Il cosiddetto problema ambientale

Trattare le questioni ambientali separatamente dal processo storico che le ha determinate impedisce l’individuazione delle azioni positive o contromisure da intraprendere.


Il cosiddetto problema ambientale

Nella misura in cui l’interessamento generale ai problemi ambientali è diventato di moda, non si può fare a meno di affrontare l’argomento mentre si è stupiti, eufemisticamente, per le variegate forme ideologiche in cui questo viene isolato da ogni altro condizionamento storico, sociale, politico, economico, ecc.

Per privilegiare gli aspetti di fondo del cambiamento climatico, e cosa si deve intendere per ambiente, si è costretti a dare per scontato, almeno parzialmente, l’innumerevole elenco delle modalità e degli effetti registrati ormai da tempo da questi scienziati di tutto il mondo. Non solo loro, infatti, in antitesi agli interessi dei negazionisti alla Trump o alla Bolsonaro, si preoccupano per l’equilibrio del pianeta a causa del riscaldamento climatico e lanciano un allarme ai paesi e alle classi più povere del pianeta, da sempre più esposti a disastri ambientali di ogni tipo (innalzamento dei mari, uragani, tsunami, ecc.).

In questo breve excursus si dà credito quindi alle numerose analisi e relazioni degli scienziati del clima e dell’ambiente in generale, non tralasciando denunce di autorevoli politici o magistrati sui danni localizzati determinati da interessi oggettivamente criminali, mentre nel contempo si verifica che l’analisi scientifica marxiana è ancora la sola in grado di individuare le cause reali e complesse del degrado crescente degli assetti sociali e territoriali, estesi ormai a livello globale. La mistificante “autonomia” delle devastazioni presenti e future relative all’“ambiente”, da parte di un dominio economico che al contrario ne determina un progressivo accadimento in forme per lo più irreversibili, dev’essere pienamente smentita unitamente a tutte le legittimazioni e palliativi ideologici, escogitati per far fronte agli effetti senza intaccarne le cause, libere così di continuare a distruggere risorse naturali e esseri umani, inquinare aria, acqua e terreni.

In un’ottica di contrasto a tali manipolazioni, va innanzi tutto riaffermato che storicamente il cambiamento naturale si sviluppa unitamente a quello umano, la cui esistenza e riproduzione è possibile attraverso un intervento attivo su tutto ciò che lo circonda, in base ai propri fini. Da sempre l’operosità o successivamente il lavoro umano, indipendentemente da ogni specifica forma della sua organizzazione, ha tratto dalla natura i materiali necessari ai bisogni sociali del suo tempo. In tal senso si può anche dire che si è posto come soggetto (naturale, come lo è il genere umano proprio nelle sue forze attive) di fronte alla materialità della stessa natura. Ciò significa che la forza produttiva umana, nell’uso progressivo dei materiali e delle energie naturali, ha inevitabilmente modificato assetti naturali originari andando a costituire quello che poi generalmente consideriamo come ambiente.

Non si può quindi prescindere da questo percorso storico in cui per ambiente deve considerarsi la trasformazione, attuata, di una natura in funzione di fini umani determinati da identificare, la cui omissione costituirebbe mistificazione rispetto ad un’analisi seria dei problemi, su cui tutti siamo chiamati ad informarci e ad intervenire nei modi possibili e opportuni. Trattare pertanto le questioni ambientali separatamente dal processo storico che le ha determinate, cioè indipendentemente dai mutamenti specifici delle finalità umane, non solo è deviante rispetto alla lettura degli effetti rilevabili, ma impedisce soprattutto l’individuazione delle azioni positive o contromisure da intraprendere, per il ripristino, se si è ancora in tempo, di una naturalità planetaria oggi considerata come altamente compromessa. La conoscenza della peculiarità del modo di produzione attuale diventa allora l’unica via di approccio corretto alla pluralità degli elementi da tenere presenti nell’analisi dei cosiddetti problemi ambientali.

Finché il processo produttivo umano ha usato la materia naturale per il proprio fabbisogno, anche in quantità eccedente, il ricambio organico con la riproduzione naturale non è stato intaccato in modo disastroso o irreversibile per le leggi del suo funzionamento, nonostante la mancanza di conoscenze o di mezzi per il procacciamento del cibo abbia potuto determinare, nel lontano passato, l’uso di terreni o bestiame in forma localmente distruttiva. Con il modo di produzione soggetto al dominio del capitale, invece, il processo lavorativo umano viene a coincidere con il processo di valorizzazione, ovvero con la finalità umana volta non più al bisogno sociale – se non in forma strumentale – bensì all’aumento quanto più possibile di un valore lavorativo da appropriare privatamente.

