Prenderemo nelle mani il nostro destino?

Nel futuro si prefigurano vari scenari che non escludono l’ipotesi della complicata costruzione di un polo internazionale dei lavoratori.


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Bisogna essere consapevoli che è oggi assai arduo tentare di prefigurare il nostro destino, detto in termini più precisi, come si svolgerà e si costruirà il nuovo ordine mondiale, il quale probabilmente ristrutturerà le nostre vite dalle fondamenta con violente scosse; vite ormai rinserrate in un angusto e solitario spazio privato [1]. Probabilmente proprio l’immensità di ogni tentativo del genere allontana la gente comune dalla volontà di prendere atto della gravissima situazione in tutta la sua complessità e la rende docile e rassegnata al peggio che – mi auguro di no – potrebbe rovesciarsi su di noi. Nello stesso tempo è possibile ascoltare interviste o leggere articoli in cui si parla della necessità di mantenere l’attuale ordine ritenuto democratico, di multipolarismo, o ancora di multilateralismo, e si indica anche in buona fede e con certa saggezza quale ipotesi sarebbe più opportuno sostenere con adeguate attività militanti per garantire l’umanità dalla sua cercata autoestinzione.

Se leggiamo le parole dell’eminente Josep Borrell, la prima ipotesi, ossia difendere l’egemonia del blocco occidentale, significa che questo deve continuare ad aiutare l'Ucraina, altrimenti questa cadrà nel giro di pochi giorni, in poche parole continuare la guerra senza prendere in considerazione quali rischi essa comporti. Ciò significa – specifica il rappresentante europeo – impiegare le risorse non per aumentare il benessere della popolazione, per gli ospedali, le scuole, le città, ma necessariamente per gli armamenti, perché la Russia metterebbe in pericolo la stabilità del mondo fondato sulle “regole democratiche”. Ipotesi inaccettabile, perché si fonda sul sostegno ad un sistema egemonico distruttivo che ha mostrato la sua strategia sanguinaria sin dalla fine della seconda guerra mondiale e che è disposto a sacrificarci tutti in senso letterale, pur di riconquistare come un vampiro nuova vitalità a nostro danno.

Borrell si felicita che il cosiddetto Occidente sia compatto (cosa ovviamente falsa) dinanzi alla minaccia russa, tuttavia ha capito che quest’ultimo non ha più il sostegno, con varie sfumature, dei paesi extra-occidentali. Tra l’altro si noti che gli Usa stanno facendo pressioni sul Sud Africa perché questo rispetti il mandato di arresto della Corte penale internazionale contro Putin, quando quest’ultimo si recherà in quel paese per partecipare al vertice dei Brics del prossimo agosto.

Si ricorre sempre alla sacra esigenza dell’unità quando si intende nascondere la contraddizione tra gli interessi delle diverse classi sociali e spingere quelle popolari versi politiche per loro dannose. Non è un caso, quindi, per esempio, che i “veri democratici” si siano tanto impegnati, senza peraltro riuscirci, nel far pronunciare alla Meloni e a La Russa la parola anti-fascista, da loro evitata con cura, fingendo di non sapere in primis che questi personaggi sono strutturalmente fascisti e che ogni parola pronunciata può essere tranquillamente smentita o rigettata, cambiando le circostanze. Il trasformismo imperante docet.

La seconda ipotesi, ossia l’emergere di un mondo multipolare spesso identificata semplicemente con lo schieramento con i “regimi autoritari” della Russia e della Cina, deve essere articolata e compresa nelle sue molteplici e contraddittorie sfaccettature. Che gli Usa intendano indebolire il grande paese slavo fino a balcanizzarlo è un fatto documentato dalla storia e dalle stesse affermazioni di uomini quali, per esempio, il segretario della NATO, il quale però presenta questa strategia come indispensabile per affermare i principi e i valori “democratici” dell’Occidente, le cui multinazionali si stanno rimpinguando con la vendita di armi e con la speculazione finanziaria. Indispensabile anche per salvaguardare la sovranità di un paese non sovrano e non democratico quale è oggi l’Ucraina.

