Le confusioni degli animalisti

La sinistra non dovrebbe promuovere l’inclusività, ma l’abolizione dello sfruttamento. Le esigenze nutrizionali, il modo di soddisfarle e il modo produrre gli alimenti non sono date in natura ma dipendono dalle condizioni sociali.


Le confusioni degli animalisti

Nell’area dibattito del giornale abbiamo pubblicato un contributo di Danilo Gatto sul rapporto tra la sinistra e la questione animale in cui emergono gli equivoci molto diffusi tra gli animalisti, in particolare i vegetariani. L’autore vuole dimostrare, attraverso considerazioni di ordine morale, ideologico e scientifico, che la battaglia per riconoscere agli animali il diritto alla vita è una battaglia di sinistra.

L’approccio utilizzato dall’autore, però, anche quando si sforza di fondare le proprie argomentazioni scientificamente, rimane di tipo ideologico in quanto non va ad indagare chi sono gli animalisti, a quale classe sociale appartengono, se e come le loro battaglie avvicinano o allontanano l’affermarsi di una società in cui lo sfruttamento dell’uomo e la concorrenza non siano più la norma. Ma soprattutto, quando analizza le condizioni socio-economiche necessarie alla realizzazione del progresso da lui auspicato, si limita a presupporne l’esistenza quando, al contrario, dovrebbe dimostrarla.

Così facendo, l’autore finisce con l’affermare l’appartenenza di questa battaglia all’alveo della sinistra sulla base di una definizione astratta di sinistra (pur rilevando che la prassi politica delle forze che si dicono tali non corrisponde all’Idea). Una metodologia che, lungi dal farci fare passi in avanti, ci riporta indietro all’epoca dell’idealismo. Gatto, giustamente, si lamenta delle riforme quali il Jobs Act, l’abrogazione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, il decreto Minniti-Orlando, “provvedimenti emblema dei governi Renzi e Gentiloni”, ma non ci dice perché la sinistra ha varato questi provvedimenti. Al contrario, ci dice che chi fa queste cose non è di sinistra in quanto “seppur difficilmente rintracciabile nella realtà materiale: sinistra è un incessante processo di apertura e ricerca di soluzioni in grado di garantire la soddisfazione dei bisogni del massimo numero di individui coinvolti”.

Il ragionamento, dunque, è semplice: la sinistra è inclusiva e includere gli animali tra i soggetti detentori del diritto alla vita è, ontologicamente, di sinistra. In questo modo Daniela Santanché e Silvio Berlusconi divengono oggettivamente di sinistra quando perorano questa causa, mentre Lenin e Trotsky di destra, quando reprimono i marinai a Kronštadt.

Da un punto di vista materialistico, invece, le cose non sono così semplici né meccaniche. “La sinistra” - parafrasando Marx e Engels - “per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo sinistra il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Quello che bisognava che Gatto indagasse, dunque, è se ci sono e quali sono le condizioni per abolire lo sfruttamento degli animali e che cosa ciò implica in termini di sviluppo umano e relativo ricambio organico con tutta la natura (vale a dire l’utilizzo delle altre specie viventi e del mondo inanimato).

Al contrario di ciò che pensa Gatto, infatti, le maglie dello sfruttamento capitalistico non si scardinano semplicemente dotando gli individui di diritti politici, come la storia a partire dalla rivoluzione francese ha ampiamente dimostrato. E se non c’è alcun dubbio che il capitalismo non è in grado di universalizzarli, negandoli ogni qualvolta diventano di intralcio al proprio dominio, è altrettanto vero che l’aver concentrato le proprie forze principalmente sulla loro promozione formale, invece che sulla difesa e promozione dei diritti sociali - quelli che allentano davvero le maglie dello sfruttamento capitalistico, pur non potendolo eliminare in assenza di un diverso contesto politico-economico - ha comportato un arretramento nel godimento reale non solo dei secondi, ma anche dei primi.

Si pensi, giusto per fare qualche esempio relativo al nostro paese, a quanto è aumentato il contributo unificato, la tassa per adire un giudice, vale a dire per vedersi riconosciuti i propri diritti civili in caso di violazione da parte di un privato o della pubblica amministrazione. Oppure i costi per poter esercitare “il diritto - costituzionalmente tutelato - di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21). Per non parlare dell’adozione di leggi maggioritarie che impediscono l’esercizio del diritto alla rappresentanza politica o dell’immunità penale accordata ai ministri della Repubblica o ai gestori dell’Ilva.

