1917: Un anno lungo un secolo. Una lettura “storico-filosofica” della Rivoluzione d’Ottobre

Prima parte. L’avvio del processo rivoluzionario in Russia: dalla guerra all’insubordinazione. Il crollo dello zarismo e la repubblica borghese.


1917: Un anno lungo un secolo. Una lettura “storico-filosofica” della Rivoluzione d’Ottobre Credits: http://cultura.biografieonline.it/wp-content/uploads/2016/02/Famosa-foto-di-Lenin-Rivoluzione-russa.jpg

Prima parte – L’avvio del processo rivoluzionario in Russia: dalla guerra all’insubordinazione. Il crollo dello zarismo e la repubblica borghese.

L’anno corrente è denso di anniversari: il più annunciato ed atteso è ovviamente è quello della Rivoluzione d’Ottobre, che nel 1917 ha modificato profondamente le sorti innanzitutto della Russia, poi dell’Europa, e infine del mondo intero. La sequela di rivoluzioni susseguitesi nel corso dell’anno 1917, dal Febbraio all’Ottobre (secondo il calendario giuliano), ha travolto una dinastia secolare e un impero enorme, relazioni sociali consolidate da secoli su privilegi feudali, istituzioni parlamentari borghesi, l’apparato militare e l’arretrato complesso proto-industriale: soprattutto, l’Ottobre ha impresso una profonda cesura nella storia occidentale e planetaria, inaugurando un nuovo corso delle relazioni tra Stati e lanciando un esperimento storico su scala continentale di proporzioni gigantesche, senza precedenti, con l’obiettivo di proseguire - mediante un rovesciamento dialettico (secondo i principi del “materialismo storico”) della società instaurata dalla Rivoluzione francese del 1789 - l’emancipazione dell’umanità fino alla distruzione di ogni forma di diseguaglianza e di ingiustizia, non più solamente sul piano formale, ma su quello sostanziale.

In questo anno cadono anche altri anniversari importanti, non così determinanti sul piano storico, ma altrettanto pregnanti per quanto riguarda la dimensione di un “immaginario collettivo” rivoluzionario, o di quanto ne sopravvive: l’ottantesimo anniversario della morte di Antonio Gramsci, avvenuta il 27 aprile 1937 dopo un decennio tra confino e detenzione nelle carceri fasciste, e il cinquantennale della morte di Ernesto “Che” Guevara, ucciso il 9 ottobre 1967 dall’esercito dopo la cattura in Bolivia.

Sono eventi molto distanti tra loro, anche se appartengono alla storia di quella che possiamo definire la medesima famiglia (dei rivoluzionari marxisti, con tutte le sfumature, le peculiarità e le differenziazioni che si sono sedimentate nel corso dei decenni): in comune, possiamo rintracciarvi gli ideali di liberazione, non solamente immaginati e sognati, ma perseguiti con azioni pratiche, con l’abnegazione e il sacrificio di sé fino alla morte, che hanno la matrice e l’ispirazione nella Rivoluzione d’Ottobre in cui trionfarono i bolscevichi guidati da Vladimir Ilich Ulianov, detto Lenin, che a sua volta si ispirava alle eroiche gesta dei Comunardi parigini del 1870.

È quindi un’occasione di rilettura, ripensamento e ri-scoperta non solo e non tanto degli eventi, quanto delle condizioni (passate, presenti e future) che hanno prodotto e permesso quello strappo nel tessuto, ormai distrutto, della civiltà europea: assieme alle celebrazioni per uno degli eventi fondamentali, nonché fondativo, per la storia dei rivoluzionari, dei comunisti e dell’intera umanità, si tratta oggi di comprendere le condizioni e le dinamiche che hanno permesso il profondo radicamento della Rivoluzione d’Ottobre nella storia d’Europa e del mondo, nel corso del Novecento (il “secolo breve” secondo la formula dello storico marxista inglese Hobsbawm). Un radicamento politico e sociale, con effetti economici non secondari anche nei paesi a democrazia parlamentare dell’Occidente europeo (la stagione delle riforme socialdemocratiche e della creazione dello Stato Sociale con i servizi pubblici), ma anche ideologico e culturale: per molti anni l’immaginario popolare è stato egemonizzato dalle prospettive della costruzione del socialismo (anche se “in un paese solo”), ed è stato un potente antidoto alla propaganda anticomunista e antisovietica diffusa nei paesi occidentali, sottoposti all’integrazione di un’alleanza geopolitica euro-atlantica e dettata dall’imperialismo statunitense tramite il braccio armato della NATO.

