Gramsci, un autoritratto

Chi era Antonio Gramsci? Giornalista corrosivo, uomo politico, pensatore e rivoluzionario, detenuto numero 7047 e, al contempo, figlio, fratello, compagno, padre. Autoritratto del grande dirigente comunista attraverso le sue lettere.


Gramsci, un autoritratto Credits: left.it

La bibliografia gramsciana ha ormai raggiunto la cifra considerevole di ben ventimila titoli. Gli scritti di Gramsci, in specie i Quaderni del carcere, sono stati tradotti in diverse lingue. Sembra quasi che, in questo anno in cui ricorre l’80° anniversario della morte (27 aprile 1937), sia superfluo scriverne ancora. Eppure tante sono le pubblicazioni a lui dedicate e già pronte per la lettura sugli scaffali delle librerie e altre ancora ne sono previste. Un dato emerge con una certa ricorrenza e necessità: ripercorrere la biografia di Gramsci per comprendere ancora di più, come scrisse lui stesso in una pagina dei Quaderni del carcere, “il ritmo del [suo] pensiero in isviluppo”.

Vorrei tentare di affrontare il percorso della vita di Gramsci dal punto di vista, però, della definizione della sua personalità, ponendo a lui stesso quella domanda che funge da titolo di una pubblicazione da me recentemente curata: Gramsci chi? Dicono di lui (Bordeaux 2017). La domanda è: Tu Gramsci, chi sei? Cosa dici di te stesso? Le risposte saranno fornite dalle parole stesse di Gramsci tratte dalle Lettere dal carcere, dai Quaderni del carcere e da alcuni scritti giovanili.

Nel modo seguente Gramsci scriveva il 12 settembre del 1927 al fratello Carlo dal carcere di San Vittore in Milano (Nannaro di cui Gramsci scrive nella lettera è il fratello maggiore Gennaro):

Mi pare che siano quasi 22 anni da che io ho lasciato la famiglia; da 14 anni poi sono venuto a casa solo due volte, nel 20 e nel 24. Ora in tutto questo tempo non ho mai fatto il signore; tutt’altro; ho spesso attraversato dei periodi cattivissimi e ho anche fatto la fame nel senso più letterale della parola. A un certo punto questa cosa bisogna dirla, perché [...] si riesce a rassicurare. Probabilmente tu qualche volta mi hai un po’ invidiato perché mi è stato possibile studiare. Ma tu non sai certamente come io ho potuto studiare. Ti voglio solo ricordare ciò che mi è successo negli anni dal 1910 al 1912. Nel 10, poiché Nannaro era impiegato a Cagliari, andai a stare con lui. Ricevetti la prima mesata, poi non ricevetti più nulla: ero tutto a carico di Nannaro, che non guadagnava più di 100 lire al mese. Cambiammo di pensione. Io ebbi una stanzetta che aveva perduto tutta la calce per l’umidità e aveva solo un finestrino che dava in una specie di pozzo, più latrina che cortile. Mi accorsi subito che non si poteva andare avanti, per il malumore di Nannaro che se la prendeva sempre con me. Incominciai col non prendere più il poco caffè al mattino, poi rimandai il pranzo sempre più tardi e così risparmiavo la cena. Per 8 mesi circa mangiai così una sola volta al giorno e giunsi alla fine del 3° anno di liceo, in condizioni di denutrizione molto gravi. Solo alla fine dell’anno scolastico seppi che esisteva la borsa di studio del Collegio Carlo Alberto, ma nel concorso si doveva fare l’esame su tutte le materie dei tre anni di Liceo; dovevo perciò fare uno sforzo enorme nei tre mesi di vacanze. Solo zio Serafino si accorse delle deplorevoli condizioni di debolezza in cui mi trovavo, e mi invitò a stare con lui ad Oristano, come ripetitore di Delio. Vi rimasi 1 mese e mezzo e per poco non divenni pazzo. Non potevo studiare per il concorso, dato che Delio mi assorbiva completamente e la preoccupazione, unita alla debolezza, mi fulminava. Scappai di nascosto. Avevo solo un mese di tempo per studiare. Partii per Torino come se fossi in istato di sonnambulismo.Avevo 55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il viaggio in terza delle 100 lire avute da casa. C’era l’Esposizione e dovevo pagare 3 lire al giorno solo per la stanza. Mi fu rimborsato il viaggio in seconda, un’ottantina di lire ma non c’era da ballare perché gli esami duravano circa 15 giorni e solo per la stanza dovevo spendere una cinquantina di lire. Non so come ho fatto a dar gli esami, perché sono svenuto due o tre volte. Riuscii ma incominciarono i guai. Da casa tardarono circa due mesi a inviarmi le carte per l’iscrizione all’università, e siccome l’iscrizione era sospesa, erano sospese anche le 70 lire mensili della borsa. Mi salvò un bidello che mi trovò una pensione di 70 lire, dove mi fecero credito; io ero così avvilito che volevo farmi rimpatriare dalla questura. Così ricevevo 70 lire e spendevo 70 lire per una pensione molto misera. E passai l’inverno senza soprabito, con un abitino da mezza stagione buono per Cagliari. Verso il marzo 1912 ero ridotto tanto male che non parlai più per qualche mese: nel parlare sbagliavo le parole. Per di più abitavo proprio sulle rive della Dora, e la nebbia gelata mi distruggeva” [1].