Dunque, pur costituendone un presupposto, non basterebbe dotare gli animali del diritto alla vita per vederlo rispettato, esattamente come succede oggi per i lavoratori che costituiscono vera e propria carne da macello per il capitale. Senza contare, poi, che i diritti politici gli esseri umani se li sono conquistati a prezzo di una dura lotta, e non gli sono stati concessi come invece gli animalisti pretendono di fare, ad immagine e somiglianza del dio che dona la vita (e conseguentemente la morte).

Con ciò non si vuol dire che l’ideologia non abbia una sua importanza e una sua forza nel mobilitare le forze rivoluzionarie, ma se staccata da un’analisi scientifica della realtà finisce col rappresentare una coscienza falsa, in quanto inquinata dagli interessi particolari e conservatori della classe dominante. Come nel caso di Gatto che, coerentemente al suo approccio oggettivamente fideista e piccolo-borghese, parla esclusivamente del soddisfacimento dei bisogni individuali, tralasciando quelli collettivi e dimenticando che quelli individuali derivano dal nostro essere sociale (o “animali politici”, per dirla con Aristotele).

Oltre agli argomenti di ordine morale ed ideologico, Gatto cerca di fondare la necessità di includere gli animali nella sfera delle lotte di emancipazione portate avanti dalla sinistra anche dal punto di vista della scienza alimentare ed economica.

La “American Dietetic Association, istituzione di punta dell’alimentazione a livello globale, ha già da tempo confermato la perfetta complementarietà tra l’organismo umano, considerato in ogni fase del suo ciclo di vita, e una dieta vegetale ben pianificata. Ciò che, quindi, fino a ieri rientrava nel panorama delle necessarie risorse alimentari (i prodotti animali), oggi ne esce cambiando forma: esso diviene surplus”. Se dunque Gatto ha la capacità di riconoscere che nei secoli gli animali sono stati necessari - come forza-lavoro o materia prima per la produzione alimentare e tessile - oggi, tuttavia, col progresso ne potremmo fare a meno, sia nel primo senso che nel secondo. Ma quando si citano gli studi sarebbe bene andarseli a leggere fino in fondo per vedere come sono stati condotti e provare a capire quanto sono affidabili.

Il citato studio dell’Associazione dei dietologi americani, ad esempio, pur affermando che “le diete vegetariane ben pianificate sono appropriate per le persone durante tutte le fasi del loro ciclo di vita, tra cui la gravidanza, l'allattamento, l'infanzia, la fanciullezza, l'adolescenza e per gli atleti”, fornisce una auto-valutazione dell’accuratezza di queste conclusioni solamente per le donne in gravidanza ed in allattamento. Ma da questa valutazione si scopre che gli studi su tutti i principali aspetti - i macro e micro nutrienti, l’assunzione di energia, la biodisponibilità dei nutrienti, l’esito alla nascita - sono “limitati” o “non ci sono”. Per gli altri stadi della vita (infanzia, fanciullezza, adolescenza, ecc), invece, nessuna valutazione complessiva ma soltanto rimandi bibliografici [1].

Dunque, anche volendo prescindere dal fatto che l’essere umano Sapiens è una specie onnivora, l’influsso di una dieta vegetariana o vegana sulla salute è tutt’altro che certo. D’altronde, non potrebbe essere altrimenti dal momento che l’astratta equivalenza nutrizionale tra alimenti di origine animale e alimenti di origine vegetale non tiene conto che soddisfare le proprie esigenze alimentari non significa unicamente essere in grado di riprodurre le proprie capacità fisiche e psichiche in quanto esseri viventi, bensì di riprodurle nella misura in cui sono necessarie per continuare a svolgere la propria funzione sociale.

Dunque, che tipo di vita e quanta ricchezza bisogna avere affinché una dieta vegetariana o vegana non abbia ripercussioni negative non solo sulla propria salute ma sul proprio lavoro? La vita reale di un edile, un fruttarolo, uno scaricatore di porto, un minatore, ecc, - con le loro paghe le loro fatiche derivanti dal tipo di lavoro e dalla sua sottomissione alle esigenze di valorizzazione del capitale - è compatibile con una dieta vegetariana o vegana? Ed inoltre, che dire del maggior tempo necessario alla preparazione di pasti in grado di supplire alla mancanza di carne, in una società nella quale di tempo libero ce n’è sempre meno?