Si tratta però anche di avviare un bilancio sui settanta anni dell’Unione Sovietica e del blocco di democrazie popolari sorte dopo il secondo conflitto mondiale, per elaborare nuovi strumenti teorici che non si riducano a fornire risposte consolatorie, né tantomeno liquidatorie, di un’esperienza radicale nella storia dell’umanità: occorre dunque sviluppare una profonda comprensione delle cause dell’inaridimento di quelle radici, individuare i processi dialettici e le sotterranee fratture della lotta di classe che hanno provocato l’involuzione delle istituzioni sovietiche e il ripiegamento, fino alla dissoluzione, dello Stato rivoluzionario costituito sulla “dittatura del proletariato”.

Il bisogno di ritessere la trama di quella svolta storica, di quello strappo in una civiltà ormai in macerie per la guerra, emerge quindi se non ci limitiamo alla logora liturgia, alla vuota rievocazione, ma soprattutto se evitiamo di incorrere in un vacuo rinnegamento dei valori e/o delle esperienze storiche di un evento straordinario sul piano storico, politico, sociale e ideologico: la celebrazione del centenario della Rivoluzione di Ottobre ha dunque un valore che oltrepassa la pura memoria (per quanto preziosa) se si intraprende, a partire da essa, la ricerca di nuova linfa e di nuove prospettive che consentano di rinnovare la lotta di classe contro il capitalismo globalizzato.

Si tratta di comprendere come quella generazione, quei milioni di uomini e donne funestati dal conflitto e lacerati dai lutti, dalla distruzione e dalla miseria, abbiano voluto, saputo e potuto interrompere, con un atto prometeico, spezzare l’incombenza del loro presente, rovesciare il proprio destino radicato in un passato secolare di sottomissione, rivolgendosi verso un futuro interamente da costruire: dal passato della rassegnazione alla speranza della liberazione, attraverso il presente dell’insubordinazione, della rivolta, della sollevazione insurrezionale, dell’attività rivoluzionaria.

L’insubordinazione, già emersa nel 1905 e resa immortale nel capolavoro di Eisenstein La corazzata Potëmkin, si estese da settori operai, relativamente circoscritti, a tutta quanta la popolazione, intrecciando le esistenze di soldati, operai e contadini in una sollevazione generale che avrebbe squassato la crosta devastata della civiltà europea, facendo fuoriuscire il magma incandescente della ribellione contro lo sfruttamento e l’annientamento di milioni di persone, contro la distruzione folle e incontenibile di interi popoli.

In Russia, nel 1917, gli spettri incatenati dell’anelito alla libertà trovarono il canale di esondazione: fu l’annuncio di un cataclisma che si sarebbe riversato sull’intero continente europeo, e che sarebbe stato in seguito violentemente arginato dalle insorgenze reazionarie del fascismo e del nazismo, e successivamente incanalate nelle democrazie parlamentari. Le enormi energie messe in moto dalle vicende del 1917 scavarono però, successivamente, nuovi canali in cui proruppero i popoli colonizzati dalle potenze europee, ormai in sfacelo e sull’orlo della dissoluzione.

Come è ben chiaro agli storici, non si può affrontare le vicende rivoluzionarie senza partire dalla situazione della guerra, che nessuno sembrava poter fermare (persino l’appello di Benedetto XV contro quella che definì, con un eufemismo, “inutile strage” rimase inascoltato): se sul piano militare il conflitto si concluse sostanzialmente per l’intervento statunitense, lo “strappo rivoluzionario” dei bolscevichi sostenuto dal popolo russo restituì voce all’antimilitarismo popolare e all’internazionalismo proletario che l’Internazionale socialista (la Seconda) aveva trascinato nel fango e nel sangue dello scontro bellico tra nazioni.

La guerra si presentò come un conflitto asimmetrico: da una parte una potenza d’argilla come l’Impero russo che, pur perseguendo interessi e scopi disomogenei, si ritrova alleata con Stati imperialisti moderni e industrializzati, come Francia e Inghilterra; sull’altro fronte, si trovarono collocate le arcaiche potenze imperiali multinazionali (Impero austro-ungarico e Impero Ottomano), alleate con la moderna espressione imperiale del II Reich tedesco, con obiettivi di dominio territoriale e militare scaturiti dalle contraddizioni inter-imperialistiche.

Quello che andò in frantumi fu un precario equilibrio politico, diplomatico e militare che ormai era andato logorandosi dalle mire di conquista del kaiser Guglielmo II e dalle contraddizioni che si stavano dispiegando tra gli interessi inglesi in Africa, che minacciavano le colonie tedesche, e la voglia di protagonismo tedesco su scala planetaria; le scosse telluriche provocate dallo scoppio della Grande Guerra minò alla radice le fondamenta delle formazioni storico-sociali esistenti, a partire da quelle putrefatte dell’Impero zarista.