La prevalente esclusione sociale dalla ricchezza, quantunque socialmente prodotta, a favore della sua accumulazione sempre più concentrata in poche mani, comporta quindi una diversa valutazione della natura, concepita ora come cava inesauribile di risorse da utilizzare al massimo possibile per l’incremento di profitti privati, quale forma predatoria dominante e necessaria al sistema. La mercificazione della forza-lavoro umana, interna all’essenziale formazione di detti profitti, deve così tendere a una capacità produttiva sempre maggiore, analogamente all’appropriazione illimitata di risorse naturali ovunque localizzate per l’ampliamento intensificato del loro uso, quale progressiva compressione dei costi di produzione.

La condizione soggettiva di fornitori di pluslavoro, in quanto salariati nella fase produttiva, si unisce quindi alla base materiale della natura per la produzione di valori d’uso. Pur essendo questi però realtà ineliminabile e permanente, sono considerati solo come veicolo di valore (tempo di lavoro socialmente necessario per la trasformazione lavorativa) e plusvalore (quota di lavoro gratuito appropriato).

Lo sviluppo storico di questo sistema ha ulteriormente portato alla monopolizzazione delle forze naturali, sulla base di un diritto consuetudinario avocato a sé dai detentori della proprietà privata. Tale diritto ha inavvertitamente determinato poi la separazione tra le condizioni naturali inorganiche del ricambio materiale essere umano-natura, per la gestione e controllo comunitario delle popolazioni, demandando per lo più a forme statali e/o sovranazionali l’amministrazione degli interessi proprietari dietro cui opportunamente restare celati.

Lo stesso diritto, quindi, che porta all’accumulazione privata ha fatto sì che questa non apparisse più nella realtà scaturita dal lavoro sociale ma, separata da questo, fosse considerata come autonoma condizione proprietaria, cui spettassero le materie prime, gli strumenti di lavoro e i mezzi di sussistenza per mantenere i lavoratori durante la produzione, prima che fosse compiuta. Solo nel capitalismo dunque la natura non è più considerata come forza per sé, nel cui uso era compreso rispetto, ripristino od anche timore. Diventa un oggetto utile da subordinare ai bisogni umani asserviti da dilatare poi illimitatamente per incrementarne il consumo, che a sua volta si rovescia sul potenziamento continuo dello sviluppo delle forze produttive per realizzare valori d’uso per altri, valori d’uso sociali. Nel loro interno deve celarsi sempre più valore e plusvalore quale scopo dominante, riducendo di conseguenza la materialità naturale a mero strumento indiscriminatamente modificabile. La subalternità oggettivata dei rapporti sociali di produzione in cui si inscrive la diseguaglianza di classe, come pure la tutela dell’ambiente estranea a tali fini, realizza così il divario tra diritto proprietario e giustizia sociale, nonostante il tentativo ideologico di riaffermarne l’unità nei tribunali o nei dibattiti politici.

È poi con la monopolizzazione delle forze naturali che il capitale riesce ad ottenere preziosi plusprofitti, incorporando sia una qualunque forza naturale (ad esempio una cascata d’acqua), sia la forza-lavoro destinata a trasformarla. La forza naturale costituisce un conveniente risparmio di costi e un vantaggio concorrenziale rispetto ai capitali che non riescono a disporne, ma “non ha un valore, in quanto non rappresenta un lavoro oggettivato in essa e quindi nemmeno un prezzo che non è altro che una rendita capitalizzata.” (Gianfranco Pala, L’ombra senza corpo, La Città del Sole, Napoli). Tale proprietà consente perciò di impadronirsi di un profitto individuale maggiore del profitto medio, da capitalizzare ogni anno, e che appare quale prezzo della forza naturale stessa.

