Ercolano e Pompei, visioni di una scoperta

Una mostra italo-svizzera per le scoperte di Ercolano e Pompei. Migliaia i visitatori.


Ercolano e Pompei, visioni di una scoperta Credits: ciaocomo.it

CHIASSO. È decisamente colto e filologico il taglio scelto per la mostra italo-svizzera al M.A.X. museo di Chiasso, nata dalla collaborazione con il MANN - Museo Archeologico Nazionale di Napoli in occasione delle iniziative per i 280 anni dalla scoperta di Ercolano (1738) e i 270 anni da quella di Pompei (1748): raccontare e documentare come sia avvenuta la comunicazione della scoperta archeologica iniziale dei due eminenti centri della romanità classica per il tramite di documenti ufficiali, ma anche attraverso le lettere, la corrispondenza colta e i cahiers de voyage acquerellati dei primi viaggiatori europei ammessi a visitare gli scavi.

Consolidatasi dopo la metà del Settecento l’iniziativa archeologica borbonica e proseguita in epoca napoleonica, la divulgazione dell’Antico che veniva riscoperto sarà affidata a rilievi, disegni, dipinti e incisioni ottenute da matrici di rame realizzate dai novelli archeologi – per lo più, artisti eccellenti – per poi giungere alla fine dell’Ottocento alle prime documentazioni fotografiche e alle cartoline che ritraevano con piglio ormai turistico, divulgativo e popolare i luoghi affascinanti e le dimore romane riportate alla luce e ove si era svolta la vita quotidiana degli antichi nelle due splendide località campane, di cui per innumerevoli secoli si era perfino smarrita la memoria del nome latino originario.

La mostra ora a Chiasso e poi a Napoli è curata da Pietro Giovanni Guzzo, già Soprintendente dei beni archeologici di Napoli e Pompei, Maria Rosaria Esposito responsabile della Biblioteca del MANN-Museo Archeologico Nazionale di Napoli, e da Nicoletta Ossanna Cavadini, direttrice del m.a.x. museo di Chiasso.

Un racconto colto fra documenti scritti e ricco di richiami filologici, mai disgiunto però dalla meraviglia che si rinnova nelle sale del MAX Museo al cospetto degli importanti reperti materiali romani esibiti in mostra, dal I secolo a.C. al I secolo d.C, quali lacerti di affreschi e pitture murali strappati a Ercolano, gioielli come l’Anello di Carlo III di Borbone ottenuto da un cammeo romano o il bracciale proveniente dalla Casa del Fauno, oltre a piccole teste scolpite in bronzo, candelabri e lucerne che illuminavano le domus pompeiane: poco più di venti i pezzi esposti ma di grande esemplarità, scelti fra le migliaia di inusitati ritrovamenti conservati al MANN di Napoli che dissepolti nell’area vesuviana sono andati a illuminare di vita autentica la conoscenza di una romanità quotidiana rimasta confinata fino al Sette-Ottocento quasi solo nei libri degli autori latini che conosciamo, nelle loro sporadiche ed occasionali citazioni di ambienti ed oggetti, se si fa eccezione per i monumenti architettonici superstiti della romanità e per i celebri pezzi artistici e di statuaria greco-romana raccolti attraverso i secoli da prelati, sovrani e collezionisti d’arte. Quello in scena al MAX Museo della cittadina elvetica di Chiasso – a soli due chilometri da Como e a un’ora d’auto da Milano – è un viaggio affascinante costellato di 300 documenti, di cui diversi inediti esposti per la prima volta e provenienti da oltre 20 musei, archivi, biblioteche e privati da Svizzera, Italia, Francia e USA.

