tutta interna tra Bartolomè de Las Casas e Juan Gines de Sepulveda sul possesso dell’anima da parte dell’ animal semivocale [2], o humunculus, cioè l’abitante delle terre amerindie, costituisce, in tal senso, la trama e il fondamento del duplice e quanto meno ambiguo atteggiamento assunto dalla cultura del Vecchio continente nei riguardi di quelle realtà umane. Soprattutto del progrediente autocompiacimento di una soggettività eurocentrica collettiva euforizzata dalla capacità di allargare in modo smisurato l’area del proprio protagonismo acquisitivo così come di gongolare al pensiero (e alla diretta acquisizione) degli  immensi profitti, che avrebbe saputo ricavare da quell’inesauribile serbatoio di ricchezze. E sovranamente indifferente, per dirla col filosofo tedesco George Simmel, all'”immensa provvista di dolore” [3] che il dinamismo occidentale avrebbe saputo infliggere ai milioni di uomini e donne di tutte le età finiti sotto la macina infernale dell’estrazione di valore garantita dapprima dal commercio globalizzato dei secoli XVI-XVII (a partire dal micidiale “triangolare”), quindi dall’incedere incalzante della produzione industriale, vero campo di prova della civiltà borghese e della sua prestanza trasformativa.

“Occidente” era, naturalmente, anche l’apparato religioso di sostegno e convalida di quelle pratiche, nutrito di pregiudizi antropologici solo vagamente mitigati dalla paterna condiscendenza verso le anime da salvare, riconducendole misericordiosamente alla casa del Padre. Le chiese cristiane avrebbero, in tal senso, svolto un ruolo tutt’altro che marginale, come componente organica dei processi di dominazione, e le rade pulsioni umanitarie di settori minoritari del l’universo cristiano (si veda l’esperienza dei Gesuiti stilizzata da film come Mission del 1986) non sarebbero state in grado di invertire un processo di dimensioni epocali. Non solo: le confessioni religiose nostrane avrebbero, alla fine, mistificato e trasfigurato nella forma del famigerato “fardello dell’uomo bianco”, la politica di sistematico sequestro di beni e territori altrui.

La cavalcata di Dinucci non può che muovere dalla penetrazione nel continente africano da parte dei re-pionieri portoghesi, passando per il condominio benedettocon gli spagnoli [4], per giungere alla ruvida competizione coi nuovi arrivati francesi, inglesi, olandesi, tutti comunque congruamente impegnati, e affratellati, dalla spoliazione proditoria e dal crescente sfruttamento intensivo delle risorse locali – in cima naturalmente l’oscena pratica della tratta del legno d’ebano (p. 73), vertice (forse) insuperato  dell’ignominia occidentale, ma base di quella accumulazione primitiva, che avrebbe dato le ali alla rivoluzione industriale e al moderno sviluppo capitalistico. 

Le pagine che lo storico-geografo dedica a forme e modi della schiavitù praticata ai danni delle popolazioni di colore, oltre che raccapriccianti (in termini di ferocia e fantasia) sono illuminanti di un ethos che abbiamo imparato a riconoscere nelle sue articolazioni e propaggini storiche (compreso quell’oggi, che ne vede restaurate sembianze non superficiali, sotto la veste dell’efficienza produttiva, cioè dell’estrazione massiva di plus valore). E confluiscono senza salti di continuità con l’edificazione accelerata  della società americana, misto di cinica darwiniana intraprendenza individuale e pratica consapevole e sanguinaria dell’occupazione e della messa a resa di un territorio pensato come desertico. Ma anche sapiente portatrice di un’ambiguità di fondo, che mescola altisonanza della proclamazione dei principi e crudeltà selettiva delle sue interpretazioni: nato da una lotta di indipendenza contro il dominio coloniale, il nuovo stato, ebbro e paludato di solennità programmatiche, come la Dichiarazione di Indipendenza e una Costituzione, che sembrano spalancare le porte del futuro a un sincero universalismo [5], implode (e si invera) sulla natura di classe della nuova formazione: essa semplicemente riproduce la piramide sociale, incorporandovi nuove soggettività virtuali, fatte oscillare tra l’irrilevanza ontologica assoluta e la labilità antropologica della residualità,  in attesa di adeguato trattamento, dentro un quadro di giustificazione teologica (protestante) dell’eminenza e destinalità dei coloni. È questo solo l’atto fondativo, sul quale monta l’irrefrenabile bulimia americana, cosmetizzata da ampollose retoriche essenzialiste, cui un liturgico e ossessivo ricorso ai disegni della Provvidenza  fornisce l’alibi di una vera e propria extraterritorialità morale. Motori di questa auto-investitura ( e della futura surroga del colonialismo europeo) sono la Dottrina Monroe (1823), la teorica del Manifest Destiny [6], un’ideologia eccezionalistica, che distilla e trasfigura teologicamente gli Stati Uniti grazie ad una teorica dell’elezione. Ne segue un’interminabile catena di aggressioni proditorie ai vari stati latino-americani emancipatisi dal dominio spagnolo, astutamente motivate ma condotte in nome dei fratelli del Sud,  sublimate nell’affermazione che la storia del mondo non fornisce alcun esempio analogo di progresso (p. 130) [7].