Risulta evidente poi che siffatta proprietà, che non sia toccata in sorte da un destino favorevole, può essere conquistata con la forza militare, mediante corruzione, ricatto creditizio o politico, debito pubblico, ecc., determinando così la disgregazione sociale, politica e ambientale di paesi o territori che invece ne siano casualmente dotati. Tale ricchezza terriera, idrica o mineraria diventa perciò come una maledizione per la popolazione autoctona, se il paese in questione si trova nella geografia già stabilizzata della dipendenza gerarchica dalle multinazionali o catene monopolistiche transnazionali. È il caso, ad esempio, del coltan (columbo-tantalite), che si trova solo in Australia e in Congo, ora sembra anche in Amazzonia, ed è utilizzato per piccoli condensatori, cellulari, high tech, ecc. La sua estrazione in Congo è costata, nel 1998, un numero di vite umane contate in 4 o 11 milioni di morti (a seconda dei rapporti internazionali), per la sua rarità e quindi per la contesa relativa alla sua appropriazione conflittuale con Ruanda, Uganda e Burundi. Le conseguenze di danni ambientali in riserve e parchi nazionali sono dovute alla privatizzazione delle concessioni – si fanno i nomi di Nokia, Ericsson, Sony –, che hanno praticamente distrutto anche la coesione sociale, introducendo di fatto la coercizione allo scavo per fame della popolazione anche infantile, definita “schiavitù volontaria”. Questa è l’interpretazione pertinente e più attuale del concetto di lavoratore “libero” che il capitale ai suoi inizi aveva giuridicamente e apparentemente creato secoli fa.

Se la natura è quindi dominabile sul piano del suo uso, o ricambio organico o metabolismo per la sussistenza umana, non per questo le sue risorse sono illimitate o possono essere ottenute con mezzi distruttivi degli ecosistemi. Lo sviluppo scientifico che il capitale ha promosso, con maggiore rapidità e universalità rispetto ad ogni altra epoca storica, è un lato del progresso umano che sicuramente trascende la limitatezza di questo modo di produzione, pur restando sempre bruta necessità di rivoluzionare costantemente le sue forze produttive nel superamento della conflittualità interna al suo essere pluralità e unità contraddittoria. In altri termini è proprio in questo sviluppo antitetico senza quartiere che si generano le crisi da sovrapproduzione, da cui la brama di innovazione tecnologica e contemporaneamente speculativa, se non anche le guerre per l’appropriazione energetica, di materiali necessari all’industria bellica più avanzata, di sostegno alle valute dominanti di riferimento, di controllo strategico di territori, ecc.

La distruzione di capitali necessaria alla soluzione delle crisi strutturali, ricorrenti, cicliche di questo sistema comporta anche la distruzione umana e di risorse propria delle forme belliche, mentre in tempo di pace si avrà disoccupazione o blocco produttivo, inflazione, pauperizzazione delle fasce più deboli della popolazione, emarginazione, ecc. La correlazione tra distruttività sociale e naturale risulta pertanto strettamente saldata nel funzionamento di riproduzione delle condizioni di ripresa dell’accumulazione di plusvalore di questo sistema, strutturalmente nell’impossibilità di fuoriuscire dalle intrinseche contraddizioni: “Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo… si manifesta sempre più come una potenza sociale…estranea, indipendente che si contrappone alla società.. è la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono… quando è raggiunto un certo grado di maturità, la forma storica determinata viene lasciata cadere e cede il posto ad un’altra più elevata” (K. Marx, Il Capitale).

La coscienza ecologica nasce per lo più al di fuori della consapevolezza di tale processo. In passato sono stati ipotizzati processi economici da un punto di vista termodinamico (Podolinskij, 1880), entropico (Georgescu-Roegen), della decrescita più o meno felice ed altre utopie che qui si tralasciano, per dare conto solo di qualche denuncia degli ultimi tempi innestata sulla paura dei “mutamenti” climatici potenzialmente catastrofici. Piccoli stati insulari dell’America Latina, oltre ad altri continentali che soffrono il dominio statunitense quasi fosse una calamità naturale, ne denunciano la mancata volontà di frenare il riscaldamento globale in termini di ecoterrorismo. La voce che accusa di terrorismo ambientale è quella di Edgar Isch Lopez, ex ministro dell’ambiente in Ecuador, secondo cui “chi non salvaguarda l’ambiente come patrimonio di tutti in tempo di pace, lo salvaguarda molto meno in tempo di guerra”. Tra gli “atti deliberati per garantire il proprio vantaggio a detrimento di quello degli altri” si può forse includere allora il recente incendio appiccato, per conto del presidente brasiliano Bolsonaro, pupillo usamericano, alla foresta amazzonica apertamente dichiarata di sua proprietà.

Il terrorismo ambientale – di cui parla ancora Lopez – quale strumento addizionale alla guerra ingaggiata contro i paesi riluttanti al dominio Usa, ovvero alle sue imprese o strutture finanziarie, prende corpo con la devastazione perpetrata dalla Texaco nella regione ecuadoriana di Sucumbios, per l’estrazione petrolifera. Più in generale si tratta di una nuova strategia di dominio in cui i disastri naturali sarebbero come un’arma atta a determinare danni superiori a quelli dei conflitti a bassa intensità, per l’uso di tecnologie di ultima generazione.

