Recensioni di classe 18

Brevi e taglienti recensioni di classe a I Care a Lot, La trincea infinita, The Climb – La salita e alle serie tv: Un volto, due destini – I Know This Much Is True e Anna.


Recensioni di classe 18

I Care a Lot di J. Blakeson, drammatico, Gran Bretagna 2020, voto: 6,5; il film contiene una denuncia estremamente significativa della gestione privatizzata della terza età nei paesi anglosassoni, che il governo Draghi, d’accordo con l’Unione europea, intenderebbe introdurre anche in Italia. Vediamo così una spregiudicata imprenditrice farsi dare dal medico curante corrotto e da un giudice ingenuo in affido persone anziane prive di parenti o con parenti non in grado di farsi valere, per saccheggiarne gli averi, grazie alla collaborazione del dirigente di un ospizio altrettanto corrotto. Nel film vi è anche una magistrale demistificazione del sogno americano, per cui l’idea che si possa aver successo grazie al duro lavoro viene giustamente presentata come un mito inventato dai ricchi per mantenere i propri privilegi. Dunque, la protagonista è realisticamente convinta che l’unico modo per emergere nella società capitalista – nella fase in particolare dell’accumulazione primitiva – è divenire uno squalo, anche perché l’unica alternativa per chi non è ricco di famiglia sarebbe rimanere una preda. Peccato che tale sacrosanta critica dell’avidità e della sete di potere, finisca – almeno in parte – per essere quasi giustificata, nel momento in cui si trova a scontrarsi con i soliti ultracattivi, cioè i russi, come di consueto rappresentati come mafiosi. Egualmente deprecabile è il solito individualismo sfrenato della protagonista, che viene presentata come una superdonna, senza quel necessario effetto di straniamento indispensabile a poterne considerare, in modo realmente critico, i crimini necessari a emergere in una società solo apparentemente e ipocritamente meritocratica.

Un volto, due Destini – I Know This Much Is True, miniserie televisiva statunitense del 2020, tratta dal romanzo del 1998 La notte e il giorno di Wally Lamb, trasmessa su Sky Atlantic, voto: 6,5; intrigante, dura e realistica serie, almeno nel primo episodio in cui assistiamo alla scena madre, con il fratello del protagonista con problemi psichici che, nella tradizione del pacifismo religioso integralista, statunitense arriva a sacrificarsi una mano per protestare contro la guerra in Kuwait. Per la società imperialista è solo un matto pericoloso, da rinchiudere in un manicomio privato, per il fratello che conosce la loro tragica vita infantile è, invece, il segno che il fratello per la prima volta ha superato la propria costante incertezza e ha portato a termine un’azione, con cui ha comunque affermato la propria libertà. Naturalmente l’oppressiva società imperialista non la vede così e, dopo aver tentato invano di riattaccare all’uomo la mano sacrificata, lo considera un pericolo pubblico, rinchiudendolo in un manicomio criminale dove rischia di perdere completamente il senno e la dignità.

Purtroppo già nel secondo episodio e ancora più nel terzo gli spunti significativi e le contraddizioni reali che sembravano manifestarsi dal primo episodio vengono meno. L’opposizione alla guerra del fratello viene ridotta a un puro atto di follia, di una persona che pensa solo a se stessa (!?). La critica al manicomio criminale come istituzione totale, rientra anch’essa nelle paranoie di un folle. Peraltro, poi, è tutt’altro che una istituzione totale, visto che vi si trovano una valida assistente sociale e una disponibilissima e materna psicologa, che si fanno in quattro per aiutare i due fratelli. Senza contare che il protagonista, su cui è essenzialmente incentrata la serie, si rivela gratuitamente crudele. In tal modo, la vicenda perde sempre più di interesse, venendo meno tutti i temi sostanziali. Resta solo l’abilità dell’attore protagonista a rappresentare al contempo i due fratelli così diversi e così eguali. Una notevole abilità, ma che rischia di rimanere del tutto fine a se stessa.

Fortunatamente nel quarto episodio la serie si riprende. Alcuni aspetti che apparivano gratuitamente crudeli del protagonista trovano una spiegazione, per quanto non sempre verosimile. Le critiche del fratello matto alla guerra appaiono, comunque, decisamente più sensate delle posizioni filoimerialiste e improntate al fascismo quotidiano dell’americano qualunque. Per quanto assistente sociale e psicoanalista siano inverosimilmente in gamba e a completa disposizione del protagonista, il manicomio criminale, almeno per il fratello, riassume i suoi connotati di istituzione totale. Infine nell’accanimento della corte, che appare pronta a tutto pur di corrispondere alle aspettative dell’opinione pubblica – coinvolta nel caso attraverso la stampa – riemerge un po’ di sana critica sociale. Infine, i comportamenti un po’ inverosimili del protagonista, a tratti eccessivamente altruista, a tratti spietatamente individualista, finiscono per trovare un equilibrio, nella tragica situazione familiare in cui i fratelli sono cresciuti e dai sensi di colpa, che insorgono nel protagonista quando comprende di essere corresponsabile del tragico destino suo e del fratello, con il suo darwinismo sociale che, peraltro, diviene verosimile considerando quanto tale posizione ideologica sia diffusa negli Stati Uniti.

