Recensioni di classe 17

Recensioni di classe ai film: American Son, Elegia americana, Rifkin’s Festival (ultimo film di Woody Allen), Sesso sfortunato o follie porno (vincitore del festival di Berlino); al cortometraggio di animazione premio Oscar Se succede qualcosa, vi voglio bene, al documentario Nessun nome nei titoli di coda e alle serie Ethos distribuita da Netflix e We Are Who We Are.


Recensioni di classe 17

American Son di Kenny Leon, drammatico, Usa, 2019, voto: 8; ennesimo bello e importante film di denuncia della spaventosa oppressione degli afroamericani negli Stati Uniti, in cui i linciaggi da “libere” iniziative della “società civile” sono divenuti una pratica istituzionalizzata e realizzata grazie al monopolio della violenza legalizzata degli apparati repressivi ossia, in primo luogo, della polizia. Il film indaga in profondità questa spaventosa istituzione statunitense, uno dei paesi più razzisti e dove è più diffuso il fascismo quotidiano a livello internazionale. Nel film emergono anche in modo significativo, attraverso dei personaggi realistici e tipici, le contraddizioni sociali degli Stati Uniti. Peccato che il film sia troppo teatrale e non si giovi, nel modo migliore e dovuto, dello specifico filmico.

Ethos serie tv in 8 episodi, distribuita da Netflix, Turchia 2020, voto: 7-; il primo episodio lascia ben sperare, affrontando e problematizzando l’incontro-scontro fra due Turchie, quella modernista, laica, benestante e occidentalizzata e quella povera, di origine agricola, legata ai valori tradizionali e conservatori di un’etica religiosa e patriarcale. In realtà questi mondi, che appaiono paralleli, tendono in realtà a intrecciarsi e a contaminarsi. Il riconoscimento fra i due mondi, che in partenza pareva impossibile, comincia, gradualmente, a svilupparsi. Peraltro a facilitarlo vi è l’attitudine tendenzialmente egualmente patriarcale degli uomini verso le donne. Purtroppo il secondo episodio non è all’altezza del primo e lascia intendere che presumibilmente nel suo sviluppo la serie non sarà all’altezza delle aspettative che ha suscitato. Anche se indubbiamente vi sono buone trovate formali, come la ronde che porta le storie dei personaggi a incrociarsi. D’altra parte vi è una certa tendenza a subire l’egemonia dei modelli irrazionalisti e postmoderni europei.

Il terzo episodio, come spesso accade, ridà un po’ di ritmo alla serie dopo il secondo episodio fiacco e, in generale, funzionale ad allungare il brodo. Prosegue e si arricchisce la ronde, emerge sempre più l’attitudine fascista dell’ex militare religioso, fra Erdogan e i Lupi grigi, ma anche il fascismo quotidiano pariolino della psichiatra occidentalizzata. Come emerge il maschilismo del ricco Don Giovanni e il suo uso strumentale delle donne. Resta di fondo la subalternità di molti dei registi dei paesi in via di sviluppo che, per darsi un tono e conquistarsi una distribuzione di nicchia internazionale, riprendono aspetti postmoderni tipici del cinema continentale, anche se in questo caso mediati con gli aspetti culinari necessari a rendere profittevole la merce dell’industria culturale. Anche se si tratta di merce di qualità, congeniata in modo raffinato, con personaggi e dialoghi interessanti.

Il quarto e il quinto episodio allargano ulteriormente la ronde dei personaggi e sviluppano lo scavo psicologico dei protagonisti. Peraltro in questi ultimi si può cogliere, in particolare nella protagonista femminile, un significativo sviluppo grazie alle sedute con la psicoanalista occidentalizzata. È molto realisticamente presentato il tipico esponente machilista, ultraconservatore, che incarna in pieno il fascismo quotidiano e la schiavitù domestica che impone alle donne del proprio nucleo famigliare. La serie da una parte mostra la sua originalità e una significativa cura dei particolari anche se talvolta annoia o perché allunga troppo il brodo o perché prova a darsi le arie da film d’autore postmoderno europeo. Peccato che l’unica figura della serie con alcune caratteristiche rivoluzionarie non venga adeguatamente approfondita e non occupi una funzione più centrale nella vicenda, anche se metterebbe a rischio la meticolosa rappresentazione dei diversi tipi sociali presenti nella contemporanea Turchia.

