Lenin contro il dogmatismo

Ogni questione determinata non può mai esser risolta ricorrendo a una citazione dei classici del marxismo, ma mediante lo studio concreto del problema nelle sue specificità e in rapporto con le esigenze pratiche dell’azione politica.


Lenin contro il dogmatismo

Alla base dell’opposizione dei socialpacifisti – socialisti a parole e pacifisti nei fatti – al processo rivoluzionario sovietico e della loro incapacità di sviluppare la Rivoluzione in occidente vi era, a parere di Vladimir I.U. Lenin, una concezione pedante del marxismo fondata sull’incomprensione del suo aspetto decisivo: la dialettica rivoluzionaria” [1]. Essi facevano, dunque, del marxismo “un dogma morto”, una “dottrina compiuta, bell’e pronta, immutabile” [2], d’ostacolo alla soluzione dei “precisi compiti pratici dell’epoca, che possono cambiare a ogni nuova svolta della storia” [3]. In tal modo si perdeva di vista lo spirito stesso del marxismo espresso da Friedrich Engels in una lettera a Sorge del 29 novembre 1886: “il marxismo non è un dogma, ma una guida per l’azione”. 

Così i socialpacifisti, come gli oppositori bolscevichi alle Tesi di Aprile, rimproveravano a Lenin che non sarebbe stato possibile instaurare la dittatura del proletariato prima che fosse condotta a termine la rivoluzione democratico borghese. Alle accuse di non tener conto neppure delle precedenti elaborazioni del programma bolscevico, Lenin rispondeva che la storia ha dimostrato in generale la sua validità, “ma in concreto le cose sono andate in maniera diversa da quanto io (o qualunque altro) poteva prevedere, si sono cioè svolte in modo più originale, peculiare e vario” [4]. La concretezza della pratica politica rivoluzionaria richiede la meticolosa analisi di quanto vi è di originale nella nuova e vivente realtà rispetto alla precedente elaborazione teorica. Per non ridurre il marxismo a una “ortodossia pietrificata”, a “un simbolo di fede” [5], è essenziale ricordare che “Il marxismo esige da noi una considerazione esatta e oggettivamente controllabile dei rapporti tra le classi e delle particolarità specifiche di ogni momento storico” [6], vagliando mediante un’analisi accurata il mutare dei rapporti di forza fra le forze sociali in lotta.

Così, in una situazione in cui la piccola borghesia rifiutava, per viltà, di adempiere al proprio compito storico e invece di prendere il potere si sottometteva alla grande borghesia, soltanto un partito rivoluzionario dotato di una tattica e strategia autonomi, mediante un approfondimento della lotta di classe, poteva forzare i democratici a non sottrarsi alle loro responsabilità. Solo la piena autonomia d’azione del partito rivoluzionario “potrà rendere così «scottante» il terreno sotto i piedi della piccola borghesia che essa, in date circostanze, sarà costretta a prendere il potere” [7]. Al contrario i menscevichi si ostinavano in modo dogmatico a insistere sulla necessità di una guida borghese per il processo rivoluzionario in Russia. Come osserva acutamente Lenin: “dal fatto che il contenuto della rivoluzione è borghese, si trae in Russia la banale conclusione che la borghesia ne sia la forza motrice, che il proletariato non abbia invece da assolvere in questa rivoluzione se non compiti subordinati e non autonomi, e che una direzione proletaria della rivoluzione sarebbe impossibile!” [8].

D’altra parte, di fronte all’accusa di aver forzato soggettivisticamente il corso storico, saltando dalla rivoluzione democratica borghese ancora incompiuta – che non ha superato il movimento contadino – alla rivoluzione socialista, Lenin rivendicava la necessità storica in quella fase di crisi della presa del potere: “che cosa costringe a compiere questi passi? La fame. Il dissesto dell’economia. La catastrofe imminente. Gli orrori della guerra. Le terribili ferite inferte dalla guerra all’umanità” [9]. Peraltro, secondo Lenin, anche in una situazione non rivoluzionaria “sarebbe vergognoso per chi si dice socialdemocratico, non consigliare agli operai di rompere con gli opportunisti e di consolidare, approfondire, allargare e intensificare con tutte le loro forze il movimento rivoluzionario nascente e le manifestazioni. La rivoluzione non cade mai bell’e pronta dal cielo, e quando comincia l’effervescenza rivoluzionaria, nessuno sa mai se riuscirà, né quando riuscirà a diventare una rivoluzione «vera», «autentica»” [10].

