“Tutto quello che resta di te”: un film palestinese, un silenzio in aula, una lezione di umanità

Mentre il Ministero invita le scuole alla “neutralità”, gruppi di docenti scelgono il cinema per restituire voce e dignità alla Palestina, e il silenzio in sala svela l’urgenza di chiamare le cose col loro nome.


“Tutto quello che resta di te”: un film palestinese, un silenzio in aula, una lezione di umanità

Tutto è cominciato in un consiglio di classe, in una seconda di un istituto tecnico della periferia di Milano. Erano giorni in cui Gaza era già ridotta in macerie, quando le immagini dell’esercito israeliano che entrava nella Striscia con i carri armati riempivano schermi e coscienze. Proprio in quel contesto, mentre il dibattito pubblico si sfilacciava tra censure e accuse di “politicizzazione”, il dipartimento di lettere proponeva agli studenti la visione di Tutto quello che resta di te, film palestinese scritto, diretto, co-prodotto e interpretato da Cherien Dabis.

La proposta, apparentemente semplice, non lo era affatto. Pochi giorni prima, la dirigente dell’istituto aveva impedito al collegio docenti di votare una mozione — sottoscritta da oltre l’80% degli insegnanti — che faceva riferimento esplicito al genocidio in Palestina. Non si era appellata a un principio di neutralità, ma era stata ben in linea con le indicazioni ministeriali contro le presunte mozioni politiche nelle scuole, diffuse all’inizio dell’anno scolastico, proprio per offuscare il clima di contrarietà molto sentito dalla maggioranza delle persone al genocidio in Palestina.
Così, portare un film palestinese a scuola è diventato per noi insegnanti anche un piccolo atto di resistenza culturale, un modo per restituire umanità e parola a ciò che la cronaca stava tentando di ridurre a rumore di fondo.

Durante il consiglio di classe, quasi tutti i docenti si erano espressi a favore. Solo un insegnante di diritto chiese di mettere a verbale la propria contrarietà senza motivarla per non entrare in un lungo dibattito; un’altra, più titubante, temeva che un film “palestinese” potesse essere troppo violento per ragazzi di quindici o sedici anni.
Ma il film di Dabis — lo avevamo visto — non è violento nel senso cinematografico del termine: non ci sono esplosioni, né sangue, né vendette. La violenza è quella invisibile, che passa attraverso la perdita della casa, della terra, della dignità. È la storia di una famiglia benestante palestinese che da Jaffa , attualmente un municipio di Tel Aviv, nel 1948 viene sradicata dalla propria casa: tre generazioni raccontate con un realismo pudico e una tenerezza dilaniante.

Girato tra Giordania, Cipro e Grecia, a causa dell’impossibilità di lavorare in Palestina dopo l’ennesima escalation bellica, Tutto quello che resta di te porta sullo schermo l’intimità della storia palestinese dalla Naqba fino al 2022, prima del genocidio. Presentato al Sundance Film Festival 2025, è stato accolto con grande consenso e scelto come candidato giordano agli Oscar 2026 per il miglior film internazionale. La critica ne ha lodato la capacità di intrecciare memoria storica e poesia visiva, con una regia che evita la retorica e cerca invece la “vibrazione umana” del trauma.

Quando ho accompagnato i miei studenti al cinema, l’emozione era palpabile. In sala, gremita di ragazzi coetanei del giovane protagonista che nel film viene colpito da un proiettile, è calato un silenzio assoluto. Vent’anni di carriera non mi avevano mai restituito un silenzio così denso: non distratto, non imposto, ma attraversato da un ascolto collettivo raro. Nel cinema lo smartphone è stato tenuto in tasca, il silenzio era eloquente, quasi sacro. Personalmente durante la proiezione ho faticato a non scoppiare a piangere, trattenendo un urlo che saliva da dentro, sapevo, come la maggior parte dei ragazzi presenti al cinema, come sarebbe andata a finire la storia dei palestinesi che il film non racconta.

Quella sera ho capito che forse la collega, nel suo modo involontario, aveva avuto ragione: Tutto quello che resta di te è un film “violento”, ma lo è per chi non vuole vedere. Per chi, proprio come il docente di diritto, ha trascorso una vita a negare l’occupazione delle terre, l’apartheid e il genocidio, rifugiandosi dietro l’illusione di una neutralità che, in realtà, è complicità; per chi considera la sofferenza altrui come un tema geopolitico e non come una ferita dell’umanità.

Il film di Dabis non urla, ma scava. E nel suo silenzio chiede una cosa: non perdere la propria umanità.
Una domanda che arriva troppo tardi e che durante i titoli di coda continuava a rimbalzarmi dentro: di quale umanità parliamo, se abbiamo lasciato che tutto ciò accadesse?

In un tempo in cui anche il linguaggio viene militarizzato, portare un film palestinese in una scuola italiana è diventato un gesto politico nel senso più alto e originario: un atto di educazione civica, di memoria e di empatia. Non si trattava di “prendere posizione”, ma di restituire uno sguardo.
E quello sguardo, in un cinema carico di adolescenti che non aveva mai taciuto così, è diventato per un’ora e mezza la più importante lezione di storia contemporanea che potessimo offrire.

07/11/2025 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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