Nel 1974 il Pentagono ha rivelato gli sforzi per indurre piogge impreviste su Vietnam e Cambogia, per rendere impossibili gli spostamenti alle truppe di liberazione. Nel 1978 il Progetto Satellite a energia solare (SPSP) utilizza dei laser per fini militari. Il Progetto di Ricerca Aurora Attiva Alta Frequenza (HAARP) a Gokoma (Alaska) con lo sfruttamento della ionosfera altera regimi meteorologici, intercetta comunicazioni e radar nemici. Michael Chossudovsky della Global Research (Canada) dichiara alla Commissione Europea di non avere giurisdizione per intervenire nei “vincoli tra ambiente e difesa”. I cosiddetti “danni collaterali”, che ovviamente non riguardano la morte di esseri umani – per sua natura irreversibile – ma per distruzioni di edifici, fabbriche, ecc. diventano profitti da incamerare per la ricostruzione già accordata dalla preminenza bellica. Alla desertificazione da napalm, diossina, diserbante arancione, ecc. in Vietnam, e all’inquinamento da fosforo bianco, uranio impoverito, ecc. in Iraq, è seguito il Progetto di Bonifica ONU (PNUMA) di circa 40 milioni di dollari – essendo il dollaro ancora moneta di riferimento internazionale. Le leggi, ovunque, non possono essere di impedimento agli interessi. Questi le invocano solo in quanto garantiscono loro la “sicurezza giuridica” per mantenere l’esercizio del loro arbitrio.

Il Protocollo di Kyoto (11.12,1997) cui aderirono più di 180 Paesi, nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCCC) entrò in vigore solo il 16.02.2005 con la ratifica della Russia. Nel 2013 i Paesi aderenti erano diventati 192. Siccome l’accordo di ridurre le emissioni di gas al 7% risultò troppo costoso per le industrie Usa, le cui emissioni erano di circa il 14% ridotte di poco nel 2002, il loro governo non lo firmò. Il 40% delle imprese europee si comportarono un po’ diversamente, ma sostanzialmente in modo analogo. In un rapporto di Greenpeace viene dimostrato che il 98% dei finanziamenti della Banca Mondiale sono destinati a progetti industriali che incrementano il riscaldamento del pianeta. La riduzione, infatti, potrebbe automaticamente determinare il trasferimento delle industrie inquinanti da alcuni Paesi negli altri che al contrario si mantengono come “paradisi” delle emissioni. Continuamente avvengono le cosiddette “delocalizzazioni” (ignorando così il significato del termine che indica una dismissione dell’attività, un non-luogo definitivo, al posto di “dislocazioni” che invece lascia intendere il solo mutamento di luogo) perseguite o per vantaggi fiscali, o per dumping lavorativo, o per “libertà” d’inquinamento o per un ottimale mix di tutti questi fattori, in piena sicurezza d’impunità giuridica eventuale.

L’alterazione del clima “non è un problema di ambiente ma di sviluppo, che comporta un aumento di povertà, fame, malattie, incrina la sicurezza nazionale, regionale e internazionale”. A dirlo è un esperto Usa, Robert Watson che non teme di affermare che i principali responsabili delle emissioni di gas a effetto serra (CO2 in primo luogo) sono i Paesi più industrializzati mentre quelli “in via di sviluppo” – o dominati – sono i più colpiti. “Sviluppo” non è sinonimo di “crescita economica”, ma di lucro privato. Ogni anno sparisce l’1% delle foreste tropicali e il riscaldamento globale promuove il commercio illegale di specie, mentre diminuisce il 2% delle differenze genetiche nelle coltivazioni per l’imposizione del transgenico quale convenienza delle imprese transnazionali. A causa della pesca eccessiva – ad esempio – sono in pericolo le specie ittiche del Mediterraneo, del Mare del Nord, delle Galapagos e altri.