Quasi, quindi, a voler sottolineare la forza con cui affrontava il carcere, aggiungeva: “… chi mi crede un satanasso, chi mi crede quasi un santo. Io non voglio fare né il martire né l’eroe. Credo di essere semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo” [2].

Ma già qualche anno prima l’ancora molto giovane sardo, ormai da qualche anno a Torino, redigendo il numero unico intitolato La Città Futura, al secondo punto dell’articolo Margini, scriveva: “Quando discuti con un avversario, prova a metterti nei suoi panni. Lo comprenderai meglio e forse finirai con l'accorgerti che ha un po', o molto, di ragione. Ho seguito per qualche tempo questo consiglio dei saggi. Ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo che fa svenire”[3].

Già si delinea il profilo di coerenza dell’uomo che, peraltro, costituirà anche uno dei caratteri peculiari del suo impegno politico e teorico. Avrebbe potuto guadagnare molti soldi e vivere un’esistenza tutto sommato più tranquilla; se questo non fu, il motivo va ricercato in una scelta etico-politica che Gramsci ricorderà in un articolo del 4 giugno del 1921: “Sono entrato nella redazione dell’Avanti! il 10 dicembre 1915 … sono entrato nell’Avanti! quando il Partito socialista era ridotto agli estremi e tutti i capaci di scrivere battevano il bosco e ripudiavano il Partito. Sono entrato all’Avanti! liberamente, per convinzione. Nei primi giorni del dicembre 1915 ero stato nominato direttore del ginnasio di Oulx, con 2500 lire di stipendio e tre mesi di vacanza. Il 10 dicembre 1915 mi sono invece impegnato con l’Avanti! per 90 lire al mese di stipendio, cioè 1080 lire all’anno. Potevo scegliere: se ho scelto l’Avanti! … ho certo il diritto di affermare che ero mosso da una fede e da una convinzione profonda” [4].

Anche a proposito della sua fama, Gramsci aveva una solida opinione manifestata in una lettera alla cognata Tania inviatale subito dopo il trasferimento da Ustica a Milano (19 febbraio 1927): “Io non sonoconosciuto all’infuori di una cerchia abbastanza ristretta; il mio nome è storpiato perciò in tutti i modi più inverosimili: Gramasci, Granusci, Grámisci, Granìsci, Gramásci, fino a Garamáscon, con tutti gli intermedi più bizzarri” [5]. Racconta delle presentazioni fra i prigionieri durante il passaggio a Palermo e di un anarchico che, saputo che si trattava di Gramsci, esclamò: “Non può essere (…) perché Antonio Gramsci deve essere un gigante e non un uomo così piccolo. - Non disse più nulla, si ritirò in un angolo, si sedette su uno strumento innominabile e stette, come Mario sulle rovine di Cartagine, a meditare sulle proprie illusioni perdute. Evitò accuratamente di parlare ancora con me durante il tempo in cui restammo ancora nello stesso camerone e non mi salutò quando ci separarono-”[6]. Una cosa molto simile accadde con uno dei carabinieri di scorta il quale, dopo averlo individuato come “il famoso deputato Gramsci”, continuò e “mi disse che si era immaginato sempre la mia persona come ‘ciclopica’ e che era molto disilluso da questo punto di vista” [7].