Il percorso espositivo parte alla metà del Settecento, quando il sovrano “illuminato” Carlo III di Borbone, Re delle Due Sicilie, nel 1748 intraprese i primi scavi pompeiani sulla collina di Civita, spinto dal successo dei primi ritrovamenti archeologici di Ercolano realizzati con il sistema delle gallerie scavate nel tufo lavico dal 1738. È il corpo del Genio civile a occuparsi degli scavi, agli ordini dell’ingegnere militare Roque Joaquín de Alcubierre, coadiuvato a partire dal 1750 dallo svizzero Karl Jakob Weber. È in questo periodo che diversi studiosi europei appassionati dell’antico fecero combaciare la tradizione del Grand Tour con gli interessi antiquari rafforzati dalle scoperte vesuviane e incominciano a visitare e descrivere i siti di scavo e gli oggetti antichi ritrovati nelle lettere destinate in patria ai loro connazionali e corrispondenti di studio; in mostra ce ne sono alcune scritte dal grande appassionato e teorico dell’arte neoclassica Johann Joachim Winckelmann – protetto di alcuni Cardinali romani e poi Soprintendente alle antichità di Roma. Alle lettere di Winckelmann si aggiunsero nel 1762 le missive con i commenti sulla conduzione degli scavi del Conte di Caylus – Anne-Claude-Philippe de Tubières, collezionista e archeologo – e la pubblicazione fra 1781 e ‘86 del Vojage Pittoresque dell’Abbé de Saint-Non, racconto del suo personale viaggio a Ercolano nel ’59 e di quello dell’equipe di disegnatori guidati da Dominique Vivant-Denon che l’abate indirizzò in Sicilia nel 1778.

A documentare l’impresa archeologica sarà anche il racconto del Viaggio in Italia compiuto nel 1786-‘88 da Goethe e pubblicato nel 1817, che narra anche la sua lunga sosta a Napoli e la puntata in Sicilia, dopo la scoperta di Paestum e del Dorico siciliano, mentre all’inizio dell’Ottocento si collocano le puntuali osservazioni di Stendhal.

Il viaggio di conoscenza del Grand Tour, obbligatorio completamento dell’educazione di ogni giovane aristocratico o alto borghese europeo – mutuato dalla tradizione del “viaggio d’istruzione” che la Corona inglese dai tempi di Elisabetta I prescriveva e finanziava per i giovani della futura classe dirigente – alla fine del Settecento annoverava fra le tappe italiane oltre a Firenze e Roma anche Napoli, Pompei ed Ercolano. Corollario doveroso di quel viaggio era il cayer de voyage, un taccuino ricco di note, appunti e schizzi evolutosi ormai in vero e proprio diario di viaggio, che i turisti europei del Grand Tour solevano tenere – e soprattutto i giovani geografi o naturalisti, gli architetti, i pittori, e gli scrittori Europei in erba – una fonte preziosa di memorabilia cui attingere successivamente, una volta rientrati in patria, per la pubblicazione dei loro libri e di articoli di giornalismo.

Incuriositi dalle notizie che circolavano e dalla prime incisioni promosse da Carlo III di Borbone con soggetto “Le Antichità di Ercolano esposte”, che avevano modo di visionare solo nelle esclusive biblioteche degli aristocratici dediti alla cultura dell’antico, diversi artisti e cultori d’arte da tutta l’Europa si recarono agli scavi vesuviani e tentarono in ogni modo illecito – anche corrompendo con denaro gli occhiuti custodi partenopei – di ritrarre dal vivo, o dipingere all’acquerello le rovine romane riemergenti dal sottosuolo lavico e gli oggetti e i reperti d’arte romana riportati alla luce. I Borbone infatti erano molto interessati a gestire oculatamente e con profitto la scoperta dei loro siti archeologici romani, e dopo il 1750 metteranno a tema le scoperte archeologiche del territorio partenopeo in termini di vera e propria politica culturale e di costruzione di un’immagine aggiornata in chiave europea della monarchia borbonica.

Solo nel 1757 infatti si colloca l’inizio della pubblicazione “ufficiale”, in tiratura limitata, centellinata come “dono di stato” e destinata ai regnanti d’Europa, e scandita in tempi assai dilazionati, degli otto volumi della suddetta opera Antichità di Ercolano esposte. L’edizione completa richiese 35 anni e neppure il Winckelmann riuscì a procurarsi tutti i volumi! Vero è che una prima ma imperfetta pubblicazione Disegni intagliati in rame di pitture antiche ritrovate nelle scavazioni di Resina era stata stampata in tiratura estremamente limitata dall’editore Ricciardi già nel 1746, su impulso del Segretario di Stato del Regno delle Due Sicilie, José Joaquìn de Montealegre. Tra le pubblicazioni con imprimatur ufficiale del Sovrano si collocano anche Prodromo delle antichità di Ercolano in cinque volumi, di Ottavio Antonio Baiardi, edito tra il 1752 e il ‘55, un testo velleitariamente storico e prolisso che suscitò l’insofferenza di Carlo III, e il Catalogo degli antichi monumenti dissotterrati dalla discoperta città di Ercolano (1755), sempre del Baiardi, un mero inventario elencativo dei ritrovamenti che intendeva pragmaticamente soddisfare l’impazienza del Re, ma privo totalmente di immagini.

