Fare i conti con il fascismo storico e politico

L’antifascismo di cui abbiamo bisogno è quello delle lotte sociali e sindacali contro i fascisti alleati di agrari e industriali, contro il fascismo che mandava le giovani generazioni a morire nelle guerre imperialiste e coloniali, contro le leggi razziali e la limitazione delle libertà individuali e collettive. Il fascismo che metteva all’indice libri scomodi per ottenebrare le menti dei giovani.


Fare i conti con il fascismo storico e politico

La Repubblica fondata dalla Resistenza non ha mai fatto i conti fino in fondo con il Ventennio e da anni ormai, indebolito il movimento sindacale e comunista, i revisionisti hanno avuto la strada spianata per operare, indisturbati, a tutto campo.

Fare i conti con il fascismo è ormai una priorità assoluta. Forse siamo fuori tempo massimo dopo anni di operazioni culturali, mediatiche e politiche improntate a una rilettura del passato per giustificare le scelte del presente.

Molti testi scolastici sono riscritti a uso e consumo dello sdoganamento soft del fascismo, in un paese nel quale si leggono meno libri e giornali in confronto con la stragrande maggioranza delle nazioni europee.

Ma cosa intendiamo, quando si parla di fare i conti con il fascismo ?

Liberiamo subito il campo da alcuni equivoci di fondo. Non parliamo dell’antifascismo retorico e istituzionale diventato, con linguaggi e pratiche idonei allo scopo, un corpo ideologico giustificazionista delle politiche di austerità. Non ce ne voglia l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ma per troppi anni sono stati silenti e complici con governi di centro-sinistra ed esponenti politici che hanno contribuito a sdoganare il fascismo nella cosiddetta seconda Repubblica. 

E oggi il Piano di Rinascita democratica di Licio Gelli è caduto nell’oblio quando invece permetterebbe di conoscere la lunga scia nera dal fascismo ai nostri giorni. Quel Piano non era il libro dei sogni di vecchi nostalgici ma un progetto di revisione costituzionale e della forma Stato, di profonda trasformazione della società in senso autoritario per sposare le tesi padronali che, fin dalla sua nascita, hanno attraversato il fascismo storico e politico.

Se il fascismo prima della Marcia su Roma venne foraggiato da agrari e industriali per spezzare le reni al movimento sindacale, oggi il governo Meloni vuole spezzare le reni (usiamo volutamente il loro linguaggio) ai movimenti per la casa presentando una proposta di legge che prevede fino a 9 anni di pena per gli occupanti.

Proviamo allora ad aprire tra i nostri pochi lettori una riflessione certi di attirarci critiche e antipatie.

L’amnistia di Togliatti liberò migliaia di fascisti. Molti fecero ritorno ai loro posti di lavoro nello Stato, nelle prefetture, nelle forze armate e in quelle dell’ordine. L’amnistia nasceva come intento di pacificazione in un paese uscito frantumato dalla guerra (non solo quella tra Stati ma una guerra interna civile della quale per trent’anni la storiografia ufficiale non ha mai parlato). Quella pacificazione, giudicata necessaria dai vertici dell’allora Pci, determinò la prima insanabile frattura con la Resistenza antifascista. Già nell’estate del 1946 migliaia di fascisti uscivano dalle galere ritornando ai loro vecchi posti di lavoro. Molti partigiani vennero allora epurati e altri incarcerati con accuse pesanti, trattati alla stregua di delinquenti comuni. Nelle questure, nelle prefetture, nelle forze armate e dell’ordine fecero ritorno ex repubblichini e fascisti dichiarati, parte dei quali ritroveremo anni dopo nella strategia della tensione o protagonisti delle repressioni di piazza contro gli scioperi, le occupazioni di terre. 

Anche la storiografia resistenziale solo in tempi recenti ha scoperto pagine di storia occultate per troppo tempo, emblematica l’esperienza della Volante Rossa, partigiani dipinti come criminali comuni che decisero di resistere, armati, agli attentati contro sedi di partito, circoli ricreativi comunisti e socialisti che bande di repubblichini portavano a segno nei mesi successivi alla Liberazione. Molti di quei partigiani furono costretti a espatriare per sfuggire ad anni di carcere e in Italia fecero ritorno negli ultimi mesi della loro esistenza. La cacciata dei partigiani e la loro sostituzione con personaggi collusi con il fascismo è stata la prima grande ferita subita dalla Resistenza.