Alla fine, com’è caratteristico dell’ideologia borghese, illuminismo e giusnaturalismo, pilastri  filosofico-politici dell’eccellenza dei Bianchi, vertici eminenti della loro ispirazione progressiva, restaurati e inverati nell’esperienza primigenia e rigeneratrice della lotta all’ ingerenza europea (ma anche per tamponare sgradite insorgenze sociali interne ai paesi coinvolti), sono depurati del loro contenuto eversivo ed emancipatorio e curvati alla ragion di stato e alle brame di profitto del nuovo Rapace occidentale in narcisistica accelerazione egemonica. Sono ormai gli Usa a correre verso il primato mondiale (che verrà consegnato loro alla- e dalla fine della Prima guerra mondiale) ma non senza corposi e redditizi compromessi e spartizioni condominiali [8]. Regni più o meno costituzionali e… orgogliose democrazie parlamentari europee sapranno, fino al 1914, come tutelare scampoli succosi dei loro interessi economici, lucrando per tutto l’Ottocento sullo scacchiere asiatico, lasciando dietro di sé la scia grondante sangue dei propri valori. Le guerre dell’oppio nell’estremo Oriente condotte contro l’impero cinese e quelle di conquista della magnifica torta africana [9] completeranno l’arsenale dei riflessi condizionati e dei lapsus imperialistici, culminando, per così dire, nella crudele ma sintomatica spacconata di quel Guglielmo II che, al momento della partenza del corpo di spedizione germanico contro gli indipendentisti Boxers [10], nel luglio 1900, dal porto di Bremerhaven, pronunciava il noto Discorso degli Unni, nel quale oltre a chiedere che non si facessero prigionieri, istigava a far sì che da quel momento “un Cinese non osasse mai più nemmeno guardare di traverso un tedesco”. Perle di una postura diffusa e condivisa, che permette di guardare senza timidezze esegetiche a quanto, da lì a poco, sarebbe confluito fragorosamente nelle carneficine (anche) domestiche della “Seconda guerra dei Trent’anni” 1914-1945, distillato eloquente della moderna barbarie occidentale - in realtà disvelamento della sua malattia morale.

Dinucci non risparmia certo il colonialismo straccione del last comer dello scenario predatorio, il parente povero dell’avido concerto europeo, in tracotante e nervosa proiezione imitativa. Giunta in extremis sullo strapuntino dello status di potenza, la Penisola saprà sgomitare per il posto al sole, ricavandone dapprima una catena di patenti umiliazioni, quindi, nel tempo, quel risarcimento che, anche prima dell’indecente avventura fascista in Etiopia,  rivelerà volti e posture degne del parvenu, che riscatta con spietatezza infantile e rabbiosa a spese dei più deboli la percezione della propria immedicabile miseria e fragilità, come dei tanti complessi d’inferiorità. Alla fine (pp. 205-225), la galleria degli orrori dei “Boni italiani” ialle prese con popolazioni civili e indigeni, tra Corno d’Africa e Libia, poco ha da invidiare alle sorelle maggiori della turpitudine coloniale e rimane a futura memoria quale fantasioso campionario esemplare di efferatezza a sfondo razzista [11]. Compresi, naturalmente, le forme e i dispositivi di legittimazione antropologica di un dominio su negri e asiatici che gli Europei vogliono ascrivere a fattori naturali e metastorici (un po’ prima di scoprire che, quando verrà il momento, ci sarà chi li vorrà ri-volgere all’interno della stessa comunità bianca e continentale, restringendo l’area dell’arianesimo ai soli biondi con occhi azzurri, biologicamente puri e geograficamente circoscritti…). 