Per una puntuale documentazione ufficiale dei reperti che emergevano dagli scavi – dove alla riproduzione fedele del disegno dell’oggetto di epoca romana rinvenuto sui luoghi di scavo per lo più realizzata con il metodo dell’incisione con matrici di rame si affiancasse una documentazione testuale esplicativa e interpretativa del reperto – bisognerà attendere il 13 dicembre 1755, quando venne istituita la Reale Accademia Ercolanense, composta di quindici membri e posta sotto l’egida del nuovo Segretario di Stato Bernardo Tanucci.

Gli studiosi internazionali che si interessavano di arte antica non vi furono ammessi e l’accademia ercolanese opererà in maniera “accentrata”, però in modo lento e discontinuo, producendo una documentazione assai dilazionata negli anni e piuttosto attardata sotto il profilo della critica d’arte. A uno dei soci della prima ora dell’Accademia, l’Abate Ferdinando Galiani, è attribuito il manoscritto inedito del 1756 – che viene presentato al pubblico in mostra – intitolato Pitture antiche che si conservano nella Real Villa di Portici, dissotterrate per ordine della Maestà del re Carlo, re di Napoli, di Sicilia e di Gerusalemme (…) per suo ordine incise ed illustrate. Si tratta di un testo assai significativo, di cui però solo alcune parti saranno ricomprese nell’edizione del ’57 delle Antichità di Ercolano esposte, privando così il grande pubblico e gli studiosi delle interessanti congetture – piuttosto innovative – dell’abate partenopeo Galiani sugli aspetti tecnici e stilistici della pittura di epoca romana basate sugli esemplari vesuviani.

La documentazione ufficiale sul procedere degli scavi, sul loro ampliamento da Ercolano a Pompei e poi a Stabia, sulla successione delle scoperte e sul loro concentrarsi nel Museum Herculanense collocato in un’ala del Palazzo Reale di Portici, era affidata ai rapporti manoscritti in italiano o spagnolo indirizzati al Re e alla Corte e redatti dai responsabili degli scavi di Pompei: R. J. Alcubierre, K. J. Weber e più tardi i fratelli Francesco e Pietro La Vega. Questi rapporti furono riuniti alla metà dell’Ottocento da Giuseppe Fiorelli in un’opera a stampa dal titolo Pompeianarum Antiquitatum Historia.

Alle relazioni scritte dai sovrintendenti venivano aggiunte le planimetrie delle zone di scavo, come i rilievi del settore settentrionale di Ercolano realizzati da Jerôme Charles Bellicard o le tre fondamentali planimetrie di Pompei ed Ercolano realizzate dallo stesso Karl Jakob Weber. Weber, nato ad Arth nel canton Svitto, si era laureato in matematica al collegio Ghislieri di Pavia e nel 1735 si arruolò nel reggimento delle guardie svizzere presso il Regno di Napoli; qui, dopo essersi qualificato come ingegnere militare nel 1743, divenne un fondamentale collaboratore nella campagna iniziale di scavi di Ercolano condotta dallo spagnolo de Alcubierre, divenendo in seguito Sovrintendente agli scavi di Ercolano, Pompei e Stabia.

Rivoluzionando i metodi di scavo dell’Alcubierre – concentrato quasi esclusivamente sul recupero di opere d’arte degne del suo Re – Weber inaugurò il metodo delle gallerie sotterranee sistematiche nel tufo lavico o nelle pomici che si erano consolidate nei secoli dopo l’eruzione vulcanica del 79 d.C. che aveva sepolto Ercolano, Pompei, Stabia e Oplontis. Weber nel corso della sua attività scavò e riportò alla luce a partire dal 1750 la Villa dei Papiri con la biblioteca e le novanta statue romane di bronzo e marmo – appartenuta probabilmente a Lucio Calpurnio Pisone, suocero di Giulio Cesare – e poi scavò il Teatro ad Ercolano, indagandolo secondo i precetti Vitruviani; la Villa di Giulia Felice a Pompei e diverse ville a Stabia vennero dal Weber scavate più agevolmente con il metodo delle trincee all’aria aperta. Di tutti i ritrovamenti e del contesto generale dei siti l’appassionato archeologo svizzero Weber – poco compreso dai Borbone ma molto lodato dal Winckelmann – delineò accuratamente le planimetrie, comprensive di proiezioni assonometriche che furono le prime “prestate” all’archeologia: tre delle piante tracciate da lui sono visibili in mostra, insieme alla prima raffigurazione cartografica di Pompei, tratteggiata entro il 1776 dal naturalista e botanico Francois de Paule Latapie di cui si presenta in mostra anche un inedito “ritratto di Latapie”.