Il sesto episodio segna una profonda cesura nei rapporti fra i personaggi che avevamo visto costruirsi negli episodi precedenti. Si rimescolano le carte, anche se gli sviluppi non sono particolarmente significativi. Il settimo episodio è in parte noioso, per il vezzo autoriale unito al difetto delle serie di tirarla per le lunghe. Anche se vi sono due momenti significativi, il confronto fra la donna e il suo passato stupratore e lo scontro fra le due sorelle kurde in cui, quella che ha sviluppato una coscienza per certi aspetti rivoluzionaria, accusa l’altra, che ha seguito al contrario la strada dell’integralismo religioso, di essersi posta al servizio di coloro che hanno preso a calci la madre, quando era incinta, facendole partorire un bambino gravemente handicappato e hanno costretto la famiglia a trasferirsi in città. Anche se quest’ultima questione, decisamente la più sostanziale della serie, continua a rimanere troppo sotto traccia.

Nell’episodio alcuni equilibri saltati si ricompongono, anche se in modo non del tutto soddisfacente per quanto riguarda la vicenda dello stupro. Anche perché la ragione della sofferenza della donna non può essere legata esclusivamente alla volontà di vendetta per la violenza subita ma al dover convivere con un uomo il cui agire, improntato al fascismo quotidiano, è di per sé violento.

L’ultimo episodio si chiude con una completa catarsi dei drammi in atto, quasi da commedia, in quanto la rottura è solo sfiorata e si ricompone di fatto la situazione di partenza, anche se comunque a un livello superiore e di maggiore consapevolezza. D’altra parte, questa compiuta conciliazione delle profonde contraddizioni è poco credibile e sembra il frutto di un mero idealismo soggettivo. Resta comunque il livello nel complesso alto di questa serie tv, decisamente superiore ai prodotti dell’industria culturale occidentale.

Elegia Americana di Ron Howard, drammatico, Usa 2020, voto: 6,5; il film descrive con sano realismo le drammatiche condizioni di vita delle classi popolari statunitensi e le enormi difficoltà da affrontare per realizzare un’ascesa sociale, naturalmente molecolare, di chi proviene da famiglie di lavoratori a causa della sostanziale privatizzazione del sistema dell’istruzione. Peccato che, nonostante tutto, il film provi a rilanciare il sogno americano, ossia nel caso specifico la possibilità di un proletario di poter accedere alle classi medie. Peraltro nel film non si mostra come, per poter raggiungere tali obiettivi, i figli delle classi popolari sono costretti a indebitarsi fino al collo, svolgendo così mansioni da colletti bianchi pur continuando ad avere un reddito da proletari a causa degli interessi sul debito. Inoltre si presenta in modo sostanzialmente acritico la necessità che hanno figli delle classi popolari, per poter accedere alle grandi università private, di farsi sfruttare in lavoretti precari sin da minorenni e di doversi arruolare e prendere parte alle pericolose e criminali aggressioni imperialiste all’estero dei marines. Anzi, questa opportunità viene presentata come un mezzo quasi provvidenziale che consente ai figli del popolo di potersi pagare, almeno in parte, gli studi. Infine, il film non sottolinea a sufficienza che il caso in questione non è altro che l’eccezione che conferma la regola, ovvero che il sedicente sogno americano non è altro che un mito politico reazionario.

Rifkin’s Festival, Woody Allen, Usa, Spagna 2020, voto: 6+; film piuttosto sottotono e alquanto ripetitivo di un grande regista che sembra abbia, oramai, poco di significativo da comunicare. Interessante l’autocritica del cinefilo snob e i sogni del protagonista immaginati all’interno dei grandi classici del cinema europeo amati dal regista. Decisamente poco convincente la prova del protagonista, nella sua interpretazione di un personaggio identificabile con Woody Allen.