Com’era prevedibile, la serie tocca il fondo con il quinto episodio, dove emerge il profondo razzismo ancora esistente nei confronti degli italiani emigrati negli Stati Uniti, soprattutto se meridionali. La rappresentazione che si dà dei siciliani emigrati negli Stati Uniti tre generazioni fa è davvero insostenibile. Non ci sono nemmeno i soliti luoghi comuni e pregiudizi, mai i siciliani sono completamente disumanizzati. Per altro si accentuano i tratti positivisti già presenti in nuce negli episodi precedenti, per cui gli attuali drammi della famiglia deriverebbero da una maledizione (?!) lanciata contro i discendenti da una donna siciliana, ridotta addirittura a una strega.

La serie si salva nell’ultimo episodio, grazie alla capacità egemonica statunitense, che porta questo paese, al contrario degli europei, a intuire che la tragedia è tale solo se si conclude con la catarsi. Anzi più esplodono le contraddizioni più l’inattesa catarsi è liberatoria. Sulla superstizione si afferma la visione scientifica del mondo della psicologa, il fratello malato è in parte redento dalla violenza machista che non ha dato spazio alla sua omosessualità. Infine, viene meno finalmente la spiegazione positivista e il mistero si scioglie in senso progressista. Sono i pregiudizi razziali – anche se vengono fondamentalmente confinati alla comunità italoamericana – e in particolare l’oppressione degli amerindi, a costituire il rimosso che tante contraddizioni ha aperto nel processo di formazione del protagonista. Peccato che, come di consueto, nella catarsi ci sia una caduta ideologica, che porta acqua al mulino della reazionaria concezione mitologico-religiosa del mondo.

La trincea infinita di Aitor Arregi, Jon Garaño e José Mari Goenaga, Spagna/Francia, drammatico 2019, voto: 5; film candidato all’Oscar come migliore film spagnolo, incentrato su un tema sostanziale, risulta non solo noioso, ma di fatto controrivoluzionario. Peraltro con il suo qualunquismo e la sua verve antipolitica, dimostra di avere pienamente introiettato il principale frutto avvelenato della dittatura franchista, ovvero la completa spoliticizzazione non solo del popolo, ma degli stessi intellettuali tradizionali. Così una eroica lotta contro la spaventosa repressione scatenata dai franchisti, viene in modo rovescista presentata come un consapevole riflusso nel privato e un’ode alla vita animale dello spirito. Tutto incentrato com’è sulla vita familiare e sulla sfera del privato, del caso unico, la durata di quasi due ore e trenta rende il film insopportabile.

Anna, miniserie televisiva italiana del 2021 creata da Niccolò Ammaniti. La serie, composta da sei puntate, è basata sull’omonimo romanzo del 2015 di Ammaniti, voto: 3+; la serie e il romanzo da cui è tratta sono riusciti a prevedere, sotto diversi aspetti, la pandemia che di lì a poco sarebbe esplosa, a ulteriore dimostrazione che con una buona preparazione in materia essa era del tutto prevedibile, a riprova di quanto criminosa sia stata la mancanza di prevenzione dei paesi liberali occidentali. Interessante anche la raffigurazione di un mondo, improvvisamente dominato dall’anarchia, a ulteriore dimostrazione che lo Stato deve essere superato dialetticamente e non negato e distrutto astrattamente, come pretendono gli anarchici, altrimenti si riprecipiterebbe in uno stadio prossimo a quello di natura o a quello che si vive, per esempio, in Somalia. D’altra parte, come di consueto, lo scrittore non è in grado – come tutti o quasi gli intellettuali tradizionali (borghesi), di immaginare un futuro che non abbia connotati necessariamente apocalittici. La solita trovata conservatrice, volta a una apologia indiretta del sistema imperialista, per quanto in crisi e nella sua fase di putrescenza, visto che altrimenti l’unica alternativa sarebbe precipitare in uno stato di natura esattamente identico a quello ideato da Thomas Hobbes per affermare la sua concezione assolutista. Mai che ci fosse, quantomeno, l’alternativa alla apocalisse nella possibilità di superare il capitalismo in un sistema più giusto e razionale. Anzi, non solo il destino a tinte fosche si dà per necessario, ma altrettanto necessaria appare la pandemia, per cui non si può che prenderla e morire a una certa età. Anche in questo caso si finisce per naturalizzate l’assoluta incapacità dell’imperialismo occidentale di prevenire, tracciare e mettere in isolamento i contagiati. Infine, come generalmente spesso avviene nel cinema europeo che si voglia dare un tono da autore, gli episodi della serie finiscono con l’essere inutilmente pesanti e lunghi, finendo con l’annoiare sempre più lo spettatore, non avendo per altro oltre che il ritmo, qualcosa di sostanziale da narrare al di là dei due – sopra ricordati – spunti iniziali.

The Climb – La salita di Michael Angelo Covino, commedia, Usa 2019, voto: 3+; commedia demenziale senza arte né parte che stenta a far sorridere gli spettatori. Già dal titolo, il film sembra pensato come un cortometraggio, anche perché il lungometraggio è davvero privo di contenuti sostanziali e finisce per annoiare e appesantire la prima parte, l’unica relativamente piacevole. Per il resto si tratta di una merce di evasione di scadente qualità, un prodotto puramente culinario dell’industria culturale.

16/07/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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