Rilanciare la crescita rimettendo al centro la questione salariale

Le politiche di austerità, di precarizzazione e di contenimento del costo del lavoro non hanno mantenuto la promessa della crescita economica. Occorre rovesciare il ragionamento padronale.


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Dalle pagine de Il Sole 24 Ore di martedì 7 gennaio 2020 (Marco Fortis, Pil, quando la manifattura italiana supera quella di Germania e Francia), apprendiamo che per Confindustria l'economia italiana non se la passerebbe poi così male, anzi l'autore punta il dito contro i pessimisti e le cassandre che presenterebbero dati errati sul decennio appena concluso.

È ormai consuetudine raccogliere dati parziali piegandoli a fini politici. Le stesse statistiche ufficiali, sovente, sono elaborate con metodologie non uniformi. Ad esempio non è detto che i criteri utilizzati in Italia dall'Istat siano gli stessi di quelli adottati dagli istituti statistici tedeschi, inglesi o francesi (per non dire statunitensi).

Allo stesso tempo abbiamo letto innumerevoli corsivi del giornale confindustriale di alterno tenore. Da dove scaturiscono, allora, l'ottimismo e il pessimismo padronale?

L'analisi di Fortis tende a distinguere la prima metà del decennio, caratterizzata da fondamentali assai negativi, dalla seconda, in cui i dati sono più confortanti e vengono da lui giudicati positivamente. La ragione dell'ottimismo è dettata dall’effetto benefico che l’autore attribuisce all'avvento del Jobs Act, alla cancellazione (di fatto) dell'art 18 e (udite, udite!) a politiche di minore austerità; quella austerità che alla fine avrebbe avuto effetti contrastanti: positivi per l'abbattimento del debito ma del tutto negativi per la domanda e i consumi e pertanto con impatti negativi sull'economia complessiva. Anche il Sole scopre l’acqua calda e non si domanda perché, nonostante i prevedibili esiti, si siano adottate quelle politiche. Che la cosa abbia a che vedere con la fame di profitti?

Restano comunque i dati impietosi relativi al complesso dell'ultimo decennio, al termine del quale alcune economie hanno manifestato una sostanziale ripresa rispetto al 2008, anno della crisi, mentre altre invece registrano dati assai meno positivi. Tra queste ultime figura l'Italia.

Ma, se leggiamo con attenzione l'articolo, si capisce come le nazioni con politiche improntate alla maggiore austerità e al contenimento della spesa abbiano una dinamica del valore aggiunto assai più negativa rispetto ai paesi che invece hanno operato scelte diverse, cioè di sostegno alla domanda, e di applicazione più flessibile dei tetti sul disavanzo pubblico e degli altri vincoli derivanti dai parametri di Maastricht.

Ma l’analisi del quotidiano di Confindustria, dal momento che da un lato pare bocciare l’austerità ma dall’altro si compiace per i tagli ai diritti dei lavoratori, è evidentemente contraddittoria. La riforma delle pensioni, con l'uscita dal lavoro inesorabilmente spostata in prossimità dei 70 anni di età, la libertà di licenziamento, l'abbattimento delle tutele collettive ed individuali, il blocco dei salari nella Pubblica amministrazione per circa nove anni possono essere considerati elementi utili alla la ripresa dell'economia italiana o piuttosto un fattore di crisi, determinando per lo più la contrazione del costo del lavoro, delle pensioni e dei servizi pubblici, Cioè del salario diretto, indiretto e differito?

La stessa precarietà non ha favorito l’occupazione. Al contrario, incrementando i part-time, ha fatto diminuire le ore lavorate. Con ciò è ovviamente diminuito il potere di acquisto dei salari, con ripercussioni negative sulla domanda e sulla facoltà di spesa delle famiglie italiane.

Del resto esistono ormai molti studi, basati su dati reali e non su pregiudizi, che escludono l’esistenza di relazioni statistiche significative, e tanto meno di nessi causali, fra la precarizzazione dei rapporti di lavoro e l’occupazione, come ci racconta l’economista Emiliano Brancaccio. Esaminando molti degli studi effettuati nell’ultimo ventennio, anche l’Ufficio di valutazione del Senato giunge a conclusioni analoghe.

La “mano invisibile del mercato” da sola non basta. Il ruolo dello Stato è tutt'altro che quello dello spettatore passivo. Anzi l'ideologia padronale e liberista è stata utilizzata non per promuovere il classico laissez faire (lasciare che il mercato regoli l’economia) ma come leva per spingere i Governi a garantire ai padroni l'aumento dei ritmi e dell'età lavorativa, la libertà di licenziamento, la perdita dei diritti e i tagli al tenore di vita dei lavoratori. La stessa costruzione dell’Unione Europea obbedisce fedelmente a questa ideologia.

Negli ultimi 20 anni, la forbice salariale ed economica si è allargata a dismisura, la produttività del lavoro è comunque cresciuta e non di poco. Contemporaneamente sono crollate le retribuzioni reali. E mentre si banchettava sulle privatizzazioni, dei beni comuni e non, la quota di ricchezza destinata agli azionisti ha raggiunto apici mai conosciuti nei decenni precedenti.

Sta qui la autentica contraddizione: più precarietà, meno occupazione e salari da fame, analizzati questi ultimi in un recente, bel libro di Marta e Simone Fana, Basta salari da fame, (ed. Laterza, 2019). Oggi si guadagna meno di 30 anni fa, anzi ci sono professioni mortificate dalla precarietà. E per questa ragione la questione salariale diventa centrale. Non si può discutere di Pil e di crescita senza affrontare una volta per tutte la dinamica retributiva, la precarietà, la riduzione dell'orario di lavoro e l'abbassamento dell'età pensionabile. Rovesciare il ragionamento padronale impone a noi tutti\e una profonda revisione del modo di pensare e di agire senza subalternità ai padroni e respingendo i ricatti ideologici del neoliberismo d'accatto. Se non ora quando?

11/01/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Federico Giusti

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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