Le radici economiche dell’indipendentismo catalano

L’autodeterminazione catalana come manifestazione del conflitto tra lo sviluppo delle forze produttive e la cornice entro cui si sviluppano i rapporti politici ed istituzionali.


Le radici economiche dell’indipendentismo catalano

Mercoledì 20 settembre la guardia civil spagnola ha arrestato il numero due del Dipartimento del Tesoro catalano, Josep Maria Jové, insieme ad altri membri della sua squadra per un totale di 14 persone e ha sequestrato nove milioni di schede elettorali. Nelle stesse ore, le banche hanno bloccato i conti del governo catalano senza neanche attendere la pubblicazione sulla gazzetta ufficiale del decreto che sospende l’autonomia finanziaria della Generalitat. Alla chiusura di questo articolo sono questi gli ultimi tentativi, in ordine di tempo, per disarticolare il referendum di autodeterminazione indetto in Catalunya dalla coalizione di governo per il primo di ottobre e che le autorità spagnole (governo e corte costituzionale) giudicano illegale.

Al netto della propaganda più o meno terroristica sugli scenari del dopo voto - già vista all’opera prima del referendum costituzionale del 4 dicembre in Italia o della Brexit nel Regno Unito - ad oggi, le principali cancellerie e istituzioni capitalistiche internazionali hanno mantenuto un profilo piuttosto basso riguardo il tentativo di rompere l’unità di questo piccolo e secondario paese imperialista appartenente all’Ue. Né la Bce né la Banca centrale spagnola hanno sollecitato alcun piano B o analisi del rischio addizionale per le banche maggiormente esposte nella regione, a differenza di quanto fecero quando si trattò di valutare gli effetti della Brexit. La fondazione Konrad-Adenauer, il think tank della CDU (il partito di Angela Merkel), ha scritto che la situazione catalana rappresenta una “sfida politica” che “non si può risolvere unicamente appellandosi alle leggi o ai regolamenti costituzionali esistenti”.

Tanta è la calma che lo spread tra i titoli di debito regionali con scadenza 2020 (che pagano il 4,95% di interesse) e i corrispondenti bonos spagnoli a 3 anni, è lievemente salito da luglio ad oggi ma rimane ancora sotto i 300 punti e lontanissimo dal picco raggiunto a marzo 2016 quando la formazione del governo a Madrid era in pieno stallo ed il presidente catalano, Puigdemont, offriva ai ‘socialisti’ l’appoggio esterno per la formazione di un esecutivo a guida Psoe a patto che accettassero il referendum indipendentista. All’epoca lo spread arrivò a toccare i 450 punti base, l’offerta fu rifiutata e alla Moncloa ha continuato a rimanere il presidente del Partido Popular, Mariano Rajoy.

Per alcuni, il motivo della sostanziale calma che pervade gli esponenti del grande capitale transnazionale sarebbe o nella sostanziale indifferenza rispetto al risultato delle urne e di tutto il processo indipendentista - coscienti che a egemonizzarlo sono forze che non hanno come obiettivo la rivoluzione dei rapporti sociali - o nello scetticismo riguardo la possibilità che il processo possa concludersi con una vera e propria secessione. Per i comunisti, invece, si tratta di vedere come la fondazione di una repubblica catalana influenzerebbe la vita della classe lavoratrice - locale e spagnola - e lo sviluppo della lotta di classe e della causa socialista in quel paese ed in Europa.

Per avvicinarsi alla risposta - la cui formulazione non è obiettivo di questo articolo - è necessario sottolineare che il processo secessionista catalano poggia su solide fondamenta economiche, oltre che culturali. La creazione di uno stato unitario ‘spagnolo’ avvenuta a seguito del matrimonio tra Ferdinando II d’Aragona e Isabella I di Castiglia (cugini di secondo grado) nel 1469 e della conquista dei territori della penisola iberica controllati dagli arabi, completata nel 1492, non ha impedito che nella piccola regione di Barcellona (il cui territorio oggi rappresenta il 6,3% di tutta la Spagna) si mantenesse e sviluppasse tra i suoi attuali 7,5 milioni di abitanti (il 16,5% del totale), una lingua ed una cultura autonome. Ma ancora più importante, malgrado il forte nazionalismo corporativista e autarchico della dittatura fascista del generale Franco che ha caratterizzato la Spagna fino alla fine degli anni settanta del XX secolo, lo sviluppo capitalistico del paese ha enormemente approfondito i divari tra le varie regioni spagnole (chiamate comunità autonome), tra le quali la Catalunya spicca per grandezza e dinamismo.