La sapida e vivace esplorazione dello Storico non poteva non entrare a gamba tesa sul “peccato originale del Novecento” [12], la Grande Guerra, che rappresenta a un tempo il punto d’approdo delle contraddizioni sistemiche accumulate fino a quel momento, e l’abbrivo di una fase ancor più incandescente della vita internazionale. Soprattutto, la spia di un’affezione profonda della civiltà occidentale, tutta interna alle sue aporie e unica reale, devastante possibilità di sormontarne in qualche modo, ancora una volta a spese delle popolazioni altre (oltre che delle classi subalterne), il sovraccarico. Conflitto seminale ed epifanico, vero lapsus delle classi dirigenti europee, cui l’unica seria obiezione politica militante verrà dalla Rivoluzione dell’Ottobre, con lo scarto, non di un generico pacifismo a sfondo umanitario o di un irenismo mite e impolitico, ma di un’assunzione di responsabilità verso la Storia, intesa come rimozione delle condizioni di possibilità della guerra imperialista. Primo tempo di una catena di eventi catastrofici, tutti sismograficamente collegati alla crisi e ai parossismi del capitale nelle sue varie forme e inclinazioni: il decisivo tornante della crisi del ‘29, sintomo della fragilità intrinseca del sistema, e il turbolento ventennio di incubazione della Seconda guerra mondiale; l’ossessione mortifera per la “barbarie asiatica” incarnata dall’Ottobre sovietico; il piano inclinato di un conflitto inaudito da quella originato in chiave di risoluzione dell’”anomalia” comunista. E poi, la Guerra fredda, preparata già mentre l’Alleanza antifascista muove alla sconfitta del blocco nemico, intossicata dall’acquisizione accelerata dell’arma atomica e arrogantemente condotta fino all’esaurimento per consunzione del primo, impervio esperimento socialista della storia, che sembra chiudere, con l’89 e la riunificazione tedesca, col dilagare della globalizzazione capitalistica, ogni illusione sulle possibilità di fuoriuscita dall’incubo dell’assertività predatoria dell’Occidente. 

Cosicché l’esplorazione di Dinucci, dopo aver trascorso sugli eventi capitali del secolo passato, plana e si distende sulla conclusiva, imponente regressione dell’oggi, culminante nell’effetto valanga della travolgente affermazione delle teoriche mercatistiche più estreme, che riacutizza ed esaspera tutte le contraddizioni costitutive di sistema, sublimandosi nella ri-naturalizzazione del capitale come forma  sovrastorica e dunque ineluttabile della relazione umana. 

Ma è proprio qui che, dopo aver fedelmente e parallelamente inventariato le mille forme e soggettività della rivolta e dell’insubordinazione [13] , che hanno storicamente e orgogliosamente reagito alla foia nichilistica del profitto e del dominio, al solipsistico narcisismo dei bianchi, lo Storico riassume il senso della strozzatura di civiltà in cui oggi si dibatte il contemporaneo [14], quello che ci sentiamo di riassumere come l’esiziale conflitto cosmico-storico tra razionalità intrinseca del sistema (dei suoi ciechi dispositivi di estrazione purchessia di plus valore e di negazione amorale di qualsivoglia finalità umana), e meta-razionalità della sopravvivenza della specie e della vita in senso generale. Esso postula un drastico mutamento d’orizzonte e un rovesciamento delle logiche e delle priorità che hanno finora presieduto all’organizzazione della convivenza tra gli uomini, e che continuano esponenzialmente a secernere impoverimento, degrado, miseria variamente intesa, solitudine di massa, sfascio ambientale. Il potere distruttivo in crescendo, legato ai meccanismi di prelievo della ricchezza sociale sotto l’egida dell’individualismo liberale e imperniato su rapporti di forza tra stati e classi, deve cedere il passo a un modo alternativo di concepire i rapporti tra le persone e le nazioni imperniato (…) su comportamenti razionali (p. 467), che ridefiniscano la misura delle finalità intrinseche dell’esistenza storica. Se <<deve ancora essere fatto un serio bilancio dei primi esprimenti storici di socialismo (…) per capire quali problemi hanno incontrato e non risolto>>; e se vanno reinquadrate criticamente <<le durissime condizioni reali da cui sono scaturiti>>, che problematizzano ogni facile e frettolosa retorica del <<fallimento del socialismo>>, non v’è ormai dubbio che la <<questione di fondo>>, drammaticamente posta all’ordine del giorno sui vari piani della vita collettiva, sia l’impellenza di <<costruire un sistema socioeconomico alternativo a quello attuale>> (pp. 486-7), rimanga dunque l’orizzonte di un universalismo che, lo si voglia o meno, rimanda all’ineludibile alternativa tra socialismo e barbarie. Così, se è vero che il nostro male viene da lontano, come Dinucci documenta con passione e rigore, e che affonda le radici in tossiche concrezioni secolari, occorre che la visione che ne prefigura e prepara materialmente il superamento non si limiti alla postulazione etica, o non scimmiotti composte (e <<compatibili>>) istanze emendative, ma costruisca le condizioni politiche per un sovvertimento reale della situazione reale. 

Note

[1] Ma non si dimentichi la cruciale lezione leniniana, contenuta in forma solenne nel celebre <<Appello agli schiavi delle colonie>> a <<spezzare le loro catene>> divulgato all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre e volta a costruire un ponte tra giovane rivoluzione e l’immensa massa di sfruttati dal colonialismo. Cfr. Lenin, Opere complete, Roma, Editori Riuniti, 1955-1970, vol. XXVI. V. anche, tra i testi del filosofo italiano Domenico Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti (Roma-Bari, 1996) e Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere (Roma-Bari, Laterza, 2017).

