Dalla pace perpetua alla guerra infinita?

Le aggressioni ai popoli del sud del mondo rendono “la pace perpetua” un’ingenua utopia.


Dalla pace perpetua alla guerra infinita?

A rendere oggi un’ingenua utopia “la pace perpetua”, e una triste ma inevitabile realtà la guerra di civiltà e di religione, è chi sostiene le aggressioni contro i popoli del sud del mondo e nega agli stessi profughi, che tali aggressioni provocano, il diritto di ospitalità.

di Renato Caputo

Kant scrive il Progetto per una pace perpetua nel 1795, sull’onda dell’entusiasmo per la pace di Basilea, con cui anche il suo paese, la Prussia, che fino a quel momento aveva cercato di schiacciare con la violenza lo spirito rivoluzionario, era ora costretto a riconoscere lo Stato rivoluzionario francese.

Sebbene sia stata composta oltre due secoli fa, quest’opera è il prodotto di una visione della storia talmente ottimistica e progressista da apparirci utopistica. Noi, infatti, viviamo in un’epoca di restaurazione in cui prevalgono concezioni regressive e irrazionaliste, mentre Per la pace perpetua è animata dallo spirito illuministico. Secondo quest’ultimo se la storia del passato è stata funestata da ignoranza e superstizione, travagliata da guerre di religione, ora i lumi della ragione, che si stanno diffondendo grazie al processo rivoluzionario che hanno innescato, promuoveranno una società più razionale che renderà inutili i conflitti fratricidi fra i popoli. Nella nostra epoca, al contrario, l’ideologia dominante pare regredire alla guerra di civiltà, una guerra infinita che presenta tutti quei tratti di barbarie propri di quelle guerre di religione che fino a non molto tempo fa apparivano un residuo del passato. Per altro si tratta di una guerra che non ci può più apparire estranea, combattuta in lontane province barbariche, in quanto condiziona sempre più la nostra vita anche quotidiana. Ad esempio ogni giorno di più abbiamo difficoltà a spostarci nelle nostre città, anche perché le spese per i trasporti pubblici sono sempre più sacrificate all’esigenza di occupare militarmente il territorio. Per cui ci stiamo tragicamente abituando a trovare alle fermate della metro non i treni, sempre più in ritardo, ma giovani Rambo in mimetica e con i kalashnikov spianati, che possono rassicurare unicamente i nostalgici dello Stato di polizia.

Inoltre è la stessa società civile che, attraverso i grandi mezzi di comunicazione, fa costanti pressioni sul governo affinché apra sempre nuovi fronti di guerra all’estero, inviando truppe e bombardieri in sempre più paesi, nonostante sia costretto a tagliare sempre più servizi sociali e a disinvestire in formazione e ricerca a causa della crisi e del debito. Al contrario ben 220 anni fa forse il più insigne intellettuale dell’epoca, non certo noto per posizioni utopiste o estremiste, rafforzava la sua proposta di pace internazionale aggiungendovi l’aggettivo “perpetua”, per sottolineare che non si riferiva ai normali trattati di pace che – ancora oggi, si pensi in primis al conflitto israelo-palestinese, – non sono altro che tregue, in vista di un’altra guerra, considerate tutte le riserve che implicano o sottendono. Oggi, invece, non si aspira nemmeno più a una pace perpetua e ogni trattato, si pensi in ultimo a quelli relativi al conflitto in Ucraina, implicano la possibilità della ripresa delle ostilità, in quanto la guerra è considerata troppo spesso come connaturata al rapporto fra gli uomini e gli Stati.

Al contrario questo pacioso docente prussiano poteva sostenere con forza che le guerre non hanno nulla di naturale, che non hanno radici strutturali antropologiche o psicologiche, anzi che solo apparentemente presentano motivazioni religiose o sono dovute all’aggressività dei singoli capi di Stato. Kant era infatti convinto di una tesi, che oggi lo avrebbe fatto apparire quasi un sovversivo, ovvero che le cause della guerra sono iscritte nella struttura sociale e sono, dunque, le strutture sociali ingiuste, contro cui erano insorti i rivoluzionari dell’epoca, a essere matrice inesauribile di guerre. La convinzione stessa che non fosse da utopisti sostenere e spendersi per la pace perpetua era, dunque, legata alla convinzione che fosse possibile e anzi necessario rivoluzionare le strutture sociali dominanti. Al punto che Kant nel suo Progetto per una pace perpetua recepisce i princìpi fondamentali della grande Rivoluzione di quell’epoca, considerandoli come i prerequisiti indispensabili alla realizzazione di questo grandioso obiettivo.