Un altro genere di degrado ambientale proviene dalla necessità di ottenere gas e petrolio, per un vantaggioso ribasso dei costi, mediante la “fratturazione idraulica” delle rocce di scisto. Si attua una perforazione del terreno a 3.000 metri di profondità rivestendo poi il canale di cemento dentro cui si fanno passare cariche esplosive, da cui si producono fori che lasciano passare gas o liquidi; in una seconda fase si pompano fino a 16.000 litri di liquidi sotto pressione, più agenti chimici, sabbia, ghiaia o terra. Dalla frattura delle rocce si libera il gas che risale lungo il canale di cemento, che poi viene raccolto e portato alle raffinerie. L’hydrofracking viene praticato per lo più in Usa e Canada, ma anche in Polonia, Germania, ecc. Oltre l’enorme spreco di acqua, le sostanze chimiche iniettate nel terreno, che per il 20% circa rimane sotto, possono contaminare falde acquifere con benzene, piombo, diesel, formaldeide, acido solforico, ecc. potenzialmente cancerogeni, oppure con isotopi radioattivi di antimonio, cobalto, zirconio, krypton, e altri. In seguito a questo trattamento sono state rilevate anche scosse telluriche (in Oklahoma nel 2011), sebbene di scarsa entità.

 Il “fascino discreto” di tanti teorici dell’aggiustamento del sistema di capitale senza intaccarlo, in alcuni casi chiamato anche “greeneconomy” per la sua vocazione al “rispetto ambientale” dichiarato, non può riguardare chi sceglie di guardare in faccia la realtà. Alcuni nomi: Jean Paul Fitoussi, Francis Fukuyama, André Gorz, Serge Latouche, Antonio Negri, Jeremy Rifkin e molti altri hanno in vario modo alimentato l’interesse e le discussioni impegnate di tanti intellettuali e politici anche “di-sinistra”, nello sforzo di mantenere nell’ombra le strategie di sopravvivenza del capitale. Nessuna nostalgia per la sinistra che fu, e neppure ormai aspirazione a questa identità poco attraente con cui essere erroneamente scambiati; o si inseguono le trasformazioni di questo sistema nel suo permanere sostanziale, per contrastarlo sul terreno delle sue contraddizioni individuate, o meglio nuotare come sardine.

Gli ultimi tentativi di inquadrare i problemi ambientali si ritrovano sotto un titolo apparentemente cólto: Antropocene, moltopresente nel dibattito internazionale. In questa parola si rintraccia l’intento di caratterizzare l’epoca in cui si attua il predominio dell’azione umana sul pianeta, assumendo l’umanità come totalità omogenea. Per chi ha ancora di fronte l’aumento delle “disuguaglianze sociali” lette in un’ottica di classe, cioè funzioni di un sistema economico specifico, tanta genericità inconsapevole, o proprio rozzezza teorica, non riesce a convincere. Più interessante risulta invece Jason Moore che risponde con un libro intitolato “Antropocene o Capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria”, per riferirsi alle trasformazioni inscritte nei rapporti di potere capitalistici. Il termine antropocene – scrive Moore – “diviene problematico… se si impone, come è accaduto, come un significante vuoto, una parola alla moda che nega ‘la disuguaglianza e la violenza multi-specie del capitalismo’,... ponendo sullo stesso piano sfruttati e sfruttatori, colonizzati e colonizzatori, bombardati e bombardieri, subalterni e dominatori, espropriati ed espropriatori”.

Senza poterci soffermare sulle articolazioni particolareggiate di queste teorizzazioni, per ovvi motivi di spazio, si lascia agli interessati la segnalazione dell’ultimo grido della battaglia delle idee, con un ultimo sguardo alla cruda realtà emblematica di Taranto sotto i nostri occhi. Ѐ un ultimo aspetto del degrado che riunisce pertanto la natura agli umani nel loro comune squallido uso, non all’attenzione come il riscaldamento climatico ma tuttavia efficace nel mostrare il nesso che salda il lato distruttivo del progresso capitalistico ai suoi miserabili fini. Produzione al massimo dello sfruttamento lavorativo e risparmio dei costi proprietari, massimizzazione dei profitti e inquinamento mortale allargato alla popolazione inizialmente ignara del rischio. Tutta la zona è ormai invasa dalle polveri sottili del “minerale” che entra nei polmoni nella costrizione a dover continuare a morire per vivere un po’. La violenza del profitto sembra invisibile quando non è armata con le armi convenzionali, quando si maschera dietro l’indifferenza per la morte altrui, dietro il silenzio del pericolo per l’altro, dietro uno scudo legale, ecc. Anche se gli operai della ArcelorMittal non conosceranno le teorie di bonifica di questo sistema, ora hanno ben chiaro che la bonifica del loro habitat confligge con gli scopi proprietari. Questi nomi sono sui loro muri.

24/11/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Carla Filosa

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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