[2] Si veda, del primo, la Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Milano, Mondadori, 1987 e sulla disputa che divise i due religiosi cattolici Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’Altro, Torino, Einaudi, 1992. Ma si veda, soprattutto, Domenico Losurdo, cit. 

[3] Cfr. Saggi di estetica, Padova, 1970, pag. 20.

[4] Ci si riferisce naturalmente al famigerato Trattato di Tordesillas, col quale Alessandro VI (papa Borgia) divideva <<equamente>> il pianeta (di cui era ormai accertata la sfericità…) tra le cattolicissime nazioni iberiche.

[5] <<Dopo aver annunciato il principio che “tutti gli uomini sono creati uguali, sono dotati dal Creatore di inalienabili diritti tra cui la Vita e la Libertà>>, la Dichiarazione del 4 luglio del 1776 <<così definisce gli abitanti indigeni: “Spietati selvaggi indiani, la cui nota regola di guerra è il massacro indiscriminato della gente di ogni età, sesso e condizione”>>, pag. 113. V. anche Domenico Losurdo, che parla di <<trasfigurazione in chiave universalistica dell’americana “democrazia per il popolo dei signori”>> (in Controstoria del liberalismo, Roma-Bari, Laterza, 2005, pag. 135). 

[6] Enunciata da John O’Sullivan, e a ridosso dell’aggressione al Messico del 1845, essa esplicita <<il compimento del nostro destino manifesto di estendere il continente assegnatoci dalla Provvidenza>> grazie al glorioso <<piede anglosassone>>, che non fa che assecondare <<il flusso naturale degli eventi>>,  esprimendo <<il funzionamento spontaneo dei principi>>, pagg.131-2.

[7] Per le relazioni storiche tra Occidente genericamente inteso e continente latino-americano, rimandiamo all’insostituibile Edoardo Galeano, Le vene aperte dell’America latina, Milano, Sperling & Kupfer, 2013. Ci piace segnalare anche, di Pino Cacucci, La polvere del Messico (Milano, Feltrinelli, 2004), nel quale si riprende la proverbiale locuzione, attribuita a Porfirio Diaz, <<Povero Messico, così lontano da Dio, così vicino agli Stati Uniti>>. 

[8] Si pensi al Congresso di Berlino del 1884-85, sotto la Presidenza di Otto von Bismarck, vero, solenne rito autoreferenziale della comunità degli stati <<bianchi>>.

[9] Nelle parole del <<filantropo>> Leopoldo II del Belgio, passato alla storia per le nefandezze consumate nella <<proprietà personale>> del Congo, fatto precedentemente esplorare dall’avventuriero  inglese Henry Morton Stanley, quello che <<spara ai negri come se fossero scimmie>>, pag.182. 

[10] In allegra compagnia con le truppe di otto stati europei (giovane ma promettente Regno d’Italia compreso), più giapponesi, americani e frattaglie varie. Cfr. Victor Purcell, La rivolta dei Boxer, Milano, Rizzoli, 1971.

[11] Come scriverà il Governatore dell’Eritrea (1897-1907), poi pomposamente Ministro delle Colonie (1914-1916) Ferdinando Martini, <<l’indigeno è di impiccio; ci toccherà dunque, volenti o nolenti, rincorrerlo, aiutarlo a sparire, come altrove le Pelli Rosse, con tutti i mezzi che la civiltà, odiata da lui per istinto, fornisce: il cannone e l’acquavite>>, pag. 207). Dell’ormai cospicua letteratura scientifica sul comportamento dei militari (o funzionari governativi) italiani all’estero in tempo di guerra, e sui consolidati luoghi comuni al riguardo, rimandiamo ai numerosi testi di Angelo Del Boca e Giacomo Scotti. Per la problematica generale, v. Losurdo Controstoria …, cit.

[12] Titolo dell’omonimo saggio di Domenico Losurdo (Roma-Bari, Laterza, 2007).

[13] Miliare, quella di Toussaint de L’Ouverture (1743-1803), figlio di schiavi e a sua volta schiavo che, sull’onda degli eventi francesi nel 1791, guida a Santo Domingo una vittoriosa rivolta contro il colonialismo che indurrà nel 1794 la Convenzione ad abolire la schiavitù (prima che Napoleone receda e lo incarceri per farlo morire di fame e di freddo).   

[14] Per dirla con Alain Badiou, <<la struttura oggettiva del mondo contemporaneo come si è costituita dagli anni Ottanta del secolo scorso>> (Il nostro male viene da più lontano, Torino, Einaudi, 2016, pag. XVII).






07/11/2025 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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