Il marxismo della II Internazionale – II parte

Dalla contraddizione fra massimalismo teorico e riformismo pratico sorge il revisionismo.


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Segue da numero precedente / Link alla lezione

Il “programma massimo” e il “programma minimo”

Nel suo commento al Programma di Erfurt (1892), che all’epoca ha una vastissima risonanza, Kautsky cerca di mostrare come una politica di riforme non sia sufficiente a superare la crescente contraddizione fra lo sviluppo in senso sempre più sociale delle forze produttive e i rapporti di proprietà sempre più caratterizzati dall’appropriazione privata della ricchezza. Perciò il “programma massimo” (da cui sarà coniato il termine massimalista) del partito deve mirare a una rivoluzione, non necessariamente violenta, che socializzi i mezzi di produzione, superando la divisione della società in classi sociali.

Ciò non significa, però, che vi sia un processo naturale di sviluppo che porterà necessariamente alla rivoluzione, né che non sia necessario attuare un programma di riforme che favoriscano l’avvento del socialismo. Queste ultime, che caratterizzano il “programma minimo di classe”, sono essenzialmente: il suffragio universale e la fine di ogni discriminazione di genere sul piano politico; l’istruzione pubblica gratuita; una legislazione volta a favorire i ceti sociali più svantaggiati e la sostituzione delle imposte indirette, che colpiscono allo stesso modo ricchi e poveri, con imposte dirette (pagate sulla base del reddito percepito) e progressive (più si è ricchi e più aumenta il carico fiscale) sul piano socio-economico.

I limiti culturali del marxismo di Kautsky

D’altra parte la formazione teorica di Kautsky è di livello decisamente inferiore a quella di Marx ed Engels. Così la sua conoscenza piuttosto superficiale dei fondamenti filosofici del marxismo e, in particolare, della dialettica hegeliana, gli impedisce di emanciparsi pienamente da una lettura in chiave evoluzionista del processo storico e, quindi, dall’influenza dello scientismo positivista e del darwinismo sociale egemoni nella cultura del tempo. Al punto che Kautsky ritiene possibile spiegare il comportamento etico e morale degli uomini attraverso gli impulsi sociali più immediati, fondendo così darwinismo e marxismo e tornando dalle posizioni del materialismo dialettico, a quelle del materialismo rozzo di Feuerbach. Inoltre, influenzato dall’evoluzionismo darwiniano, Kautsky riteneva il marxismo una scienza materialista della società che dimostrerebbe la necessità del crollo del capitalismo a causa delle sue stesse intime contraddizioni e, quindi, l’avvento del socialismo quale soluzione di esse, ossia quale prodotto di un’ulteriore evoluzione sociale. Solo dopo esser divenuto il principale collaboratore di Engels, Kautsky matura la necessità di non confondere il marxismo con il positivismo evoluzionista.

L’influenza dell’ideologia dominante, ovvero del determinismo positivista sull’opposizione socialista

Del resto, negli ultimi decenni dell’ottocento, l’egemonia della cultura positivista è talmente forte da influenzare in modo profondo lo stesso movimento socialista, al punto che il tardivo tentativo di un intellettuale raffinato come Kautsky di arginare tale egemonia ottiene risultati modesti. Tanto che un po’ tutto il marxismo tardo ottocentesco tende progressivamente a contaminarsi con l’evoluzionismo allora in voga.

Il dibattito sulla teoria del crollo del capitalismo

Così nel movimento socialista tende ad affermarsi la concezione che esista un progresso necessario e si diffonde la rappresentazione che la storia si evolva, secondo un necessario movimento dialettico, attraverso una successione di modi di produzione sempre più sviluppati e razionali, al punto che appariva certo il crollo del capitalismo e la conseguente affermazione del socialismo. Così, la direzione centrista, che si era affermata nella Seconda Internazionale, irrigidendo le tesi engelsiane sulle leggi della dialettica, riteneva che lo stesso sviluppo storico avrebbe automaticamente prodotto non solo la crisi del capitalismo, ma il progressivo affermarsi del socialismo.

Il massimalismo teorico e la prassi riformista

Tale attitudine fideistica, che porta a credere nell’esistenza di una sorta di astuzia della ragione che si anniderebbe nello sviluppo storico, favoriva un massimalismo teorico (il richiamo alla necessaria rivoluzione) e una prassi politica attendista e/o riformista. In effetti, in previsione del futuro crollo del capitalismo, ritenuto più o meno imminente, ogni intervento sul corso storico doveva apparire come una forzatura soggettivistica che avrebbe ritardato il collasso del sistema capitalista, dato ormai per scontato. In altri termini, veniva considerato indispensabile evitare ogni forma di forzatura soggettivista su di un corso del mondo che pareva garantire il progressivo affermarsi del socialismo. Tali tesi, del resto, sembravano confermate dalla stessa cultura positivista che nel frattempo si era affermata nella società borghese.