Dinanzi a chi rimproverava ai bolscevichi l’assenza nelle masse russe del grado di cultura necessario alla transizione al socialismo, Lenin domandava: cosa si sarebbe dovuto fare se la tragicità della condizione del proletariato russo durante la Prima guerra imperialista mondiale lo spingeva alla lotta, “se la situazione, assolutamente senza via d’uscita, decuplicava le forze degli operai e dei contadini e ci apriva più vaste possibilità di passare alla creazione delle premesse fondamentali della civiltà, su una via diversa da quella percorsa da tutti gli altri Stati dell’Europa occidentale?” [11]. In altri termini, se per la transizione al socialismo è necessario un certo grado di cultura del proletariato, la conquista rivoluzionaria del potere politico è la via più rapida per realizzare tale obiettivo. Così, osserva Lenin: “se per creare il socialismo occorre un certo grado di cultura (quantunque nessuno possa dire quale sia di preciso questo certo «grado di cultura», dato che esso è diverso in ogni Stato dell’Europa occidentale), perché non dovremmo allora cominciare con la conquista, per via rivoluzionaria, delle premesse necessarie per questo certo grado, in modo da potere in seguito – sulla base del potere operaio e contadino del regime sovietico – metterci in marcia per raggiungere gli altri popoli?” [12].

Peraltro, è solo la contingenza storica che impedisce di realizzare la prospettiva di Lenin di dare tutto il potere ai soviet, che renderà necessario il passaggio immediato alla rivoluzione socialista. In effetti, la precedente tesi del potere ai soviet era tutt’altro che una proposta estremista, come veniva generalmente considerata. Come chiarisce, a tal proposito Lenin: “non vi può essere in Russia altro governo (escluso il governo borghese) se non i Soviet dei deputati degli operai, dei salariati agricoli, dei soldati e dei contadini. Dico che oggi in Russia il potere può passare da Guckov e Lvov soltanto a questi Soviet, nei quali predominano appunto i contadini, i soldati, predomina la piccola borghesia, per usare un termine marxista, scientifico” [13].

Lenin critica aspramente il dogmatismo attendista, che si richiama a presunte condizioni oggettive, degli Zinovev e Kamenev che, anche quando tutto era pronto per la rivoluzione, temendo la scommessa componente necessaria di ogni azione, arrivavano a denunciare sui giornali dei nemici di classe i piani sovversivi dei propri compagni. Come fa notare Lenin: “sentiamo levarsi qui le proteste dei contraddittori ai quali piace chiamarsi «vecchi bolscevichi»: non abbiamo sempre detto che la rivoluzione democratico-borghese può essere portata a termine soltanto dalla «dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini»? e la rivoluzione agraria, che è anch’essa democratico-borghese, è forse terminata? Non è invece un fatto che essa non è ancora cominciata? Rispondo: le idee e le parole d’ordine dei bolscevichi sono state immediatamente confermate dalla storia nel loro insieme, ma in concreto le cose sono andate in maniera diversa da quanto io (o qualunque altro) poteva prevedere, si sono cioè svolte in modo più originale, peculiare e vario. Ignorare, dimenticare questo fatto significa porsi sul piano di quei «vecchi bolscevichi» che più d’una volta hanno avuto una triste funzione nella storia del nostro partito, ripetendo stolidamente una formula imparata a memoria invece di studiare quanto vi era di originale nella nuova e vivente realtà” [14].