Ora, prendere atto di questo obiettivo occidentale non significa automaticamente sostenere il sistema capitalistico russo, la cui architettura istituzionale è ispirata al semipresidenzialismo alla francese, né credere che il multipolarismo, se mai verrà, imporrà al mondo relazioni paritarie, pace e benessere. Sarebbe ingenuo e semplicistico. Significa piuttosto essere consapevoli del fatto che l’indebolimento o addirittura lo smembramento della Russia sarebbe un evento drammatico non solo per i lavoratori europei, ma anche per quelli di tutto il mondo. Per questo – credo – sia indispensabile con tutti i mezzi contrastare questa possibilità di svolgimento degli eventi, anche perché più impellente, prendendo atto che quel polo internazionale, opposto sia all’Occidente che all’alleanza sino-russa, auspicato da alcuni (in particolare da gruppi trotskisti e da gruppi di tendenza opposta come il KKE) oggi non c’è e che nemmeno se ne vedono germi significativi, nonostante il malessere si faccia crescente. Questa scelta non significa l’abbandono di questa condivisibile ipotesi, né sostenere senza se e senza ma il signor Putin, ma optare per una tattica, non strategia, legata dalle drammatiche circostanze dell’oggi, e al contempo chiarirsi le idee su come costruire questo benedetto terzo polo; a questo proposito risulta molto utile il documento Una Sinistra mondiale antimperialista: perché è necessaria e cosa deve fare, scritto da A. Freeman e da R. Desai e pubblicato nel numero precedente del giornale.

La posizione da prendere in queste complesse circostanze è fortemente condizionata dal modo diverso di valutare la natura dello Stato russo e di quello cinese, considerati entrambi capitalisti e avviati convintamente sulla via dell’imperialismo rapace. Per esempio, come scrive Santiago Lupe sulla Izquierda Diario, è sicuramente vero che imprese cinesi stanno facendo investimenti a loro favorevoli in tutte le parti del mondo e li fanno a tassi di mercato, raccogliendo importantissime risorse dai vari continenti. Questa politica fa della Cina una potenza estrattivista che in cambio di materiali indispensabili alla sua economia offre infrastrutture, del resto indispensabili per portare a compimento questi processi. Tuttavia, bisognerebbe anche aggiungere che i profitti così ottenuti sono stati in parte reinvestiti nella straordinaria operazione con cui quasi un miliardo di persone sono state tratte fuori dalla povertà estrema, anche con lo scopo di sviluppare un mercato interno. Questo per dire che non siamo poi tanto ingenui, né crediamo facilmente che il multipolarismo, definito da Lupe “utopia reazionaria”, basato su relazioni non egemoniche, sia realizzabile in un sistema internazionale ampiamente capitalistico costituito poi da Stati tanto diversi tra loro per natura e potere.

Quanto alla natura capitalistica della Russia, i cui dominatori, con i loro consulenti stranieri, hanno portato a termine la dissoluzione dell’Unione sovietica, paese in transizione verso il socialismo e sempre sotto assedio (ricordiamoci che il socialismo è un’opera lunga e complessa) [2], non credo ci siano dubbi. Tuttavia, l’ancora ipotetica espansione imperialistica russa sembra essere stata bloccata proprio da chi attacca la sua stessa esistenza. Per chi ha seguito giorno per giorno la politica di Putin la cosiddetta operazione speciale è stata una scelta ardua e considerata dai suoi stessi sostenitori molto grave, tanto che fino al giorno prima del suo scatenamento, ma anche dopo fino ad oggi, i russi si sono sempre dichiarati disposti a dialogare, invocando il principio del mutuo rispetto della sicurezza nazionale; invece, Nato e Ue, neppure avendo la giustificazione di difendere un membro della prima, continuano ad alimentare le guerra senza preoccuparsi delle sue possibili spaventose conseguenze e dell’impoverimento delle loro popolazioni.