Non potendo dedicarci a un’indagine filologica del testo kantiano, ci limiteremo a ricordare tre requisiti essenziali, ancora oggi attuali, indicati dal suo autore: 1) gli Stati non possono a nessun titolo conquistarne altri e tantomeno, dunque, mantenerli sotto occupazione, 2) non debbono in nessun modo ingerire negli affari interni degli altri Stati, 3) devono garantire la diffusione su scala globale del diritto di ospitalità, in altri termini l’accoglienza degli stranieri sul proprio territorio. Sono dunque evidenti gli Stati, i modi di pensare, le ideologie e i mass-media oggi dominanti che fanno apparire – sebbene siano trascorsi oltre due secoli funestati da spaventose quanto unitili guerre mondiali – utopiste e ingenue le parole di Kant, ossia dello stesso artefice della rivoluzione copernicana della conoscenza.

Approfondiamo, per la sua lampante attualità, il terzo requisito al Progetto per una pace perpetua, ossia il diritto all’ospitalità. Il cuore delle argomentazioni di Kant è questo: gli uomini devono riconoscere che la Terra è di tutti e, quindi, è necessario garantire la libera circolazione degli uomini, poiché non può che essere accidentale l’essere nati qui o lì. Perciò, se si vuole davvero mettersi nella condizione di superare questa terribile calamità che è la guerra, occorre essere pronti a ospitare lo straniero, in quanto bisogna considerare la Terra come una patria comune. Afferma Kant: “qui, come negli articoli precedenti [del Progetto per una pace perpetua], non è in discussione la filantropia, ma il diritto, e allora ospitalità significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro”. Si tratta, specifica Kant, del «diritto di offrire la propria società in virtù del diritto della proprietà comune della superficie terrestre, sulla quale, in quanto sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine devono sopportare di stare l’uno al fianco dell’altro; originariamente però nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della Terra» (p. 65 dell’edizione Feltrinelli). Proprio perciò, Kant riassume l’enunciato di questo diritto nel concetto di “ospitalità universale”.

È altrettanto degno di nota come a questa perorazione del diritto di ospitalità Kant contrappone il colonialismo e le guerre di rapina condotte dall’Occidente ai danni dei popoli del sud del mondo. Il filosofo, avendo come principale obiettivo critico la liberale Inghilterra, denuncia come riguardo al diritto di ospitalità gli Europei si sono comportati come banditi, come pirati, nei confronti degli altri popoli: “Se si confronta con ciò [il diritto universale di ospitalità] la condotta inospitale degli stati civili, specialmente di quelli commerciali, della nostra parte del mondo, l’ingiustizia che dimostrano nella visita a paesi e popoli stranieri (visite che essi immediatamente identificano con la conquista), è tale da rimanere inorriditi. L’America, i Paesi dei Negri, le Isole delle Spezie, il Capo di Buona Speranza, ecc., quando li scoprirono furono per loro terre che non appartenevano a nessuno; degli abitanti infatti non tennero assolutamente conto” (Ibidem) [1].

È dunque evidente che se davvero aspiriamo alla fine delle guerre, del sacrificio delle risorse destinate ai servizi sociali per finanziarle, alla fine dello Stato d’eccezione che esse rendono permanente, è indispensabile in primo luogo farla finita con un sistema economico sempre più irrazionale che tende a rinviare gli effetti nefasti della crisi, che inevitabilmente produce, rilanciando su scala globale la politica imperialista e neocoloniale. Anche perché, come è noto, chi semina vento raccoglie tempesta, considerato che la violenza genera violenza. Le spaventose violenze e umiliazioni subite ormai da secoli da una parte tanto grande dell’umanità non può che oggettivamente favorire delle risposte altrettanto violente e disperate, che non potendo disporre delle potentissime armi di distruzione di massa dei propri aguzzini reagisce con azioni terroristiche e atroci.

