Chi crede ad un capitalismo dal cuore umano o è ingenuo o è in malafede

Le richieste degli ambientalisti devono tener presente che l’attuale modo di produzione non solo produce emissioni nocive ma ne riduce anche la capacità di assorbimento


Chi crede ad un capitalismo dal cuore umano o è ingenuo o è in malafede Credits: https://www.ilbarbuto.blog/wp-content/uploads/2019/10/Greta_Thunberg_ONU.jpeg

Negli ultimi tempi si parla molto di Greta Thunberg, del cambiamento climatico e dei ragazzi che scendono in piazza, in tutto il mondo, per manifestare a favore della salvaguardia del Pianeta. Ma al netto di chi tra chi si pone accanto alla piccola Greta e chi, invece, la considera una pedina nelle sporche mani di cattivi manipolatori, urgono un paio di riflessioni su due aspetti importanti ma antitetici. Anzitutto, è un'ottima cosa che Greta e i ragazzi scendano in piazza e che ci sia una figura carismatica (almeno per la generazione che rappresenta), capace di coordinare in qualche modo un vasto movimento globale, seppur in nuce organizzato. Il secondo aspetto, però, vanifica completamente gli sforzi effettuati dalla piccola Greta e dai ragazzi che credono che, manifestando in piazza e ponendo delle richieste alla politica mondiale, si possano cambiare effettivamente le cose.

La classe politica mondiale (ed europea in particolare) a cui si rivolge il movimento dei Fridays for future, sia essa liberista, liberalista, social-democratica o sovranista, è il destinatario sbagliato, perché non fa altro che rappresentare gli interessi del mercato globale. Chi detiene i debiti degli stati o fa grossi investimenti nei suoi territori influenza - molto pesantemente - le politiche economiche e sociali di quest'ultimi e quando si sente parlare di spread, reazione dei mercati ad una certa vicenda nazionale, spending review (ossia riduzione della spesa pubblica al fine di pagare i debiti e gli interessi sul debito), incentivi sui consumi, fiscalità agevolata per aziende transnazionali, ecc. ecc. si sta parlando esclusivamente di misure a tutto vantaggio di grossi soggetti privati, siano essi banche, holding o grandi industrie.

Sostanzialmente, sono queste ultime, in particolare l’industria energetica, che producono le più alte concentrazioni di CO2 in atmosfera e che trasformano le risorse naturali in mezzi di produzione. Ma non basta. Per arrivare al massimo rendimento ai minimi costi possibili e ridurre così la concorrenza, eliminando dal mercato i piccoli produttori, l'industria ha bisogno di ottenere a buon mercato le risorse, siano esse umane o naturali e così, per esempio, delocalizza i propri stabilimenti nelle zone del globo dove il costo della manodopera è più basso o dove può ottenere materia prima a costi minori e lo fa con ogni mezzo, anche producendo conflitti ad hoc e favorendo soggetti politici che favoriscano i propri intenti.

L'ambiente, i diritti dei lavoratori, i diritti sociali, la stessa umanità, per l'industria, rappresentano un costo e più sono bassi i costi più l'industria può vendere le proprie merci a buon mercato e sbaragliare la concorrenza. Chi crede ad un capitalismo dal cuore umano o è ingenuo o è in malafede.

Dato che anche l'ambiente, con i suoi alberi, le foreste, i mari e i fiumi, sono un costo, all'industria non interessa che effetto può provocare la loro trasformazione, interessa solo quanto la loro trasformazione si traduca in abbattimento di costi o aumento di profitti. Facciamo un esempio.

Poniamo che in Gallia (nome di fantasia) ci sia l'azienda CosmoPlast che produce materiale plastico ed emette in atmosfera CO2 per una tonnellata all'anno. Nei dintorni però c'è una foresta in grado di assorbire una tonnellata di C02. In questo caso, nonostante l'attività inquinante dell'industria, la foresta cattura il carbonio e quindi non provoca alcun incremento di CO2 in atmosfera. Ma ad un certo punto la catena di panini T.Donald, che ha esaurito i propri pascoli intensivi e ha bisogno di allargarsi, finanzia la campagna elettorale del candidato alla presidenza della Gallia e questi, avendo vinto le elezioni, ricambierà il favore consentendo la deforestazione per creare nuovi pascoli. Alle rimostranze popolari risponderà dicendo che così si creeranno nuovi posti di lavoro e nuove opportunità nell'indotto. Peccato che però la deforestazione ha provocato un aumento consistente delle emissioni di CO2 in atmosfera, proporzionato alla quantità di alberi abbattuti. L'effetto non sarà immediato, ma si noterà negli anni. La colpa sarà del Presidente? Oppure della CosmoPlast? O della T.Donald, che fa panini?