Come scrivono A. Freeman e R. Desai, gli imperialisti non hanno accolto paesi, come la Russia e la Turchia, nel loro entourage (Putin chiese a Clinton di entrare nella NATO), perché avrebbero dovuto accontentarsi di una frazione minore del bottino mondiale. Pertanto, in queste circostanze la Federazione della Russia si trova obiettivamente nella situazione di dover sconfiggere (in un certo senso anche per noi) la NATO o di essere ridotta a terra di saccheggio, riuscendo a mantenersi in vita rafforzata da una entente con la Cina, da cui entrambi i paesi ricevono importanti vantaggi.

Si potrebbe anche aggiungere che solo la Russia, con il supporto della Cina, è in questo momento storico in grado di portare a termine questa operazione, il cui esito metterebbe in questione sia l’ordine internazionale, ossia l’egemonia delle potenze imperialistiche, sia la struttura di classe dei vari paesi, indispensabile alla perpetuazione del primo. Ma ovviamente questi processi non avverranno automaticamente e pertanto necessitano di una compatta forza dei lavoratori (il polo internazionale) che li governi e li indirizzi verso il suo obiettivo strategico, il quale non sta dietro l’angolo; intendo dire il “governo dei produttori” e l’abbattimento della proprietà privata, le altre soluzioni ipotizzate sono prive di plausibilità. Sono queste espressioni precise rispetto all’indefinito e fumoso concetto di “bene comune”, che tanto risuona nelle bocche di chi ancora non ha capito l’autentica natura dell’imperialismo.

Certo, ovviamente ha ragione chi afferma che l’immagine che abbiamo di un certo paese è cangiante, non è fissata per sempre in una fotografia (questo vale sia per la Russia sia per la Cina) e quello che è oggi domani può apparire assai diverso, ma sicuramente l’accentuarsi dello scontro attuale a livello mondiale potrà solo acuire le contraddizioni interne ed esterne ad ogni Stato e blocco e forse favorire il sorgere di qualche nuovo protagonista della storia, sulla cui identità stiamo ancora speculando.

A questo punto è imprescindibile fare qualche considerazione sulla Cina, che certamente in questo momento cerca di mostrarsi come il socio migliore e più affidabile, mentre riesce a sottrarre il Sud Globale all’egemonia statunitense, la cui miseria è stata generata dai famosi metodi dei “sicari dell’economia”. Molti si sono chiesti se in Cina ci sia stata la restaurazione capitalista e hanno risposto in maniera affermativa, ma purtroppo le dicotomie (socialismo/capitalismo) ci fanno capire poco della complicata storia della società in transizione e della processualità degli eventi.

Non uno qualunque, il Che Guevara, riteneva che l’Unione sovietica e la Cecoslovacchia (allora tra i più sviluppati paesi del COMECON) non fossero paesi pienamente socialisti (e secondo Lenin aveva pure ragione), e accusò persino il blocco sovietico di essere complice dell’imperialismo per la politica di coesistenza pacifica.

Come sappiamo gli stessi cinesi, governati da un partito che si definisce comunista, collocano il loro paese nella fase primaria del socialismo, che si dovrebbe dispiegare fino al 2049, quando il reddito medio dei cinesi sarà pari a quello dei paesi sviluppati, e hanno in programma varie misure come quello dell’ampiamento della democrazia socialista, quanto mai urgente. Seguendo vari studiosi la Cina sarebbe un socialismo di mercato o con il mercato, caratterizzato dalla pianificazione economica, dalla proprietà pubblica della terra e delle risorse naturali, da diverse forme di proprietà (tra cui quella capitalistica), dal controllo del sistema bancario e dei mercati finanziari. Il suo successo è stato – come si diceva – l’eliminazione della povertà estrema, ma è ancora insufficiente la lotta contro le disuguaglianze e contro la polarizzazione tra poveri e ricchi, che ha scandito il percorso evolutivo del mondo intero negli ultimi decenni e che deve essere sconfitta dalla socializzazione della prosperità.