Ai regnanti degli Stati europei – talora congiunti in linea di sangue dei Borbone – veniva concesso in esclusiva l’accesso alle aree di scavo e il permesso di scavarne una piccola porzione per disseppellire qualche oggetto artistico da riportare alle loro regge: nel 1769 le visitò anche l’imperatore Francesco Giuseppe e nel 1784 il re di Svezia Gustavo III, guidato da Francesco Piranesi, a Pompei infranse il divieto di disegnare schizzi, e vari altri regnanti fra cui nel 1785 i Duchi di Curlandia. Ma per i “comuni” nobili di rango, i diplomatici o gli incaricati d’affari occorrevano comunque permessi speciali dei Borbone: così fu anche per il barone francese Dominique Vivant-Denon; diplomatico, scrittore, spia, archeologo, disegnatore, collezionista; sempre in scena con tutti i regimi, da Luigi XV, al Terrore, da Napoleone alla Restaurazione e poi primo direttore del Musée du Louvre.

Le preziose notizie su Ercolano e Pompei uscivano quindi dal Regno delle due Sicilie con il contagocce, o illegalmente, ma molto efficacemente viaggiando nelle lettere e negli schizzi realizzati dal vivo dei pochi fortunati ammessi alla visione delle rovine e facevano rapidamente il giro del mondo, come avvenne nel caso del nobiluomo inglese William Gell (1777). Laureatosi all’Università di Cambridge e perfezionatosi alla Reale Accademia di Londra, l’architetto Gell compì diversi viaggi, agendo da vero proto-archeologo attivo sul campo in Grecia, Asia Minore, Troia e isole ioniche. Poi Gell visitò l’Italia al seguito della chiacchierata Carolina di Brunswick, moglie in seguito ripudiata del re inglese Giorgio IV. Dei suoi viaggi il giovane inglese lasciò resoconto in diversi apprezzabili libri corredati di stampe tratte dai suoi disegni dal vivo che gli valsero il giudizio di Byron di “classic Gell” e “rapid Gell”. Visitata Pompei una prima volta nel 1815, decise di insediarsi a Napoli presso Villa “Gellia” nel 1920, come rappresentante della “Society of Dilettanti” in Italia. La colonia degli inglesi era in effetti molto attiva nel disegnare e ritrarre gli scavi dell’area vesuviana, allo scopo di pubblicare testi corredati da incisioni per scopi commerciali antiquari e per far conoscere e divulgare i ritrovamenti e l’arte antica e i “Dilettanti” nati nel 1732 come sodalizio conviviale e libertino finirono per promuovere in patria lo studio dell’arte classica e il collezionismo di antichità.

Gell ci ha lasciato un taccuino inedito denso di annotazioni e illustrazioni – esposto in mostra – che più tardi confluì in diverse pubblicazioni, fra cui la celebre Pompeiana, edita da Gell in lingua inglese insieme a John Peter Gandy Deering – Pompeiana: The Topography, Edifices and Ornaments of Pompeii. The Result of Excavations since 1819 (Londra 1832), con tavole tutte disegnate dallo stesso Gell tranne tre di C. Robert Cockerell e una di R. Sharp. La pubblicazione divenne di gran moda a Londra e fu strumento fondamentale della prima divulgazione sui monumenti romani di Pompei in Inghilterra.

Oltre alle matrici napoletane e alle incisioni realizzate nella Stamperia Reale, tra i primi e abilissimi incisori di suggestive acqueforti a partire da lastre di rame ritraenti le “Domus” pompeiane, o le case e le vie di Ercolano e Paestum, vanno annoverati in questo periodo Giovanni Battista Piranesi e soprattutto suo figlio, Francesco Piranesi; presenti in mostra al MAX dodici magnifiche incisioni ad acquaforte fortemente emozionali e con immagini chiaroscurate, ottenute con il metodo della morsura multipla, vero e proprio “elemento-firma” di Francesco Piranesi.