L’amnistia di Togliatti permise a ex repubblichini di dare vita anni dopo all’Msi e ad altre organizzazioni nostalgiche del fascismo e nuovamente alleate con agrari e industriali (e al servizio della Nato o tra le fila di Gladio) che fin dai mesi successivi alla Liberazione portarono avanti l’epurazione dei comunisti dalle fabbriche, comunisti che davano, allora, vita a scioperi e proteste a tutela del potere di acquisto salariale e per migliorare le condizioni di lavoro e di vita.

Che dire poi della rapida liquidazione dei tribunali promossi dal Cnl e sostituiti dalla giustizia ordinaria, non prima di avere riammesso in servizio cancellieri e magistrati dell’epoca fascista?

A giudicare i crimini dei fascisti la Repubblica antifascista chiamò giudici pochi anni prima conniventi con il fascismo e magari iscritti al partito, un conflitto di interessi evidente eppure tacitato in nome della pacificazione nazionale.

Questi fatti storici, se debitamente analizzati, sono a nostro avviso determinanti anche per analizzare e comprendere il presente. Prendiamo per esempio alcune frasi (“che c’entriamo noi col fascismo?”, “il fascismo in fondo ha anche fatto buone cose”), autentici stereotipi diventati, anche grazie a martellanti campagne mediatiche, una sorta di senso comune.

Nell’immaginario collettivo il fascismo è diventato fautore delle pensioni, dello Stato sociale e di utili interventi pubblici. Libri come quelli di Filippi andrebbero discussi nelle scuole italiane di ogni ordine e grado, nei luoghi di lavoro e nelle sedi sindacali, avremmo molto da imparare anche per i tempi presenti.

Rimettere mano alla storia dell’antifascismo italiano, rivisitarne alcune pagine dimenticate, è un’operazione non solo storica ma politica. Non avere fatto i conti con il fascismo ci ha fatto prendere cantonate su innumerevoli questioni e soprattutto ha spianato la strada all’avvento della sinistra liberal attenta ai diritti civili ma non a quelli sociali. E studiare il fascismo consentirebbe di appurare le cause del suo successo, gli errori commessi da comunisti e socialisti nell’avversare gli Arditi del Popolo. Un’operazione culturale indispensabile per comprendere le ragioni del successo di Fratelli d’Italia alle ultime elezioni politiche e iniziare a contrastare il governo Meloni senza attendere i sonnacchiosi e concertativi sindacati rappresentativi che in Italia non muovono foglia mentre in altri paesi europei ci sono scioperi e proteste di piazza.

Non serve solo rinsaldare gli anticorpi dell’antifascismo – meglio di noi lo fanno alcuni storici di ultima generazione contro i quali si inveisce dalle pagine di alcuni giornali con una campagna di odio che ci riporta al passato fino a ostacolarne la presenza nelle scuole e nelle università –, è una priorità insopprimibile interrogarci sul perché il fascismo sia stato sdoganato e riproposto in altre forme. 

Prendiamo il caso delle battaglie fascistissime o coloniali dipinte come atti eroici, le visite delle scolaresche in caserma, lo stage scuola-lavoro nei centri di addestramento militare, la presenza di multinazionali di armi negli atenei italiani nel ruolo di disinteressati mecenati.

Non accusiamo certo di fascismo i militari e i produttori di armi, ma crediamo che i valori da loro propugnati (la sicurezza nazionale, l’esaltazione della patria...) attingano da quel brodo di coltura da cui è nato anche il fascismo storico.

Non si capisce la ragione per la quale si debbano celebrare con ragazzi di 10 o 14 anni le battaglie combattute dall’esercito italiano alleato dei nazisti, presentandole come atti di eroismo e di italianità. Il nostro paese non ha fatto i conti con la passata esperienza coloniale (e solo alla fine degli anni Sessanta sono arrivati i primi studi critici con la pubblicazione di tanti documenti occultati da storici conniventi ideologicamente con il passato coloniale e fascista); per questo ci siamo imbattuti in azioni disumane come quelle ai danni di detenuti somali da parte di soldati italiani. Oppure pensiamo che Faccetta nera sia solo un’allegra canzonetta della quale non conosciamo le parole o peggio ancora le riteniamo neutre e inoffensive?

Non avere fatto i conti con il passato coloniale ha spianato la strada alle missioni di guerra all’estero sotto l’egida Onu o Nato. Quel passato coloniale fu un tratto distintivo del fascismo alla ricerca di terre al sole, per conquistare le quali non lesinò l’utilizzo di gas contro l’inerme popolazione civile. E i bombardamenti “umanitari” all’uranio impoverito degli ultimi anni non sono dissimili da quelli in Etiopia.