La tesi che intendo sostenere e argomentare può essere così formulata: prendendo le mosse dall’ineludibile cifra fondamentale delle radici economico-sociali, che nella fase imperialistica del sistema capitalistico manifesta la spietata concorrenza del mercato e della risoluzione dei conflitti su scala inter-nazionale, e focalizzando il dominio che gli Stati impongono sui popoli irreggimentandoli, la lotta politico-militare scaturita dal 1917 deve essere considerata come il tragico contrasto tra l’agonizzante mondo imperiale - multietnico/plurinazionale e mitteleuropeo in disfacimento - e nuove nazionalità germoglianti che sgomitano per affacciarsi alla ribalta del teatro della storia; la guerra manifesta pertanto lo scontro tra società declinanti ed emergenti nell’epoca moderna, imperniate le prime su forme statuali assolutistiche dominate dall’aristocrazia (nella forma nazionalistica del Reich germanico, in quella multi-nazionale dell’Impero asburgico austro-ungarico e turco-ottomano, in quella orientale e euroasiatica dell’Impero russo), mentre le altre su forme parlamentaristiche e rappresentative della divisione di classe tra oppressi e oppressori (Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Italia).

Tuttavia, gli schieramenti militari presentavano uno scenario contraddittorio e asimmetrico, entro il quale avverrà il crollo dell’autocrazia zarista; infatti l’Impero zarista, che per omogeneità della struttura economico-sociale e politico-istituzionale avrebbe dovuto schierarsi con i cosiddetti ‘imperi centrali’ (con cui era peraltro alleata fino a pochi anni prima), era stato sospinto dalla politica dell’imperatore Guglielmo II ad una spuria intesa con Francia e Inghilterra, in una crescente spirale di mire territoriali (sui Balcani, sulla Polonia). Questa collocazione politico-militare fu alla base della destabilizzazione dell’autocrazia russa, che a quella condizione non avrebbe potuto reggere neppure se la guerra si fosse conclusa vittoriosamente per l’Impero russo: la Russia zarista era già avviata verso il collasso, come preannunciato dalla Rivoluzione abortita del 1905.

L’avvio della rivoluzione fu dato dallo sciopero delle donne operaie l’8 marzo (23 febbraio per il calendario giuliano), in concomitanza della Giornata internazionale della donna, subito seguito dalla sollevazione in molte fabbriche di operai che seguirono l’esempio delle donne. Nel giro di pochi giorni, le putrescenti istituzioni zariste crollavano, sotto la spinta delle mobilitazioni popolari, mentre si formava il Soviet di Pietrogrado che dava la spinta decisiva all’abbattimento dello zar. Iniziava così un periodo di alcuni mesi in cui il potere si presentava diviso: da una parte la Duma (il parlamento russo) che esprimeva il Governo provvisorio (guidato dal principe L’vov), dall’altra i Soviet (assemblee popolari consiliari).

In questa fase della rivoluzione in Russia, i rapporti sociali tra le classi erano condizionati dalle ideologie dominanti, anche nel campo del marxismo: assieme ai ‘populisti’ e social-rivoluzionari che sostenevano la centralità dei settori contadini nel movimento rivoluzionario, ma che finirono per allearsi con i liberali; ad esempio, Kerenskij entrò nel governo provvisorio di marzo, guidando il gabinetto della guerra e lanciando offensive militari quando il popolo chiedeva l’uscita dalla guerra, e successivamente divenne capo del governo fino al 25 ottobre (7 novembre) quando fuggì in seguito alla presa del Palazzo d’Inverno, sede del governo provvisorio, da parte dei bolscevichi; anche gli esponenti del cosiddetto “marxismo ortodosso” (come Plechanov, che in nome delle ‘leggi del materialismo storico’ di Marx riteneva necessario che la rivoluzione in Russia si dovesse fermare alla fase borghese e liberale, affinché si sviluppasse il capitalismo come tappa necessaria prima dell’avvento del socialismo) sostenevano la linea dell’alleanza con i liberali antizaristi. Le categorie dominanti, non solo quelle conservatrici, ma perfino quelle progressiste e rivoluzionarie, erano imbalsamate e chiuse in una gabbia che impediva di intravedere lo sbocco rivoluzionario socialista. Solamente Lenin intuì che la situazione era favorevole a rompere l’egemonia della concezione parlamentaristica del potere e il dominio del blocco social-liberale, acuendo il “dualismo di potere” apertosi tra Duma e Governo provvisorio, da una parte, e Soviet e partito bolscevico dall’altra.

Il “dualismo di potere” esprimeva la netta separazione dialettica tra un’istituzione fondata sul parlamentarismo liberale, dominata dai grandi interessi fondiari e dell’alta borghesia, e consigli assembleari di natura popolare, in cui si esprimevano le classi proletarie e piccolo borghesi: la consegna alla Duma, in questa prima fase della rivoluzione, della gestione del potere procrastinò solo di alcuni mesi l’affermazione della rivoluzione, guidata dai bolscevichi, che avrebbe attribuito alle masse popolari le chiavi dello Stato e del potere proletario.

(fine prima parte)

21/10/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Giovanni Bruno

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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