Quindi, le necessità alimentari non sono determinate solamente da fattori naturali (individuali e ambientali) ma anche, e soprattutto, sociali: la classe sociale di appartenenza, il reddito disponibile, il tipo di lavoro che si conduce determinano il tipo di alimentazione di ciascuno. Non si tratta di stabilire una soglia media di calorie necessarie per mantenere una generica persona in buono stato di salute e capace di condurre una vita genericamente attiva, né di stabilire un’astratta equivalenza nutrizionale tra alimenti di origine animale e alimenti di origine vegetale ma di stabilire se l’alternativa vegetariana serve altrettanto bene (o meglio) alle necessità sociali, non solo quelle biologiche. Dell’attuale società e, in prospettiva, della società socialista.

Prescindendo dalle pietanze servite nella “osteria dell’avvenire”, il menu attuale è composto da bassi salari e cattive condizioni di lavoro cui corrispondono un mancato o parziale accesso alle risorse alimentari e viceversa. Se da un lato il soddisfacimento delle proprie esigenze alimentari contribuisce a determinare il modo in cui si vive (quando non addirittura la stessa possibilità di farlo), dall’altro il modo in cui si vive (e in particolare la divisione del lavoro) contribuisce a determinare le esigenze alimentari.

Mentre l’amministratore delegato di qualsiasi società per azioni transnazionale ha bisogno di caviale e champagne per riprodursi in quanto amministratore delegato, e volendo può sicuramente permettersi una dieta vegana, il consumo dei lavoratori di tutto il mondo è limitato allo stretto necessario a riprodurre la loro forza-lavoro semplice e sempre più facilmente rimpiazzabile. E sebbene basti andare al supermercato per vedere come lo sviluppo delle forze produttive permetta già oggi di aumentare il livello e la varietà della produzione e dei consumi, per la maggior parte degli esseri umani questo sviluppo significa riduzione delle proprie esigenze alimentari al mero reintegro delle più semplici capacità fisiche e psichiche, le uniche indispensabili e funzionali alla riproduzione di una società che fa della alienazione la base del proprio sviluppo.

Il problema alimentare, quindi, ha anche una dimensione propriamente produttiva. Il cannibalismo, inevitabile conseguenza alimentare del primitivo sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali, è venuto meno non certo per ragioni morali ma solamente grazie allo sviluppo economico capace di produrre quel surplus di alimenti indispensabili per trasformare il nemico da mezzo di sussistenza a strumento di lavoro e grazie al fatto che le nuove relazioni sociali basate sulla schiavitù meglio permettevano la riproduzione e l’estensione di quel surplus. Ma Gatto sottovaluta la cosa dando per scontato che già oggi esiste un sovrappiù di risorse sufficiente a fare a meno della carne e che quindi “la soddisfazione dei bisogni materiali necessita di un determinato quantitativo di risorse da redistribuire”.

Un’opinione condivisa da Jacques Diouf, già direttore della Fao: “Se il cibo disponibile fosse meglio distribuito ognuno di noi avrebbe a disposizione ben 2.760 chilocalorie al giorno, che sarebbero sufficienti per vivere più che dignitosamente”. Una conclusione a cui era giunto già Amartya Sen quando affermava che “la fame non è il risultato del non esserci abbastanza da mangiare. È il risultato del non avere abbastanza da mangiare” (Sen, 1981. Citato nel World development report 2008, p. 95).

Al contrario, tutto il cibo annualmente prodotto sul pianeta non è sufficiente per soddisfare le esigenze alimentari di tutti gli esseri umani. A meno che, per calcolare le medie tanto sbandierate per dimostrare questa tesi (ad es. delle calorie teoricamente disponibili per ogni essere umano) non si vogliano aggettivare come umani il consumo alimentare e le condizioni lavorative dei poveri cristi costretti a nutrirsi come possono e ad ammazzarsi di lavoro, di un lavoro che dà la possibilità di vivere come bestie; o ancora, prescindendo dall’adulterazione e dal cibo-spazzatura, aggettivare come commestibile il cibo avariato o avanzato che inevitabilmente si produce. Farlo, significa non riconoscere la necessità di innalzare il livello di sussistenza oltre quello meramente fisico e, in prospettiva, oltre quello di una società a-sociale, e non riconoscere la necessità di abbassare il tempo di lavoro ed estendere il progresso tecnico affinché la produzione alimentare possa crescere senza gli attuali sacrifici umani.

