I nostri compiti di dopo la sconfitta elettorale

Ripartire dalla sconfitta elettorale attrezzarci con nuove analisi e nuove lotte. Un contributo per un lavoro in rete delle riviste comuniste.


I nostri compiti di dopo la sconfitta elettorale

L’insediamento del nuovo governo ha confermato che i dissidi interni alla coalizione di centrodestra sono facilmente superabili. Nei prossimi mesi non mancheranno occasioni di contrasto e divisioni su importanti temi come quelli fiscali o il rapporto con l’Unione Europea, ma non è questo il momento per rompere gli equilibri interni.

Il governo Meloni annovera pochi tecnici, uno agli Interni dovuto al tacito veto di Fdi nei confronti di Salvini, un segnale di rottura rispetto al recente passato. Ma attenzione, i tecnici saranno comunque presenti e avranno un certo peso nelle commissioni ministeriali chiamate a prendere decisioni. E quei tecnici sono diretta espressione dei poteri economici e finanziari dominanti che si adattano al governo di turno, con la certezza che comunque faranno pesare le loro scelte.

Chi pensava che i settori atlantici e padronali non avrebbero mai dato spazio alla destra era solo un illuso. Sarebbe bastato leggere i giornali padronali o guardare ai viaggi oltre Manica e oltre Oceano di esponenti del ceto politico e della classe imprenditoriale. Del resto da sempre il padronato si tiene le mani libere e, in base alla situazione, punta sul fronte moderato, sull’estrema destra, anche fascista, o su entrambi.

Potremmo ironizzare o guardare dall’alto verso il basso il nuovo esecutivo ma non sarebbe di alcun aiuto e anzi ci porterebbe a scimmiottare l’insopportabile spocchia del centrosinistra che ancora non ha compreso le ragioni della cocente sconfitta elettorale.

Ci siamo chiesti quali siano i nostri compiti nell’attuale fase. Possiamo analizzare e scindere il capello all’infinito ma senza cogliere l’essenza del problema.

Le sconfitte elettorali sono il risultato di una sconfitta politica e culturale che precede il voto. In questi anni si è rotto un legame storico con le classi subalterne; a sinistra ha prevalso una linea tecnocratica che ha portato non solo ai governi tecnici e all’agenda Draghi ma ad assumere un atteggiamento passivo rispetto a ogni decisione sovranazionale, sia essa proveniente dall’Unione Europea o dalla Nato.

“Ce lo chiede l’Ue” e in nome di Maastricht si è innalzata l’età pensionabile, sono stati attaccati e derisi i diritti sociali, è prevalsa la logica dell’impresa su quella dei lavoratori.

Oggi parlare di sinistra è un nonsense se per sinistra intendiamo una collocazione politica e culturale in rappresentanza dei ceti subalterni, sostenitrice delle ragioni del lavoro e della pace, della difesa del territorio dalle devastazioni ambientali, della tutela dei lavoratori nell’ottica di ampliare gli spazi di democrazia, libertà e partecipazione.

Se un ministro del centrosinistra diventa fautore dei pacchetti sicurezza, c’è poco da illudersi sulle ricadute anche in termini elettorali, che saranno inevitabilmente negative.

Non si tratta, almeno per noi, di ripartire dalle elezioni; anzi urge elaborare il lutto anche da parte di quanti pensavano di potere superare lo sbarramento del tre per cento e si sono ritrovati con poco più dell’uno per cento dei voti presi per lo più nei quartieri del centro storico.

Se dovessimo ripartire dalle elezioni dovremmo guardare a quanti non hanno votato perché non si sentivano rappresentati. Per lo più parliamo di ceti popolari usciti in frantumi dalle crisi economiche succedutesi negli ultimi 20 anni, impoveriti dalla pandemia, impossibilitati ad accedere a diritti basilari come quello dell’istruzione e della salute.

Il governo Meloni ha intercettato parte dei ceti popolari stanchi del centro sinistra, troppo a lungo illusi e derisi. Presto questi ceti si accorgeranno di avere mal riposto le speranze in un Esecutivo che si annuncia fin da ora filoatlantico e assai vicino alle posizioni padronali,

Il mondo della scuola e dell’università, quello del lavoro pubblico dovranno fare i conti con questi ministri. Per farlo bisogna uscire dalla logica del contenimento del danno, quella logica che ci ha portato ad abbandonare i luoghi di lavoro e la scuola stessa.

Urge farsi trovare preparati nei prossimi mesi quando il disagio sociale, la crescente emarginazione e povertà delle classi popolari si manifesteranno in molteplici forme; non è da escludersi una ondata di destra in un paese ormai senza memoria. 

La crisi dei corpi intermedi è anche risultato dell’abbandono dei compiti che spetterebbero loro: sindacati servili e subalterni che non riescono neppure a portare avanti semplici rivendicazioni. Per esempio non è in vista alcuna mobilitazione per ottenere rinnovi contrattuali che prevedano finalmente un effettivo recupero del potere d’acquisto, perduto da 30 anni a questa parte grazie all’applicazione del codice Ipca [1]. Tale metodo non prende in considerazione gli aumenti di prezzo dei prodotto energetici e, neppure ora, in presenza e in prospettiva di enormi aumenti di tali tariffe, viene messo in discussione con vere vertenze, ma tuttalpiù mendicando dal governo qualche elemosina di carattere concertativo.

Vediamo attorno a noi vertenze importanti ma anche l’incapacità di mettere in connessione la guerra, le sanzioni economiche e i processi speculativi nel mercato del gas e di altri generi di prima necessità con il rincaro delle tariffe. Lo slogan uscire dalla guerra è doveroso ed efficace ma presuppone un deciso cambio di rotta. Evitiamo di dividerci come i presunti esperti in televisione, perdendo di vista le questioni materiali, le ragioni per le quali il conflitto viene ogni giorno alimentato dalla Nato e dagli Usa.

Sono decenni ormai che eludiamo le questioni dirimenti, ci limitiamo, nel migliore dei casi, a leggere e interpretare la realtà in senso astratto senza mai presupporre una consequenzialità tra il lavoro intellettuale e di inchiesta e alcuni obiettivi da perseguire attrezzandoci a tale compito senza dimenticare il nesso fra teoria e prassi.

Non abbiamo ricette o consigli da dare, ci sono già troppi soloni in giro pronti a fornire la loro lettura, se vogliamo fare un salto di qualità dovremmo immergerci in un bagno di umiltà prendendo atto di una sconfitta storica e culturale per ripartire subito con un deciso cambio di passo.

Una rivista non può fornire linee politiche ad organizzazioni sindacali e politiche ben più numerose e strutturate. Possiamo, anzi dobbiamo, provare a non impartire lezioni contribuendo invece a fornire spunti di analisi, letture aggiornate e intraprendere una battaglia delle idee su alcune tematiche.

Mettersi in rete con quanto resta della sinistra di classe, delle riviste marxiste e comuniste, con i movimenti sindacali e sociali conflittuali significa non dettare loro la linea ma provare a contribuire a un salto di qualità analitico rinnovando anche i nostri strumenti comunicativi.

È forse questo un progetto poco ambizioso ma il solo percorso che restituisca dignità ad una analisi della realtà che dia strumenti a noi tutti/e per cambiare lo stato delle cose presenti.

 

Note:

[1] Si tratta di un indice elaborato a livello europeo per altri scopi, ma che viene preso a base nei rinnovi contrattuali. È calcolato al netto dei prezzi dei prodotti energetici.

28/10/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Federico Giusti

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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