Se succede qualcosa, vi voglio bene di Michael Govier e Will McCormack, cortometraggio di animazione, Usa 2020, distribuito da Netflix, voto: 6+; sinceramente da un cortometraggio di animazione vincitore di un premio Oscar ci si aspetterebbe qualcosa di più. Ciò non toglie che il cortometraggio è certamente debitamente rifinito ed evita cadute nel postmoderno o nell’ideologia dominante. Inoltre, sebbene in modo troppo poco approfondito, denuncia le stragi perpetuate, spesso nelle scuole, negli Stati Uniti.

Nessun nome nei titoli di coda di Simone Amendola, documentario, Italia 2019, voto: 4,5; documentario ultra postmoderno, con regista e sceneggiatore che rifiutano il loro ruolo di raccontare una storia – come quella narrata nel film dei lavoratori manuali di Cinecittà – da un punto di vista universalizzante e si limitano a filmare gli eventi dal punto di vista più distorto, dallo sguardo soggettivo del cameriere. La totalità, la storia, la società e le classe sociali spariscono e restano i ricordi di una persona anziana scarsamente istruita con le sue fissazioni soggettivistiche. In definitiva il regista aveva materiale sufficiente a fare un cortometraggio, con alcune trovate divertenti di personaggi che sembrano i modelli delle migliori gag di Verdone. Avendolo inutilmente dilatato per realizzare un lungometraggio il risultato non poteva che essere noioso e pesante.

Sesso sfortunato o follie porno di Radu Jude, drammatico, Romania, Repubblica ceca, Lussemburgo e Croazia 2021, voto: 3; film insostenibile, ultraideologico dal punto di vista formale, essendo completamente improntato all’ideologia dominante continentale postmoderna, e reazionario dal punto di vista del contenuto, dal momento che spaccia come rivoluzionari i controrivoluzionari del 1989, che hanno aperto la strada alla transizione al capitalismo nella sua forma più selvaggia. Colpisce – anche se nel film lo si vorrebbe addirittura interpretare, in modo rovescista, come conseguenza del socialismo – il livello davvero barbaro prodotto dalla controrivoluzione capitalista. Una società povera, dove tutto è ridotto a merce e domina l’individualismo e la conseguente asocialità più sfrenata. La assoluta insostenibilità dei film prodotti nei paesi in cui si è affermata la controrivoluzione, lasciano molto da riflettere sul ruolo svolto dallo Stato durante l’abortita transizione al socialismo, che ha cercato di dare un indirizzo etico-politico alle produzioni, completamente finanziate con soldi pubblici. Se in quel sistema vi erano evidenti limiti, l’attuale neoliberismo non è certamente preferibile. Inoltre il film, fra i più sopravvalutati dell’anno, mostra ancora una volta come lo spirito del mondo abbia da tempo abbandonato il continente europeo. La cinematografia di questo continente, a partire dai film presentati e premiati dai festival ed esaltati dalla dominante critica cinefila, è completamente imbevuta dell’intollerabile pensiero unico postmoderno, imperante nell’Europa continentale. Ancora una volta il festival di Berlino rispecchia, con i suoi premi, quanto possa essere reazionario l’imperialismo tedesco.

We Are Who We Are, miniserie televisiva italo-statunitense co-creata e diretta da Luca Guadagnino per HBO e Sky Atlantic in 8 episodi, voto: 2,5; serie insostenibile, spaventosamente appesantita dall’ideologia dominante continentale: il postmoderno. È davvero impressionante constatare quanto si sia affermato il fascismo quotidiano, dal momento che una serie ambientata nella base Nato in Veneto – centro di tutti gli intrighi della strategia della tensione – possa affrontate la presenza di tale centro eversivo e base di partenza delle aggressioni imperialiste ai popoli del Sud del mondo in modo del tutto acritico. Per di più con la coperture ideologica dell’unico quotidiano “sedicente” comunista, che spaccia questo mediocrissimo prodotto dell’industria culturale come un capolavoro.

09/07/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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