E anche ammesso che ci fosse cibo per tutti, cambiare il modo in cui gli alimenti prodotti sono distribuiti senza cambiare il modo in cui sono prodotti, equivale a curare i sintomi di una malattia invece che le cause. La mancanza del denaro per comprare gli alimenti, infatti, non è un problema meramente distributivo, dal momento che per ottenere il denaro per comprare gli alimenti è necessario far lavorare qualcuno per sé oppure lavorare per altri (o per il “mercato”). E questo porta direttamente al modo in cui si produce non solo il cibo ma anche, inevitabilmente, l’esercito industriale di riserva, la forza-lavoro latente, fluttuante e stagnante (in poche parole disoccupati e precari di ogni sorta).

Il problema dunque è duplice: da un lato lo sviluppo delle forze produttive ancora insufficiente per garantire una produzione sufficiente a soddisfare le esigenze umane, dall’altro la sottomissione di questo sviluppo a rapporti sociali che obbligano alla periodica creazione di un eccesso di popolazione (rispetto alle necessità di valorizzazione del capitale) incapace di soddisfare le proprie esigenze alimentari.

In aggiunta, Gatto, oltre a presupporre addirittura che lo ‘sfruttamento dei vegetali’ (come forse direbbe un fruttariano) sia quantitativamente e qualitativamente sufficiente a soppiantare lo sfruttamento degli animali, presuppone anche che la ristrutturazione produttiva derivante dal venir meno dell’industria dell’allevamento, dell’abbigliamento, ecc procurerebbe sollievo alla natura e a molti esseri umani.

Dice Gatto: “Un altro motivo per cui questo ‘surplus alimentare’ ha un costo esorbitante è connesso al consumo e all’utilizzo di risorse per produrlo, dal suolo, all’acqua, fino ai cereali impiegati per i mangimi, per non parlare delle emissioni di gas serra, grande sfida nella lotta al cambiamento climatico. La scienza è oramai chiarissima in tal senso: quello della produzione di alimenti animali è un sistema insostenibile”. Ma per esserne sicuri Gatto non doveva limitarsi a dirci quanta acqua consuma un allevamento intensivo ma come la produzione e la disponibilità di acqua, suolo e delle altre risorse naturali trarrebbero beneficio dalla riconversione vegetariana della dieta umana.

Un’insostenibilità, poi, che che per Gatto è pure sociale: “L’impiego di terreni per il pascolo e i mangimi è spesso causa di espropriazione di terre in cui vivono intere popolazioni; lo sfruttamento di ingenti risorse per la produzione di un bene che, perlomeno nei paesi ricchi, non è più di prima necessità, affianca, al problema ecologico, quello politico, un problema politico che una sinistra matura non può più ignorare”.

Un pensiero già espresso da Jeremy Rifkin: “Centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana”. I responsabili sono chiaramente individuati: da un lato “le grandi multinazionali che producono semi e prodotti chimici per l’agricoltura, allevano bestiame e controllano i mattatoi e i canali di marketing e distribuzione della carne, [che] hanno tutto l’interesse di pubblicizzare i vantaggi del bestiame allevato a cereali”, e dall’altro “le abitudini alimentari dei consumatori dei paesi ricchi, che preferiscono mangiare prodotti animali pieni di grassi e altri cibi al top della catena alimentare globale, mentre i loro fratelli del Terzo Mondo muoiono di fame perché gran parte del terreno agricolo viene utilizzato per la coltivazione di cereali destinati agli animali”. In questo modo si attua – ammettendo che la resa energetica degli allevamenti sia minore – un trasferimento di calorie dai paesi dominati a quelli dominanti.