Le ultime esternazioni del ministro La Russa trovano un terreno fertile e già arato da anni di revisionismo storico e di pratiche diseducatrici, di rimozione delle profonde ragioni dell’antifascismo dipinto ormai come un retaggio ideologico del passato. Il vittimismo della destra dei nostri giorni trasforma i fascisti in patrioti assegnando al concetto di patria una valenza positiva per giustificare il sostegno alla guerra, alla lotta senza quartiere contro i salariati, alimentando la logica dei nemici interni di turno (vedi i 9 anni di carcere proposti per gli occupanti di casa).

Sulle Fosse Ardeatine e sull’attentato di via Rasella menzioniamo integralmente una nota redatta dagli storici dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri che smentisce la propaganda repubblichina di La Russa:

“In merito alle dichiarazioni del presidente del Senato Ignazio La Russa l’Istituto nazionale Ferruccio Parri – Rete degli Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea –, per rispetto alla verità storica, dichiara:

1) L’ attacco partigiano di via Rasella fu un legittimo atto di guerra condotto contro una pattuglia di poliziotti altoatesini appartenenti al terzo battaglione Bozen.

2) Il Polizeiregiment Bozen comprendeva tre battaglioni, si era formato nel settembre 1943, subito dopo che i tedeschi, a seguito dell’armistizio, avevano costituito l’Operationszone Alpenvorland, (zona di operazione delle Prealpi), che comprendeva le province di Belluno, Trento e Bolzano.

3) La maggior parte dei suoi membri, a seguito dell’opzione del 1939, avevano preso la cittadinanza tedesca.

4) Il battaglione Bozen non era una banda musicale ma un battaglione di polizia armato di pistole mitragliatrici e bombe a mano, che stava ultimando il suo addestramento.

5) L’età media dei componenti era sui 35 anni (avevano un’età dai 26 ai 42 anni), quindi certamente non delle giovani reclute ma neppure dei semipensionati.

6) È bene ricordare che gli altri due battaglioni del reggimento Bozen erano stati subito impiegati in funzione antipartigiana in Istria e nel Bellunese, dove si erano resi autori di stragi.

7) Il battaglione oggetto dell’attacco di via Rasella è stato successivamente impiegato in Italia in funzione antipartigiana.

8 ) A seguito dell’attacco i tedeschi fucilarono alle Fosse Ardeatine 335 fra antifascisti, partigiani, ebrei, detenuti comuni. Le liste furono compilate con l’aiuto della questura di Roma. L’ordine di fucilazione fu eseguito prima della pubblicazione del comunicato emanato dal comando tedesco della città occupata di Roma alle 22.55 del 24 marzo 1944.

9) Per tale atto il questore di Roma, Pietro Caruso, fu condannato a morte dall’Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il fascismo. La sentenza fu eseguita il 22/9/1944.”

La stessa Anpi, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ha innumerevoli responsabilità nell’avere trasformato l’antifascismo in un retaggio del passato o in un messaggio alle giovani generazioni senza riferimenti alla odierna realtà limitandosi magari a ricordare la bontà di una Carta costituzionale che la tecnocrazia del centro-sinistra ha prima svilito e poi affossato tra pareggi di bilanci e ricorso strutturale alla guerra. E l’antifascismo non può essere riesumato due giorni l’anno o per giustificare alleanze elettorali di centro-sinistra, con programmi di austerità contro le classi popolari che combatterono il fascismo identificandolo con la guerra, la miseria, la violenza dei padroni e l’assenza di democrazia e libertà.

L’antifascismo di cui abbiamo bisogno è quello delle lotte sociali e sindacali contro i fascisti alleati di agrari e industriali, contro il fascismo che mandava le giovani generazioni a morire nelle guerre imperialiste e coloniali, contro le leggi razziali e la limitazione delle libertà individuali e collettive. Il fascismo che metteva all’indice libri scomodi per ottenebrare le menti dei giovani.

Ma questo antifascismo, che un tempo avremmo definito militante, è un antifascismo inviso a larghi settori della cosiddetta sinistra, la stessa che pensava all’amnistia di Togliatti come un atto necessario per pacificare il paese e per ricostruirlo nella democrazia, salvo poi accorgersi che i fascisti si erano solo riciclati nelle istituzioni ed erano sempre pronti a organizzare colpi di Stato, attentati contro i lavoratori e a partecipare attivamente alla strategia della tensione.

E gli eredi politici dei fascisti di ieri si definiscono oggi italiani, ma hanno bisogno di riscrivere la storia del Novecento per trovare giustificazioni all’operato dei loro padri e poter restringere gli spazi di libertà e di democrazia oggi.

L’antifascismo militante e di classe non potrà ridursi a una memoria storica astratta, per questo indagare il passato significa coglierne i collegamenti con il presente.

14/04/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Federico Giusti

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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