In questo esempio, il Presidente altro non è che uno strumento nelle mani di chi lo ha finanziato, mentre i responsabili del disastro ambientale sono quelli che emettono sostanze inquinanti e riducono le fonti di assorbimento, insieme, entrambi. Se qualcuno, anni dopo, dovesse lamentarsi, si risponderebbe - al solito - con il ricatto occupazionale: “ma come? Queste aziende portano soldi e benessere sul territorio!”. Chiaramente si ometterebbe di dire che quelle aziende producono sfruttamento di ogni risorsa, umana e ambientale e che i profitti non sono socializzati né ricadono sul territorio, ma vengono appropriati dai capitalisti e spostati per essere reinvestiti altrove, dove le condizioni sono più vantaggiose.

Quindi appare chiaro che tra i fenomeni che contribuiscono al riscaldamento globale non vi è solo l'attività di emissioni di CO2 in atmosfera, ma anche il progressivo ed inesorabile consumo di suolo, sia per attività agricole sia per altri utilizzi (allevamento, edilizia, ecc.). Le emissioni potrebbero essere frenate aumentando il numero di alberi a livello globale, mentre nella realtà avviene il contrario. Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), le aziende più inquinanti sono quelle del settore dell'energia elettrica (25%), seguite da quelle agricole intensive (24%) che determinano un aumento anche a causa dell'utilizzo massiccio di fitofarmaci, del conseguente impoverimento del suolo e dei continui disboscamenti per ottenere terre fertili, nonché dall'industria (pesante e dei consumi), che incide per il 21%. Per il 14% contribuiscono poi i trasporti.

Ridurre le emissioni serve a ben poco e la politica globale sostanzialmente ci prende in giro, imponendo riduzioni delle emissioni ai cittadini, senza toccare gli interessi dei grossi gruppi che controllano la produzione di energia, l'agricoltura e l'industria e che sottraggono suolo alle fonti di assorbimento a vantaggio della creazione di nuovi mezzi di produzione.

Il buon vecchio Marx aveva già affrontato questo fenomeno sin dalla fine dell'Ottocento. Pur non parlando di riscaldamento globale, aveva già ampiamente spiegato che il modo di produzione capitalista avrebbe portato ad uno sfruttamento delle risorse su scala sempre più vasta e ad una produzione e smercio dei prodotti su scala globale. Lo sfruttamento delle risorse, siano esse umane o naturali, è una diretta conseguenza, anzi, è connaturata al modo di produzione capitalistico.

Un capitalista può cacciare l'altro concorrente  e conquistare il suo capitale solamente vendendo più a buon mercato. Per poterlo fare senza rovinarsi deve produrre a costi sempre più ridotti. E come? Con una maggiore divisione del lavoro, un perfezionamento costante dei macchinari e con l'accaparramento di nuove risorse naturali. Più è ottimizzato il processo produttivo e minori saranno i costi di produzione. Però ora il capitalista ha un problema: se riesce a produrre più merci in minor tempo e a costi più ridotti, dovrà ovviamente vendere più merce e a prezzi inferiori, ecco che ha bisogno di espandersi non solo dal punto di vista produttivo, ma anche nel mercato.

Il suo guadagno, però, non dipende dal prezzo di vendita, perché quello varia in base a molti fattori, ma dalla differenza tra i costi di produzione della concorrenza e i suoi. Quindi sorge una gara generale fra i capitalisti per sfruttare tutte le risorse su una scala sempre più grande e infatti prima o poi tutti si adegueranno ai nuovi costi di produzione, ossia introdurranno nuovi macchinari, un maggior perfezionamento della divisione del lavoro e così si riallineeranno ai costi di produzione del nostro capitalista. E quindi ora si trovano tutti sulla stessa barca. Per farsi concorrenza oggi, si troveranno a vendere con margini di profitto ancora più contenuti. E che succede? Di nuovo, maggiore divisione del lavoro, introduzione di nuovi macchinari, sfruttamento su più larga scala delle risorse naturali, ecc. Ecc.

Chi si ferma fallisce, mentre chi vuole sbaragliare la concorrenza deve per forza operare su scala sempre più larga. Ecco che si genera il mercato globale, il quale – sempre secondo Marx – aumenta il divario tra ricchi e poveri del pianeta e tende ad esaurire tutte le risorse naturali.