Ma se i dati Fao riferiscono che per nutrire gli animali in regime di allevamento intensivo si consumano oltre 77 milioni di tonnellate di proteine a fronte di una produzione di 58 milioni da essi fornite (dati del 2008), non si può tacere il fatto che queste ultime rappresentano una fonte qualitativamente diversa e socialmente indispensabile di nutrimento anche in ragione del fatto che le proteine vegetali contenute in 100 grammi di prodotto sono molto meno concentrate rispetto a quelle animali contenute in 100 gr. di carne e che le proteine a base animale, essendo molto più simili alle proteine umane, vengono utilizzate più prontamente e rapidamente rispetto alle proteine vegetali.

Ma quello che Rifkin (e Gatto) ignorano è che affinché una domanda sia considerata pagante c’è bisogno che il reddito che la sostiene sia sufficiente a poter realizzare i profitti di chi vende le merci. Ciò vale per la domanda dei consumatori come per quella delle imprese. Se queste esprimono una domanda di cereali ad uso zootecnico è perché in quel settore è possibile ricavare maggiori profitti, i quali derivano dalle condizioni di produzione più favorevoli e dal fatto che le proteine animali sono maggiormente consumate nei paesi ad alto reddito, e quindi attirano maggiori capitali. Dunque se la domanda di cereali da parte delle multinazionali è più stabile e sicura rispetto a quella eventualmente esprimibile dai poveri del mondo, i cereali verranno prodotti e venduti per questo scopo e non per sfamare i bisognosi.

Lo stesso, dicasi, per la produzione di energia attraverso l’impiego di biomasse e, nello specifico, per le ricadute ambientali degli allevamenti, che non dipendono se non in minima parte dal processo lavorativo ma dipendono, soprattutto, dal processo di valorizzazione cui detto processo lavorativo deve sottostare. In termini generali, ogni processo lavorativo si basa sull’appropriazione da parte dell’uomo di ricchezze create dalla natura e la loro trasformazione. “La natura è la fonte dei valori d'uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che a sua volta, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana” (Marx). Ma se l’organizzazione della produzione è un fatto sociale, allora è nella dimensione storica che va ricercata l’origine del problema dello sfruttamento naturale e la sua soluzione.

In altre parole, ad essere insostenibile non è l’animale-prodotto ma la produzione capitalistica di animali-merci. Il problema, quindi, non è tanto il tipo di prodotto quanto il fatto che a decidere cosa, quanto e come produrre non è collettività sulla base delle sue esigenze (che includono quelle di un corretto ricambio organico con la natura e quindi la soluzione del problema dell’irriproducibilità antropica di alcune risorse naturali o, ancora, dell’emissione di gas serra, ecc) ma è la classe dei capitalisti sulla base delle esigenze di valorizzazione del capitale. Detto altrimenti, fin tanto che si produrranno alimenti non per soddisfare le esigenze nutritive ma per il profitto, le uniche esigenze che potranno essere soddisfatte saranno quelle paganti l’ammontare tale da garantirlo.

Seppure ci convertissimo tutti alla diete vegetariana, quindi, il capitalismo non ne soffrirebbe più di tanto potendosi tranquillamente adeguare, come già fa, ai cambiamenti della domanda, che in quanto tali non incidono sui rapporti di proprietà. Il tipo di lotta, quindi, non deve prendere in considerazione il prodotto ma la forma di merce che assume il prodotto.

Ciò non significa che questo basta ad eliminare tutti i problemi derivanti da un certo tipo di produzione. Le scorie radioattive sono tali sia se prodotte da un ospedale capitalistico sia se prodotte da un ospedale socialista. Ma assicurare il loro corretto smaltimento è un problema che non può essere risolto all’interno del modo di produzione dato - un modo di produzione che riesce a rendere nocive persino le deiezioni animali - esattamente come non può essere risolto il problema delle inutili sofferenze cui vengono sottoposti molti animali, inclusi molti esseri umani che lavorano.

In conclusione, a prescindere dai gusti culinari e dalla moralità di ciascuno, spero di aver dimostrato che non esistono le condizioni materiali e sociali per superare lo sfruttamento alimentare degli animali e che porre oggi questa questione significa deviare forze che sarebbe molto più utile impiegare nella lotta per superare lo sfruttamento capitalistico cui sono soggetti solo e soltanto gli esseri umani. Visto che, almeno per ora, la capacità di lavorare è una qualità naturale che appartiene unicamente alla nostra specie.

Note:

[1] Position of the American Dietetic Association: Vegetarian Diets

30/03/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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