Inoltre il trasferimento forzato, un vero e proprio esodo, delle popolazioni del sud del mondo, in quel nord che è la causa prima della devastazione dei loro paesi, non favorisce certo l’integrazione o anche solo la pacifica convivenza. Tanto più che i pregiudizi razziali, costantemente alimentati dall’ideologia dominante, la criminalizzazione del profugo, l’emarginazione sociale, la mancanza spesso degli stessi diritti di cittadinanza rende, una componente delle popolazioni costrette ad abbandonare i propri paesi, parte di quella plebe moderna (su cui rifletteva già Hegel) che, in quanto radicalmente esclusa, non può riconoscersi nella società civile.

La ghettizzazione, la demonizzazione da parte dell’occidente di ogni movimento storico che si è battuto per l’emancipazione di queste popolazioni da visioni del mondo tradizionali, mitologico-religiose – funzionali all’oppressione di classe che in primo luogo colpisce le donne – favorisce spaventose esplosioni di violenza maschilista come nel caso di Colonia. Si sarebbe tentati di pensare male, visto che – come ricordava un’autorità indiscutibile in materia – “spesso ci si azzecca”, ad esempio è piuttosto “strana” la mancanza di prevenzione e di pronto intervento da parte della generalmente efficientissima polizia tedesca. In casi come questo, come sottolineava già Aristotele, una omissione ha la stessa valenza e produce gli stessi risultati, in questo caso esecrabili, di un’azione [2]. Ciò che è certo è che proprio le forze che in occidente sono maggiormente ostili all’emancipazione femminile, hanno prontamente dato enorme risalto a tali eventi, isolandoli da tipologie di violenze simili che avvengono, purtroppo, con una certa regolarità in occasione ad esempio delle Oktoberfest, per fomentare la guerra di civiltà [3].

Note

[1] Così, prosegue Kant elencando esempi storici in cui il diritto di ospitalità è stato negato fino al genocidio, in primo luogo proprio da quei paesi che si consideravano campioni di liberalismo: “Nelle Indie orientali, con la scusa del mero proposito di succursali commerciali, introdussero eserciti stranieri ma con essi anche oppressione degli indigeni, istigazione dei vari stati della regione a guerre ampiamente diffuse, carestia, ribellione, tradimento. (…) A questo proposito il peggio (…) è che essi non vengono nemmeno fatti contenti da questa violenza, che tutte queste società commerciali stanno sull'orlo del crollo, che le isole dello zucchero, questa sede della schiavitù più atroce e calcolata, non fruttano nessun vero guadagno, bensì servono solo mediatamente e per un intento davvero non molto lodevole, cioè la formazione di marinai per le flotte da guerra, e quindi di nuovo per la conduzione delle guerre in Europa; e questo piacerebbe a quelli che si affaticano molto nella devozione, e mentre bevono iniquità come acqua, vogliono essere ritenuti eletti nell'ortodossia” (I. Kant, Per la pace perpetua, trad. it. di M. C. Pievatolo, http://btfp.sp.unipi.it/dida/kant_7/ar01s10.xhtml.

[2] Per altro, sempre a pensare male, ci si potrebbe interrogare da una parte sul cui prodest di tale azione – per ipotizzare possibili diretti o indiretti mandanti – dall’altra sugli esecutori di tali esecrabili azioni, in buona parte appartenenti a quel «sottoproletariato» – che frequenta abitualmente la stazione di Colonia – che Marx ed Engels ritenevano generalmente «più disposto, date tutte le sue condizioni di vita, a lasciarsi comprare per mene reazionarie» (Manifesto del Partito comunista).

[3] Fra l’altro in nome di quei valori illuministi, realizzati per la prima volta grazie alla Rivoluzione francese, da sempre avversati proprio da quella cultura conservatrice e reazionaria che oggi li recupera in modo ipocrita e strumentale per contribuire a mantenere viva la guerra di civiltà e religione.

15/01/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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