I comunisti e le elezioni - parte II

Alle forze del teatro Brancaccio manca la determinazione a ricostruire l’unità della sinistra antiliberista sul piano del conflitto sociale, ai comunisti manca la coscienza che il partito non c’è e va ricostruito.


I comunisti e le elezioni - parte II Credits: https://www.sciax2.it

Segue da numero precedente

Il programma e la tattica che oggi contraddistinguono le forze che si richiamano alla tradizione socialdemocratica hanno poco a che vedere con la concezione classica della socialdemocrazia alla quale normalmente ci si riferisce. Questo è del tutto normale dal momento che nella realtà politica non c’è nulla di dato, di fisso, ma tutto seguita a muoversi nel solco, contorto e dialettico dello scontro di classe e del suo divenire storico. Dunque il partito, la sua organizzazione e i suoi programmi mutano in funzione del livello di coscienza e dei rapporti di forza storicamente dati.

Nella sua accezione classica la tendenza socialdemocratica o riformista è quella corrente del marxismo della seconda internazionale che proponeva una visione della presa del potere fondamentalmente basata sull’idea, gradualista, di giungere per mezzo del partito, rafforzatosi nelle istituzioni parlamentari borghesi attraverso una lunga fase di conflitto sociale e lotte di massa guidate da solide relazioni sindacali, a controllare ampi strati dello Stato borghese al punto da prenderne il controllo senza dover ricorre a un insurrezione violenta.

A questa visione sappiamo che si è contrapposta quella del marxismo rivoluzionario di Lenin che poneva la questione dello Stato in maniera radicalmente diversa, vale a dire: alle strutture dello Stato borghese, comprese quelle parlamentari, è necessario sostituire quello dello Stato proletario. Questo ha notevoli conseguenze sul piano organizzativo, si passa dalla subalternità alle istituzioni borghesi al loro superamento per mezzo della centralità che assumono le strutture consiliari proprie della classe operaia. Dunque, secondo l’impostazione rivoluzionaria, le elezioni borghesi per i comunisti, benché rappresentino un momento importante nella vita politica delle masse e in quanto tale degno di essere preso seriamente in considerazione, hanno uno scopo solo strumentale e finalizzato a mettere in luce l’incapacità del parlamento nel risolvere la crescente richiesta di democrazia sostanziale proveniente dalle classi subalterne.

Nonostante tale contrapposizione tra marxismo riformista della seconda internazionale e marxismo rivoluzionario della terza internazionale possa ancora oggi essere oggetto di studio e di scontro tra i comunisti, una cosa è certa: oggi quella social-democrazia ce la sogniamo.

Capire le ragioni dell’arretramento nei programmi e nelle parole d’ordine della socialdemocrazia di oggi non è un problema teorico di facile soluzione perché, come affermato in premessa, esso trova la sua spiegazione all’interno del complesso processo storico nel quale si scontrano ragioni soggettive – a partire dall’involuzione del Partito Comunista Italiano, che a sua volta non può che essere letta sul piano internazionale – e ragioni oggettive legate alla crisi del capitalismo che, ad esempio, chiude i margini anche alle manovre redistributive di stampo keynesiano da sempre base economica dei programmi delle forze politiche riformiste.

Dunque è difficile poter affermare che oggi esiste in Italia un movimento politico avente i caratteri classici della social-democrazia, forse, depurando tale definizione classica della sua visione strategica comunque basata sul conflitto, oggi il partito che in Italia maggiormente si avvicina a questa impostazione è Sinistra Italiana.

Certamente non lo è il Movimento Democratico e Progressista di D’Alema e Bersani che, oltre ad aver sostenuto le peggiori politiche neoliberiste del governo Renzi e Gentiloni, è la riproposizione di una linea politica fallimentare, già vista nel passato recente dei governi Prodi, che ha tracciato chiaramente la linea alle politiche neoliberiste in Italia. In questo senso Renzi è il figlio di D’alema e Bersani.