Tanto più che in Germania, nell’ultimo decennio dell’ottocento, il Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) esce dalla clandestinità in cui era stato costretto a causa delle leggi speciali emanate da Bismarck – fra il 1878 e il 1890 – e la sua crescita tanto nei consensi elettorali quanto all’interno della società civile appariva inarrestabile. Tale crescita del movimento operaio era del resto ravvisabile in quest’epoca in praticamente tutti i paesi dove si era sviluppato il modo di produzione capitalista, al punto che per arrestarlo sarà necessario – per le classi dirigenti al servizio della classe dominante decisa a preservare, a ogni costo, i propri privilegi – un conflitto mondiale. D’altra parte proprio questa apparentemente inarrestabile affermazione delle forze socialiste favorisce nei gruppi dirigenti, in primo luogo del sindacato e della SPD, l’affermazione di quell’aristocrazia operaia – prodotto tipico di quest’epoca non a caso definita età dell’imperialismo – decisa a lasciare sempre più sullo sfondo il progetto rivoluzionario, in nome di una politica realista che avrebbe garantito il progressivo ampliamento degli spazi di democrazia all’interno della società borghese e il progressivo miglioramento delle condizioni di vita dei ceti subalterni. Tale prassi politica, sempre più apertamente riformista, era indubbiamente favorita da una crescita economica – grazie anche al passaggio alla fase di sviluppo imperialista del capitalismo – che pareva inarrestabile, consentendo ai capitalisti margini di profitti tali da poterne ridistribuire una parte ai lavoratori salariati, sotto forma di aumenti salariali, in modo da impedire la radicalizzazione in senso rivoluzionario di un forte movimento operaio.

Il revisionismo di Bernstein

Quale interprete teorico di tale prassi riformista si è proposto uno dei principali intellettuali del gruppo dirigente socialdemocratico: Eduard Bernstein (1850-1932). Esponente di spicco del Partito Socialdemocratico Tedesco, dopo essere stato a lungo considerato il miglior allievo e il “naturale” successore di Kautsky, in una serie di articoli apparsi su “Die Neue Zeit” a partire dal 1896, poi rielaborati nel libro I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899), si propone di porre fine alla contraddizione fondamentale esistente nel suo partito tra la prassi gradualista e il programma massimalista e rivoluzionario, ripensando la seconda in funzione della prima. Così, muovendo dall’esigenza di dare un fondamento teorico adeguato alla pratica politica riformista, Bernstein ritiene giunto il momento di elaborare una revisione di alcuni tratti caratteristici della teoria marxiana, presentando un ambizioso progetto di “revisionismo del marxismo”.

Le critiche di Bernstein a Marx

Tale profonda revisione del marxismo si sviluppa dalla critica alla stessa teoria del valore lavoro, vera e propria pietra angolare de Il capitale di Marx e della stessa economia classica, per rimettere radicalmente in discussione l’interpretazione marxiana del modello di accumulazione capitalista. Bernstein considera la presunta legge marxiana del valore una semplice ipotesi al pari di altre e, proprio perciò, la stessa concezione del capitalismo di Marx non sarebbe altro che una teoria astratta, inessenziale per la pratica politica socialista. Tanto più che Bernstein riconosce come valide talune delle critiche rivolte a Marx dai liberali, ritenendo alcune previsioni marxiane smentite dallo stesso sviluppo storico, a partire dalla tesi del progressivo impoverimento della classe dei lavoratori salariati. In tal modo, la loro funzione storica di soggetto rivoluzionario, che non avrebbero avuto altro da perdere, in una pratica rivoluzionaria, che le proprie catene, pareva essere smentita dalla stessa realtà.

Più in generale Bernstein considera altre tesi fondamentali dell’opera di Marx formulate in relazione ad un contesto storico che nel frattempo si era decisamente modificato, a partire dalla tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto che avrebbe dovuto portare necessariamente a crisi sempre più ampie del capitalismo, crisi che, a parere di Bernstein, non si erano verificate. Anzi, non solo il “crollo” del capitalismo sopraffatto dalle proprie contraddizioni, che avrebbe previsto Marx, non c’era stato, ma non si era neppure prodotta la polarizzazione della società, mediante la contrapposizione tra una sempre più ristretta cerchia di grandi capitalisti e una massa crescente di lavoratori salariati ridotti in miseria. Al contrario vi sarebbe stata, a parere di Bernstein, un’espansione della proprietà diffusa, che avrebbe consentito la formazione di un vasto e complesso ceto sociale intermedio. Bernstein sostiene, inoltre, che in seguito alle contraddizioni denunziate da Marx, il capitalismo sarebbe stato in grado di elaborare strumenti e meccanismi di autoregolazione che gli avrebbero consentito e gli consentirebbero di superare le proprie crisi, sviluppandosi ulteriormente. A titolo di esempio Bernstein cita, oltre l’aver favorito lo sviluppo dei ceti sociali intermedi, il miglioramento delle condizioni di vita di ampi strati delle stesse classi lavoratrici, lo sviluppo delle società per azioni, che consentirebbe l’allargarsi e non – come aveva a torto previsto Marx – il restringersi del numero di individui che partecipano al profitto prodotto dalle grandi imprese.

La critica ai presupposti filosofici del marxismo

Più radicalmente, rifacendosi al socialismo positivista – affermatosi in primis grazie a Dühring –, Bernstein mira a porre in discussione gli stessi presupposti filosofici del marxismo e in primo luogo le sue origini nella concezione dialettica della storia di Hegel, che avrebbe portato Marx a considerare la lotta di classe il solo motore dello sviluppo storico e a ritenere necessario, per la realizzazione di ogni salto qualitativo nel corso dello sviluppo storico, una rottura rivoluzionaria dell’ordine costituito. Il marxismo avrebbe, perciò, dovuto liberarsi della nefasta influenza delle astrattezze dovute all’influenza della dialettica hegeliana e dar prova di maggiore pragmatismo.

Continua sul prossimo numero

20/08/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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