Ricordando la celebre fase “elettrificazione e soviet”, slogan della campagna del 1920, mi chiedo quale sia oggi il carattere della democrazia socialista e non rispetto a quello caricaturale delle cosiddette democrazie occidentali, ma rispetto all’autogoverno dei lavoratori, al passaggio dal regno della necessità a quello della libertà. Che questo sia un tema cruciale non risulta solo dalle recenti dichiarazioni di Xi Jinping, ma anche da un piccolo libro cinese appena pubblicato proprio a questo proposito, il quale nasce dal desiderio di sfatare molti falsi miti sul governo autoritario del PCC (Lin Jianhua et al., China’s Whole-Process People’s Democracy, 2023).

La struttura istituzionale della Cina è composta da assemblee di vari livelli che eleggono, a partire dal basso, i rappresentanti dei livelli più alti, fino a scegliere i membri del Assemblea nazionale del popolo, composta in maggioranza dagli esponenti del PCC. Affianca questa struttura l’organizzazione del Partito, quasi a formare un sistema dualistico, che si dipana al livello della provincia, della prefettura, della municipalità e del singolo villaggio. Il potere esecutivo è gestito dal Consiglio di Stato, nel quale sono incorporati il primo ministro e i vari ministri, mentre il PCC si articola secondo gli stessi criteri dall’alto in basso in questo modo: Comitato del Politburo composto da sette membri, Politburo con 25 membri, Comitato centrale e Congresso del Partito.

Il libro appena citato definisce la Cina una democrazia olistica che si sviluppa in molteplici dimensioni quali le elezioni, le consultazioni, il prendere decisioni, l’amministrazione, la supervisione, qualcosa di più completo della democrazia liberale che si accontenta del solo momento del voto ed è definita dal Global Times farsa elettorale. Essa riconosce il diritto di essere eletti, di essere informati, di partecipare, di esprimere le proprie opinioni e di controllare l’esercizio del potere e si dipana come un processo dinamico. Una volta rieletto lo stesso Xi ha affermato l’esigenza di migliorare la democrazia socialista, il cui funzionamento in un paese di un miliardo e 400 milioni di abitanti non è certo cosa facile. Se posso fare una critica, la struttura su descritta, fondata su rapporti indiretti tra rappresentanti e rappresentati, consente la partecipazione alla vita politica di tutti, tuttavia, lo strumento della consultazione popolare sembra insufficiente e dovrebbe essere sostituito da un più profondo e articolato dibattito a tutti i livelli. Inoltre, la distanza tra gli organismi superiori e quelli inferiori talvolta fa sì che le istanze provenienti dal basso non giungano ai vertici o nel lungo tragitto percorso vengano distorte.

Tornando al tema del nuovo ordine mondiale, vorrei analizzare brevemente altre possibilità per delineare l’ipotetico scenario nel quale dovremo muoverci.

Il noto giornalista statunitense stanziato a Mosca, Andrew Korybko, ritiene plausibile che le vicende degli ultimi tempi daranno vita a un sistema tri-multipolare nel quale si confronteranno il cosiddetto Miliardo d’oro (l’Occidente con l’Europa ormai sottomessa), l’Alleanza sino-russa e il Sud Globale guidato dall’India, che è oggi la quinta potenza al mondo e che aspira ad un seggio nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Nel caso in cui, per l’acuirsi dell’aggressività occidentale in Ucraina, la Cina si sentisse costretta a fornire supporto militare alla Russia, gli USA lancerebbero nuove sanzioni contro di essa, ma dovrebbero convincere i loro più stretti alleati, che per ora sembrano riluttanti (v. Macron per es.) [3]. Il Sud Globale sta mettendo insieme il nuovo Movimento dei paesi non allineati tra i quali ricordiamo il Brasile, l’Iran, il Sud Africa, la Turchia, i gruppi regionali costituiti dall’Unione africana, dall’ASEAN, dalla CELAC. Si tratterebbe di un’alleanza informale che consentirebbe ai suoi membri di restare in una certa misura neutrali e, tramite l’India, di continuare gli scambi con altri due poli.