Vale la pena rifrescare la memoria, al fine di chiarire ulteriormente la questione sul significato di socialdemocrazia, ricordando che proprio durante i governi Prodi e D’alema si è dato il via ai profondi processi di liberalizzazione e attacco ai lavoratori di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze: pacchetto Treu (Legge 24 giugno 1997), liberalizzazione del settore delle comunicazioni (Legge Maccanico 97), settore che all’epoca era all’avanguardia al livello mondiale in termini di ricerca, brevetti e professionalità degli addetti e che ha prodotto risultati catastrofici in termini di perdita di competitività dell’intero comparto, e la liberalizzazione del settore energetico (Decreto Bersani ‘99).

Liberalizzazioni dei settori strategici e attacco ai diritti della classe operaia queste le linee intorno alle quali D’Alema, Prodi e Bersani hanno costruito i loro programmi di governo.

Esattamente l’opposto di un programma socialdemocratico classico e di un programma minimo comunista.

L’involuzione della socialdemocrazia è connessa alla debolezza e all’arretratezza della coscienza di classe.

In questo contesto, contrassegnato dall’assenza di un movimento conflittuale organizzato dei subalterni, le forze “socialdemocratiche” e insieme i vertici del maggiore sindacato italiano, la CGIL, sono incapaci di aggregare un blocco sociale anche solo intorno ad un programma antiliberista e nei limiti opportunisti dell’ideologia riformista. Tali formazioni politiche hanno abbandonato da tempo una lotta coerente intorno alla questione del super-sfruttamento della forza lavoro, della lotta per l’aumento del salario e la riduzione dell’orario di lavoro scivolando sempre più a destra sul terreno del neocorporativismo.

Dunque se è vero che in questa crisi profonda del capitalismo c’è una perdita di egemonia per la classe dominante, dall’altra parte c’è un’incapacità della sinistra di riconquistare un ruolo forte ed egemone nelle classi subalterne. Prova né è il fatto che dopo la vittoria al referendum costituzionale queste forze non sono state in grado di trasformare il voto di protesta di classe contro il governo liberal-populista di Renzi in un movimento di lotta, perlomeno antiliberista, preferendo ancora una volta i teatri alla piazza.

Questa perdita di egemonia e capacità di direzione della sinistra, legata all’incapacità di sviluppare una teoria e una prassi marxista, la vediamo, oltre che nell’assenza del conflitto, proprio nella costruzione della proposta politica laddove ancora una volta si propone il clichè della “società civile” che si autoriforma e che, all’improvviso, al pari della bell’addormentata, a pochi mesi dalle elezioni senza aver mai battuto il campo della lotta e del conflitto si risveglia in un teatro e con altisonanti proclami si propone come forza di cambiamento radicale in grado di unire l’intera sinistra .

E le forze comuniste? Ricostruire il partito organizzando il conflitto

Dunque, il nocciolo della questione in questa fase è la riorganizzazione del conflitto e la sua direzione. Obiettivo che, come abbiamo detto, è principalmente in capo alle forze comuniste, le sole forze di avanguardia, che oggi però sono particolarmente ininfluenti a causa della frammentazione e disorganizzazione. Quindi il problema principale di questa fase storica diviene quello della ricostruzione del partito.

Si tratta di un processo lungo che non può essere inquadrato nell’ottica dell’unità dei comunisti in funzione della scadenza elettorale ma, piuttosto, nel processo di costruzione di un partito leninista e gramsciano nell’organizzazione e nella direzione del conflitto sociale.

Solo attraverso una prassi comune, che deve consolidarsi nel passaggio dalle parole ai fatti, non settaria, non opportunista e non dogmatica, ma certamente rivoluzionaria, cioè che abbia come obiettivo minimo la presa del potere, è possibile il divenire di un partito in grado di essere la guida cosciente della classe in grado di stimolarne e attivarne le passioni e i sentimenti più profondi di giustizia sociale e di rabbia nei confronti dello sfruttamento.