Riferendosi al “fondatore della filosofia della praxis”, cioè Marx, per descriverne le peculiarità intellettuali, Gramsci dipinse un ritratto che, nella realtà, era un autoritratto: “È osservazione comune di ogni studioso, come esperienza personale, che ogni nuova teoria studiata con ‘eroico furore’ (cioè quando non si studia per mera curiosità esteriore ma per un profondo interesse) per un certo tempo, specialmente se si è giovani, attira di per se stessa, si impadronisce di tutta la personalità e viene limitata dalla teoria successivamente studiata finché non si stabilisce un equilibrio critico e si studia con profondità senza però arrendersi subito al fascino del sistema o dell’autore studiato. Questa serie di osservazioni valgono tanto più quanto più il pensatore dato è piuttosto irruento, di carattere polemico e manca dello spirito di sistema, quando si tratta di una personalità nella quale l’attività teorica e quella pratica sono indissolubilmente intrecciate, di un intelletto in continua creazione e in perpetuo movimento, che sente vigorosamente l’autocritica nel modo più spietato e conseguente. Date queste premesse, il lavoro deve seguire queste linee: 1) la ricostruzione della biografia non solo per ciò che riguarda l’attività pratica ma specialmente per l’attività intellettuale; 2) il registro di tutte le opere, anche le più trascurabili, in ordine cronologico, diviso secondo motivi intrinseci: di formazione intellettuale, di maturità, di possesso e applicazione del nuovo modo di pensare e di concepire la vita e il mondo. La ricerca del leit-motiv, del ritmo del pensiero in isviluppo, deve essere più importante delle singole affermazioni casuali e degli aforismi staccati” (Q16, 2, 1841-1842 [8]).

Il pensatore irruento, polemico, mancante di spirito di sistema era Gramsci stesso per il quale è un crimine usare “singole affermazioni casuali e degli aforismi staccati”. Infatti nel modo seguente avverte il lettore: “ Sollecitare i testi’. Cioè far dire ai testi, per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono. Questo errore di metodo filologico si verifica anche all’infuori della filologia, in tutte le analisi e gli esami delle manifestazioni di vita. Corrisponde, nel diritto penale, a vendere a meno peso e di differente qualità da quelli pattuiti, ma non è ritenuto crimine, a meno che non sia palese la volontà di ingannare: ma la trascuratezza e l’incompetenza non meritano sanzione, almeno una sanzione intellettuale e morale se non giudiziaria?” (Q6, 198, 838).

Questo tentativo di comprendere chi fosse Gramsci attraverso Gramsci stesso sarebbe lacunoso se non si entrasse anche nel merito delle vicende sentimentali ed esistenziali del grande comunista. Ormai in carcere da anni e con una condanna di più di venti anni sulle spalle, scriveva alla cognata il 3 ottobre del 1932: “Del resto non devi credere che io abbia intenzione di suicidarmi o di abbandonarmi, come un cane morto, al filo della corrente. Mi dirigo da me da molto tempo e mi dirigevo da me già da bambino. Ho incominciato a lavorare da quando avevo 11 anni, guadagnando ben 9 lire al mese (ciò che del resto significava un chilo di pane al giorno) per 10 ore di lavoro al giorno compresa la mattina della domenica e me la passavo a smuovere registri che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi doleva tutto il corpo. Ho conosciuto quasi sempre solo l’aspetto più brutale della vita e me la sono sempre cavata, bene o male. Neanche mia madre conosce tutta la mia vita e le traversie che ho passato” [9].