Molto interessanti sono anche le osservazioni fatte da Korybko sulle recenti dichiarazioni dell’ambasciatore cinese a Parigi sul bilateralismo, che a suo parere esprimono la volontà della Cina di mantenere buone relazioni con la UE, anche per evitare che il suo consistente mercato cada nelle avide mani delle corporazioni USA. Ma – se osserviamo bene – il bilateralismo si sta estendendo, favorendo lo stabilirsi di accordi contraddittori tra i vari attori internazionali. Il nostro stesso paese può costituire un esempio di questo modo di procedere: il secondo fornitore di gas dell’Italia è ora l’Algeria grazie ad un accordo bilaterale, mentre quest’ultima rappresenta il più rilevante alleato della Russia e il maggior compratore delle sue armi in Africa. Invece, la Turchia, mai ammessa nella UE, ha condannato la Russia per l’operazione speciale e vende armi a Zelensky, nello stesso tempo, pur appartenendo alla NATO, non ha applicato alla Russia le sanzioni occidentali e fa da mediatore sia politico che commerciale tra quest’ultima e l’Occidente sempre bisognoso di energia e di cereali.

Questa frammentazione contraddittoria e le scelte puramente pragmatiche di ogni paese, al di là delle retoriche dichiarazioni sulla difesa dei propri principi e valori e nella misura in cui possano essere fatte in maniera indipendente, non garantisce certo un equilibrio mondiale stabile, anche perché in assenza di prospettive politiche più profondamente condivise (è sufficiente il desiderio di sottrarsi all’egemonia USA?), esso può essere messo in discussione in ogni momento e generare a catena nuovi sommovimenti. Inoltre, bisognerà vedere in che misura queste scelte pragmatiche influiranno sulle condizioni di vita delle classi popolari devastate dalle vicende degli ultimi decenni (neoliberismo, pandemia, guerra), le quali potrebbero finalmente comprendere che gli interessi vincenti non sono i loro. D’altra parte, almeno nel mondo occidentale la compattezza ideologica è svanita e si è aperto un varco abissale tra le élite e i lavoratori, che non credono più né nella democrazia elettorale né nelle possibilità ormai inimmaginabili di avanzamento sociale. Questi elementi critici per i paesi imperialisti potrebbero spingere a forme di coordinamento tra chi ora protesta anche con una certa forza ma in maniera episodica e frammentata, forse coinvolgendo anche le masse dei paesi extra-occidentali ormai ridotte a popolazione superflua e ricacciata nel nulla dalle politiche migratorie. Queste forme di coordinamento avrebbero il vantaggio di sostenere l’interesse della maggioranza dell’umanità e di prefigurare alleanze su principi chiari assai diversi dagli accordi politicistici, compromissori, revocabili, se è possibile, per chi decide ricavare benefici altrove o se si è costretti a schierarsi col nemico del finto amico, come la UE. Sarebbe questo l’auspicato polo internazionale che, superando ostacoli che ora appaiono insormontabili, forse ci consentirebbe di riprendere in mano il nostro destino.

Note:

[1] Dato il carattere dell’articolo non definirò tutti i concetti impiegati, consapevole che il loro contenuto è sempre oggetto di discussione.

[2] Per i cinesi ci vorrebbero almeno 12 generazioni.

[3] Ad Hiroshima si sta svolgendo un’importante riunione del G7, a cui sono stati invitati paesi come Indonesia, Vietnam, India per le loro potenzialità economiche. Uno dei temi in discussione è lo sganciamento dall’economia cinese, sostenuto con forza dagli Usa ma preoccupante per gli europei. Bisogna chiedersi: può la UE mantenere accordi bilaterali con la Cina, restando subordinata agli Usa?

20/05/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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