Questo processo di formazione della coscienza e del partito comunista stimolerebbe, tra le altre cose, il rivoltarsi della base dei partiti socialdemocratici e, soprattutto, della base dei sindacati maggioritari contro i propri vertici, arrestandone la deriva a destra.

Oggi, però, i partiti comunisti in Italia non lavorano a questo obiettivo, anzi tendono a conservare le proprie minuscole e sterili organizzazioni che, all’esame del voto e della storia, difficilmente potranno risultare degne di nota. Infatti, in assenza di un largo e profondo movimento conflittuale, radicato e cosciente, in grado di far emergere dirigenti di qualità formati nello studio e nella lotta, è facile la deriva opportunista anche per le formazioni della estrema sinistra.

Fermo restando che la costruzione del partito comunista è un processo lungo e travagliato che riguarda questioni teoriche e pratiche, ciò non toglie che si possa sfruttare anche la fase elettorale per tentare una riorganizzazione dei comunisti a patto che ciò avvenga sul terreno della prassi finalizzata alla mobilitazione, ossia se prima di tutto si pone la questione dell’organizzazione, attraverso il metodo del centralismo democratico, della lotta contro le politiche neoliberiste e i politici che le hanno realizzate, compresi quelli confluiti in MDP.

Guardando all’interno delle esperienze come quelle del teatro Brancaccio, promosse dai socialdemocratici, i comunisti dovrebbero organizzarsi allo scopo di conquistarne la direzione che, come detto, non può che muoversi nell’ottica dello spirito di scissione rispetto alle forze liberal democratiche (MDP). Tale rottura dovrebbe inoltre determinarsi in momenti conflittuali di piazza (e non nei salotti televisivi) al fianco dei lavoratori in lotta, mediante chiare parole d’ordine contro il governo Gentiloni e i vari opportunisti che lo sostengono.

Purtroppo al momento la proposta politica di Falcone e Montanari non è riuscita a uscire dai teatri per riversarsi nelle strade e nelle piazze e questo dimostra che non solo le porte a MDP non sono chiuse, ma anche che le forze comuniste, che hanno preso parte a tale percorso come il PRC, non riescono a conquistare l’egemonia su quella, per quanto limitata, base politica.

D’altro canto, anche guardando a sinistra, la maggioranza delle forze comuniste che oggi si propongono sul piano elettorale non lo fanno a partire dalla questione della ricostruzione del partito, il che implicherebbe una certa concezione dialettica e organizzativa, ma, tendono a dividersi tra esercizi di settarismo piuttosto sterile e pulsioni sovraniste con tendenze populiste, a partire da un’autoconsolatoria e autoproclamata condizione di “supremazia ideologica” che punta più alla conservazione delle singole parrocchiette che a un loro superamento in positivo. Difatti nessuna di queste forze è in grado di connettersi realmente alle masse e, dunque, di potersi definire coerentemente comunista.

Infine per le forze comuniste è indispensabile un programma minimo sulla cui base costruire una coalizione elettorale – fermo che “ogni passo di movimento reale è più importante di una dozzina di programmi”.

Tale programma minimo oggi non può che essere elaborato intorno a tre questioni principali: la riduzione dell’orario e dei ritmi di lavoro, il ripristino dei diritti conquistati in anni di lotte, la formazione della classe operaia. Intorno a queste questioni ruotano e si intrecciano la questione della democrazia reale e della riconquista da parte della classe operaia che lavora sul territorio italiano di un ruolo forte in termini di capacità produttiva in determinati settori strategici come l’energia le comunicazioni e i trasporti.

Questo programma minimo potrebbe essere il terreno sul quale misurare la capacità delle forze comuniste di divenire reali, di organizzarsi insieme su obiettivi comuni e di formare nuovi quadri dirigenti mentre di accumulano le forze necessarie per l’obiettivo finale: la presa del potere.

28/10/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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