Appunto la madre, Giuseppina Marcias, Madre Coraggio, sola con sette figli da crescere perché il marito era in carcere. A lei andò tutto l’amore del figlio che nel modo seguente la tranquillizzava circa il suo destino di detenuto politico: “Carissima mamma, non ti vorrei ripetere ciò che ti ho spesso scritto per rassicurarti sulle mie condizioni fisiche e morali. Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna stiano per darmi. Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione. Che perciò io non posso che essere tranquillo e contento di me stesso. Cara mamma, vorrei proprio abbracciarti stretta stretta perché sentissi quanto ti voglio bene e come vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini” [10].

Molto ci sarebbe da dire di Gramsci in quanto fratello, in quanto compagno di Giulia Schucht, madre dei suoi due figli, in quanto cognato di Tania; ma, la cosa che più assillava il detenuto 7047 era l’educazione dei figli Delio e Giuliano. Quindi, Gramsci padre emblematicamente rappresentato dalle due lettere seguenti; la prima a Giuliano, il secondogenito, e la seconda a Delio, il primogenito: “Caro Iulik, come va il tuo cervellino? (…)Ti scrivo seriamente, perché vedo che tu ormai non sei più un ragazzino, e anche perché tu stesso una volta mi hai scritto che vuoi essere trattato con serietà. A me pare che tu abbia molte forze latenti nel cervello; la tua espressione che non puoi rispondere alla domanda significa che rifletti e sei responsabile di ciò che fai e scrivi. Eppoi, si vede anche dalla fotografia che ho ricevuto che c’è molta energia in te. Evviva Iulik! Ti voglio molto bene.” [11]. “Carissimo Delio, mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio. ANTONIO” [12].

Potrebbe essere completo questo autoritratto di Gramsci scritto da altri, ma con le sue parole, se non si facesse riferimento a quell’attività che a lui sommamente piaceva fin da studente liceale? Il giornalista; scriveva alla cognata il 12 ottobre del 1931: “Io non sono mai stato un giornalista professionista, che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire, perché la menzogna entra nella qualifica professionale. Sono stato giornalista liberissimo, sempre di una sola opinione, e non ho mai dovuto nascondere le mie profonde convinzioni per fare piacere a dei padroni o manutengoli.” [13]. E se non bastasse, si aggiunga quanto scriveva il giovane Gramsci sulle colonne dell’Avanti!:“Mi piace essere l’acido corrosivo dell’imbecillità. Mi piace eccitare le persone cosiddette serie, farle andare in collera, far cadere loro di dosso la toga romana e il mantelluccio da baccalare, per divertirmi sommessamente al ridicolo del loro color gambero cotto, al ridicolo delle loro gote rigonfie, degli occhi che lanciano scintille di volgarissima bile” [14].

E’ questo un Gramsci attraverso le parole di Gramsci; ma questo Gramsci è quello dentro il quale convivono il pensatore, il politico e il rivoluzionario.


Note

1. A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di Antonio A. Santucci, Sellerio, Palermo, 2013, pp. 116-117.
2. Ivi, p. 117-118.
3. A. Gramsci, Un Gramsci per le nostre scuole. Antologia, a cura di L. La Porta, Editori Riuniti university press, Roma, 2016, p. 104.
4. Un agente provocatore in “Falce e martello”, II, 14, 4 giugno 1921 in A. Gramsci, Scritti 1915-1921, a cura di S. Caprioglio, I Quaderni de “Il Corpo, Milano, 1968, pp. 265-266.
5. A. Gramsci, Lettere dal carcere, cit, pp. 44-45.
6. Ivi, p. 45.
7. Ivi, p. 46.
8. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975; si cita il Quaderno, il numero della nota e quello della pagina.
9. A. Gramsci, Lettere dal carcere, cit., pp. 619-620.
10. Ivi, pp. 190-191.
11. Ivi, pp. 808-809.
12. Ivi, pp. 805-806.
13. Ivi, p. 476.
14. A. Gramsci, Qualche cosa in id., La Città Futura 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino, 1982, p. 306.

03/06/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Lelio La Porta

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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