La Catalunya è, ad oggi, la regione più ricca di tutta la Spagna in termini di prodotto interno lordo (da sola produce oltre il 20% del Pil della nazione) e la terza in termini di Pil pro-capite. La sua economia, poi, è molto orientata all’industria, alle nuove tecnologie e al terziario avanzato, più del resto della Spagna. Il tasso ufficiale di disoccupazione è del 13%, quattro punti in meno rispetto a quello nazionale e l’indice dei prezzi al consumo viaggia in linea con quello del resto del paese, sebbene sia sempre lievemente maggiore. Nel 2015 Barcellona è stata la seconda città europea per volume di investimenti stranieri dopo Londra e la Catalunya la quarta regione d’Europa e ad oggi vi risiedono il 92,3% di tutte le imprese statunitensi con sede in Spagna, l’88,8% delle danesi, l’85,5% delle canadesi, l’80% delle giapponesi e il 73% delle italiane.

La regione, inoltre, è tra quelle maggiormente aperte al commercio estero, con una bilancia commerciale che da sola fa il 24% delle esportazioni e il 28% delle importazioni di tutta la Spagna ed il cui andamento, per tanto, influenza prepotentemente quello nazionale. Ciononostante, la Catalunya è sempre meno dipendente dall’interscambio con il resto della nazione. Mentre nel 2009 le esportazioni verso le altre comunità autonome rappresentavano il 56% del totale delle esportazioni, nel 2016 rappresentavano solo il 37%. Così le importazioni, che sono passate 33% al 21%. Ma mentre il saldo verso le altre regioni spagnole per la Catalunya è positivo, seppur in via di peggioramento (in sette anni si è passati da 24 a 17 miliardi di surplus commerciale), quello verso il resto del mondo, pur in leggero miglioramento, rimane negativo (da un deficit di 16 miliardi a uno di 12).

La Catalunya, dunque, essendo tecnologicamente più avanzata della media del paese è la tipica regione che accumula più valore di quanto ne produce. Questo meccanismo - che si fonda sulla diversa composizione organica dei capitali - rappresenta una forza centrifuga e polarizzante che deve trovare nei trasferimenti di denaro pubblico una forma di mitigazione necessaria. La Catalunya, infatti, malgrado la forte autonomia di cui gode, è una regione il cui contributo alla coesione territoriale spagnola è positivo. In altri termini, ma senza entrare troppo nel tecnico, la quantità di denaro che viene raccolto nella regione dalle autorità pubbliche attraverso tasse, imposte, ecc, e viene trasferito e speso nelle altre comunità autonome è maggiore di quello che viene raccolto nel resto della Spagna e speso in Catalunya. Questo è il classico meccanismo che serve per mitigare la crescente disuguaglianza territoriale generata dal capitalismo. Non a caso, l’esacerbarsi della crisi economica a partire dal 2007 ha portato crescenti consensi agli autonomisti, la cui fazione più opportunistica non ha esitato a cavalcare populisticamente anche l’argomento del contributo netto alla coesione della nazione, sulla falsariga di quanto fatto durante la Brexit per i contributi che il Regno Unito versa all’Ue. Fortunatamente, nella misura in cui l’egemonia dentro la coalizione che governa il processo indipendentista si va progressivamente spostando verso sinistra (dai nazionalisti del CiU rappresentanti del grande capitale agli indipendentisti di centrosinistra dell’ERC, gli anticapitalisti della CUP, ecc) questi argomenti perdono peso.

In conclusione, il processo di autodeterminazione del popolo catalano, ha radici economiche che ne permettono l’effettiva realizzazione. Tuttavia non bisogna pensare che questo processo sia un fatto meramente interno alla borghesia, con quella catalana che non riuscendo a prendere il pieno controllo del paese sembra tuttavia matura per assumersi la responsabilità della spoliazione della propria classe lavoratrice senza più dover fare i conti con Madrid. Quanto sta avvenendo, infatti, è la manifestazione di un conflitto molto più profondo: quello tra l’enorme sviluppo delle forze produttive avvenuto in una trentina d’anni, a partire dalla fine della dittatura militare, e la cornice entro cui ancora oggi si sviluppano i rapporti politici ed istituzionali, ingessati in quel compromesso tra forze democratiche e fascisti che ha guidato il passaggio alla monarchia costituzionale e garantito la pace sociale e l’ordine capitalistico.

23/09/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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