Nel periodo dell’occupazione Francese a partire dal 1798 gli scavi vengono fortemente incentivati da Gioacchino Murat e fortemente sostenuti dalla regina Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone, che stanziò sistematicamente fondi per gli scavi di tutto il perimetro di Pompei, incaricando l’architetto francese François Mazois di redigere Les ruines de Pompéi, con relativi rilievi e disegni: certamente la prima grande opera sull’architettura e urbanistica di Pompei che protrattasi per 12 anni era rimasta comunque incompiuta e fu completata solo nel 1838 da Chrétien Gau.

Dopo la vicenda napoleonica, nel periodo della Restaurazione la Real Casa Borbonica, dopo Antonio Bonucci, affida la direzione degli scavi – 1831.1844 al ticinese Pietro Bianchi, che studiando preventivamente le aree di scavo accelera i lavori e scopre la celeberrima “Casa del Fauno” a Pompei. Piante e disegni molto precisi, in scala e acquerellati, vengono realizzati dai collaboratori del Bianchi a documentazione dei lavori. Michele Arditi e la Società Ercolanese promuovono finalmente un dibattito che coinvolge le varie Accademie Europee, e sempre più giovani si recano a Ercolano e Pompei con borse di studio per disegnare l’Antico. Nei concorsi delle accademie di belle arti è prevista la conoscenza diretta dello “scavo”.

Nello spirito dell’Ottocento romantico il tema della ricostruzione delle case di Pompei, ambientazioni suggestive tra realtà e immaginazione riscuote grande successo, come nella celebre opera Un interno Pompeiano del 1882, di Luigi Bazzani, prestato alla mostra dal Dahesh Museum of Art di New York. Il tema dell’Antico e di Ercolano e Pompei entra nelle Esposizioni Nazionali, attraverso pitture e gouaches di grandi dimensioni, come quelle di Antonio Coppola esposte a Roma nel 1893, che propongono un raffronto fra “Com’era e com’è”.

Verso la fine dell’Ottocento a documentare i due centri vesuviani di età romana fa capolino la fotografia che si afferma come il nuovo mezzo di riproduzione dei reperti e delle aree archeologiche. Le immagini scattate da Giorgio Sommer, Robert Reeve, Giacomo Brogi e dai Fratelli Alinari – quest’ultime con cavalletto e un punto di vista molto alto – ritraggono Ercolano e Pompei con visionarietà e ampiezza d’orizzonte, e mostrano il Foro, le Domus, il Teatro e l’Anfiteatro; La Casa dei Gladiatori, le Terme, come già era avvenuto in precedenza con i disegni acquerellati. Ai primi del ‘900 sarà il turno delle prime cartoline, realizzate in Litografia e Cromolitografia, a veicolare le immagini di Ercolano e Pompei, tappe ormai obbligatorie del nascente turismo borghese anche in Italia.

Il dialogo fra i documenti e reperti esposti a Chiasso nell’ottima mostra Ercolano e Pompei, Visioni di una scoperta si ripeterà in mostra al MANN di Napoli dal 29 giugno fino al 30 settembre 2018.
Un dialogo fortemente voluto dai curatori Pietro Giovanni Guzzo, già Soprintendente dei beni archeologici di Napoli e Pompei, Maria Rosaria Esposito responsabile della Biblioteca del MANN-Museo Archeologico Nazionale di Napoli, e da Nicoletta Ossanna Cavadini, direttrice del m.a.x. museo di Chiasso, nel contesto di un accordo quadro sottoscritto il 16 novembre 2017 che ha istituito la collaborazione delle due istituzioni museali in progetti di studio, ricerca e valorizzazione nei rispettivi campi di pertinenza: l’ambito archeologico di cultura classica per il MANN e l’ambito grafico e di design per il m.a.x. museo.

Un primo frutto di tale collaborazione era stata l’anno scorso la mostra dedicata a J.J. Winckelmann (1717-1768), presentata al M.A.X. museo da febbraio a maggio 2017 e poi al MANN di Napoli da giugno a settembre 2017.

24/03/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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