Ogni questione determinata non può mai esser risolta ricorrendo a una citazione dei classici del marxismo, in tal caso vero e proprio ausilium ignorantiae, ma mediante lo studio concreto del problema nelle sue specificità e in rapporto con le esigenze pratiche dell’azione politica. Proprio mediante la conquista rivoluzionaria “delle premesse” per conseguire il livello culturale necessario alla transizione, ci si era posti – “sulla base del potere operaio e contadino del regime sovietico” [15] – sulla via più diretta per raggiungere il grado di civiltà dei popoli occidentali. Come osserva, a ragione, a tal proposito Lenin: “non viene in mente a nessuno di domandarsi: ma un popolo che era davanti a una situazione rivoluzionaria, quale si era creata nella prima guerra imperialistica, sotto la spinta di una situazione senza via d’uscita, non poteva forse gettarsi in una lotta che gli apriva almeno qualche speranza di conquistarsi condizioni non del tutto ordinarie per un ulteriore progresso della civiltà?” [16]. Del resto, per quanto adeguatamente preparato e gestito, il processo rivoluzionario e ancora di più la transizione al socialismo restano in qualche modo una scommessa, che comunque non va scartata nel momento in cui se ne presentino le condizioni materiali e ideologiche, come fa invece la pedante anima bella socialpacifista. Dunque, Lenin rovescia le accuse di soggettivismo rivolte alla sua tattica politica, mostrando come dietro di esse si celi un dogmatismo incapace di comprendere la dialettica intrinseca della storia e di agire in essa sulla base della filosofia della prassi, senza abbandonarsi a un impotente fatalismo che pretende imbrigliare il corso del mondo con positiviste “condizioni oggettive” che vorrebbero negare il ruolo determinante del soggetto collettivo quale motore della storia. Una Rivoluzione come la russa, se anche avesse fallito il suo compito storico di rompere l’anello più debole della catena imperialista per favorire la Rivoluzione in occidente, avrebbe fornito un contributo decisivo al corso del mondo mediante “la distruzione del baluardo più potente della reazione, non soltanto europea ma anche (…) asiatica” e facendo dell’arretrato popolo russo “l’avanguardia del proletariato rivoluzionario internazionale” [17].

 

Note:

[1] Vladimir I.U. Lenin, Sulla nostra rivoluzione [gennaio 1923], in Id., Contro l’opportunismo di destra e di sinistra e contro il trotskismo, Edizioni progress, Mosca 1978, p. 581.

[2] Id., Alcune particolarità dello sviluppo storico del marxismo [23 dicembre 1910], in op. cit., p. 142.

[3] Ivi: p. 138.

[4] Id., Lettere sulla tattica [aprile 1917], in op. cit., p. 303.

[5] Id., Prefazione all’edizione russa del “Carteggio di J.Ph. Becker, J. Dietzgen, F. Engels, K. Marx e altri con F.A. Sorge e altri” [aprile 1907], in op. cit., p. 65. Perciò, Lenin critica i dogmatici che smarriscono il senso del marxismo quale guida per l’azione, trasformandolo “in un dogma, in ‘ortodossia pietrificata’, vedendovi un ‘simbolo di fede e non una guida per l’azione’, non avendo la capacità di adattarsi al movimento operaio teoreticamente debole, ma vivo, possente, di massa che passa al loro fianco” ibidem.

[6] Id., Lettere…, op. cit., p. 302.

[7] Ivi, p. 310-11.

[8] Id., Prefazione alla traduzione russa delle Lettere di K. Marx a L. Kugelmann [5 febbraio 1907], in op. cit., p. 56.

[9] Id., Lettere…, op. cit., p. 314.

[10] Id., L’opportunismo e il crollo della II Internazionale [gennaio 1916], in op. cit., p. 254.

[11] Id., Sulla nostra…, op. cit., p. 584.

[12] Ibidem.

[13] Id., Lettere…, op. cit., pp. 307-08.

[14] Ivi, p. 303.

[15] Id., Sulla nostra…, op. cit., p. 584.

[16] Ivi, p. 583.

[17] Id., Che fare? [febbraio 1902], in op. cit., p. 27.

16/07/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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