Per tornare all'esempio della T.Donald, il prezzo di 1,00 € che paghi per il suo panino, molto probabilmente consente di coprire i costi di produzione che includono: deforestazione, allevamento, macellazione, trasporto, lavorazione, cottura, servizio, ecc. Per aumentare il suo profitto e ridurre la concorrenza la T.Donald dovrà sempre ottimizzare ancora di più i suoi processi produttivi e procedere a nuove deforestazioni, aumentare il tempo di lavoro, aprire nuovi punti vendita, ecc., su scala sempre più grande, il che presupporrà un notevole consumo di suolo oltre che ingenti sfruttamenti di risorse naturali e umane, fino a quando le risorse non saranno completamente esaurite.

Quantunque le richieste della piccola Greta e del suo movimento globale siano sacrosante e abbiano messo in mostra un problema sempre più grave, non solo sono rivolte alle persone sbagliate, ma si limitano a chiedere la riduzione dell'inquinamento da fonti fossili e il rispetto degli accordi di Parigi, non un ripensamento globale sul modo di produzione, che - giova ripeterlo - produce emissioni nocive e riduce l'assorbimento, su scala sempre più vasta.

L'Europa, dal canto suo, ha messo in campo un piano basato sulla c.d. bio-economia circolare, che prevede la dismissione graduale dell'utilizzo di fonti fossili e un aumento dell'utilizzo di fonti naturali per numerose produzioni, in particolare energetica e industriale. In altre parole con la bio-economia s'intende utilizzare i terreni per produrre combustibili e prodotti naturali da utilizzare non solo per la produzione di altri mezzi di produzione, ma anche per il largo consumo (es. piatti in fibra di canapa, posate in legno, cottonfiocchi in fibre naturali, ecc.). Questo piano è in linea con l'accordo di Parigi e sembrerebbe accontentare le intenzioni dei giovani manifestanti e della piccola Greta. Ma c'è un rischio enorme.

Ce lo spiega di nuovo Marx, quando parla dei cicli produttivi: al capitalista non interessa investire in un ramo d'industria piuttosto che in un altro, non interessa investire in petrolio, in motoscafi, in pane o in lampadine, l'importante è ottenere profitto. Quindi, quando l'utilizzo di fonti fossili sarà disincentivato, le stesse aziende che le hanno sfruttate finora, si butteranno sul ramo più profittevole, il ché comporterà l'uso dello stesso metodo - quello capitalistico - su fonti diverse: sfruttamento dei terreni, delle risorse naturali (e chiaramente del lavoro) su scala sempre più ampia. Non è infatti un caso che i principali investitori nella bio-economia siano le stesse aziende che finora si sono occupate dell'estrazione, raffinazione e vendita di petrolio. E non è un caso che in Africa, America Latina, Sud Europa e Sud-Est asiatico ci sia ormai una corsa per accaparrarsi ingenti fette di terre fertili. Nemmeno i vasti incendi in Amazzonia sono un caso.

Dunque appare evidente che il problema principale non sta nella fonte di approvvigionamento, quanto nel modo di produzione e che ridurre le emissioni è completamente inutile se all'orizzonte si prospetta uno sfruttamento più massiccio della terra, il ché vuol dire maggiori deforestazioni per permettere coltivazioni su larga scala di piante e ortaggi ad uso energetico e industriale (oltre agli immancabili pascoli) e, conseguentemente, un ritorno al latifondo su scala globale, senza trascurare le inevitabili guerre che si scateneranno tra capitalisti per ottenere maggiori risorse.

Ora, la piccola Greta fa bene ad aumentare l'attenzione sui cambiamenti climatici, ma l'errore di fondo sta nel porre le domande alle persone sbagliate. La politica è uno strumento in mano a (più o meno) pochi gruppi che detengono ingenti capitali e si dividono i debiti degli stati nazionali. Le misure poste in essere dalla politica globale incideranno sempre e comunque sulle fasce più deboli della popolazione (pensate, per esempio, all'obiettivo di eliminare tutti i mezzi a combustione fossile nei prossimi decenni. Chi potrà permettersi un'auto elettrica? E davvero l'elettrico è ecologico?) e non risolveranno alcunché, anzi, la politica bio-economica inasprirà i conflitti sociali e produrrà uno squilibrio ambientale enorme.

Le richieste andrebbero quindi fatte ai veri potenti della terra, a chi detiene il controllo dei mezzi di produzione. Ma farle a loro è un tantino complicato, perché spesso si nascondono dietro ad inaccessibili CdA e non hanno alcun interesse a cambiare metodo di produzione. Anzi. E quindi, in fondo, il movimento di Greta è una pia illusione. Non con le richieste si salva il pianeta, ma con la lotta. Quella di classe. Se solo ci fosse una coscienza di classe, però.

Articolo sviluppato dal blog dell’autore.

13/10/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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