2 novembre 1975: l’Italia scopre la morte di Pasolini

Il giorno in cui l’Italia perse Pasolini, raccontato da chi visse l’incredulità e il dolore di quelle ore.


2 novembre 1975: l’Italia scopre la morte di Pasolini

Era il giornale radio delle 8,45, sul terzo programma della Rai.
La voce che diede l’annuncio, mentre facevamo colazione, in tre, ci lasciò increduli, smarriti, tra la voglia di gridare e il bisogno di piangere.

Ci precipitammo davanti al piccolo schermo e non ci perdemmo più un telegiornale.
Tre le immagini che mi si fissarono nella mente: Franco Citti attonito, come inebetito, reggendo la bara; Alberto Moravia come pazzo, che diceva parole come queste: “Che paese è quello in cui si uccidono i poeti?”.
Infine, Eduardo, il grande Eduardo, che commentava, con mesta arguzia, che sì, quando muore qualcuno tutti sono pronti a lodarlo, ma lui sapeva distinguere e non sprecava le sue lodi.
Di Pasolini disse, in poche parole: “Era un uomo vero, buono e fragile, indifeso.”

Parole che andavano a segno, mi parve allora, e tanto più con gli anni. E cominciarono le speculazioni, mai finite: era solo? che ci faceva là? e quel Pino la Rana può aver fatto tutto da solo?

E poi le interviste a Laura Betti, Nico Naldini, attori, scrittori, registi…

Accanto alle speculazioni giornalistiche e alle nostre chiacchiere – eravamo tutti complottisti allora – le indagini ufficiali diedero il via a una girandola che sarebbe durata decenni.
Ancora oggi, ad ogni anniversario, si riapre quella ferita: fu vittima di una cospirazione? Pino Pelosi lo uccise da solo?

Non mancarono gli osceni commenti della destra: “Se l’è andata a cercare.”
E oggi persino un personaggio grottesco come Matteo Salvini si permette di citare Pasolini…

In quel novembre del ’75, per giorni e settimane, non si parlò d’altro.

Nel giro di amici e compagni, anche quelli che avevano posizioni critiche verso quel poeta-regista che non sembrava abbastanza ortodosso, si discuteva senza sosta. Non si usava allora la political correctness, ma esisteva, nell’estrema sinistra, in cui mi collocavo da “cane sciolto”, un perbenismo, un moralismo, una ipocrisia a dir poco deprimenti.

Ricordo quando Pasolini aveva tuonato contro il consumismo: Luigi Firpo, che pure stimavo, replicò sarcastico che Pasolini voleva tornare alle candele, ripudiando il progresso.
Eppure quel poeta aveva intuito gli orrori della modernità omologante, rivelandosi un osservatore acutissimo della società e delle sue derive.

L’epoca era ancora quella della politica al primo posto, dell’infatuazione cinese, del marxismo-leninismo visto come dogma.

Pasolini appariva, com’era, un irregolare.

Molti non gli perdonarono la sua diffidenza per il Sessantotto e, soprattutto, la “lode alla polizia” del 1969, che L’Espresso pubblicò con il titolo truffaldino “Vi odio, cari studenti!”, rubando e tagliando un suo testo più complesso (Il PCI ai giovani).

Pasolini si risentì, e a ragione.

Ma quei versi, anche stralciati, ci colpirono profondamente.
Quando scrissi il mio secondo libro, nel 1972, proprio sulla polizia, li citai: e venni attaccato da sinistra, naturalmente.

La mia generazione amò prima il regista, poi il narratore, infine il poeta.

Eravamo quasi tutti digiuni di estetica, anche se io avevo seguito i corsi di Gianni Vattimo e Luigi Pareyson, e tentato di leggere Hegel in tedesco, con tremenda frustrazione.

Ma il Pasolini di cui si parlava ogni giorno era quello degli articoli su “Tempo Illustrato”, “l’Unità” e il “Corriere della Sera”: il fustigatore di costumi, la coscienza inquieta del Paese.

Ci faceva arrabbiare e riflettere, e nello stesso tempo ci attirava quel mondo di sotto, raccontato nei suoi romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta.
E intanto scoprivo Le ceneri di Gramsci, che mi inquietarono e mi spinsero ad approfondire.

Pasolini divenne un opinionista divisivo: voleva la discussione, la provocazione intellettuale.

Nel linguaggio politico di allora “provocatore” era un insulto, ma lui trasformò quella parola in un gesto di libertà e lucidità.

Per me, non era un provocatore, ma un uomo che sapeva usare la ragione come un rasoio.
I suoi testi mi eccitavano, mi incitavano, mi persuadevano di essere dalla parte giusta: quella del torto rispetto ai valori borghesi.

Il termine “profeta”, tanto abusato, gli apparteneva di diritto.
Aveva colto, in solitudine estrema, i tratti mostruosi del progresso capitalistico italiano: l’omologazione, la perdita di identità, la violenza del conformismo.

Denunciava la TV come strumento di mutazione antropologica, capace di cancellare la specificità del popolo italiano.
Era l’Italia “dopo la scomparsa delle lucciole”.

In quella Italia, Pasolini, pur animato da feroce passione di vita, non era a suo agio.
E forse, inconsciamente, voleva uscirne.

Come scrisse Roberto Roversi, suo sodale ai tempi di Officina, quella fu “una esecuzione”.

Pasolini fu vittima dell’Italia dei poteri oscuri, delle stragi, delle mafie, della massoneria deviata.

Quell’insieme maleodorante che lui aveva definito con una sola parola: “il Palazzo”.
E anche questa espressione entrò nel linguaggio comune, a segnare la distanza tra il potere e il popolo.

Si spinse troppo oltre, e fu giustiziato da quel grumo di poteri e interessi.
Un Cristo fra i mercanti del tempio, come nel suo film Il Vangelo secondo Matteo.

Giunse quell’alba del 2 novembre, “giorno dei morti”, dopo la notte dell’omicidio.
La tragica notizia dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini, la voce più originale e critica della cultura italiana, lasciò il Paese attonito.

Pochi mesi prima aveva scritto:

“Io voto comunista perché ricordo la primavera del ’45 e poi quella del ’47 e via…”

E denunciava il “paese orrendo, terribilmente sporco”, sporcato dai processi di omologazione e dalla perdita di identità.
Ma aggiungeva:

“C’è però un paese pulito. Il paese dei comunisti.”

Quel testo doveva essere letto al Congresso del Partito Radicale.
Non poté mai pronunciarlo.

Oggi, davanti allo sfacelo politico e morale del Paese, ci piacerebbe sapere cosa direbbe Pasolini.
Ma, in fondo, lo sappiamo: lo aveva già scritto più di mezzo secolo fa:

“Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia.
L’Italia rimuove il suo passato prossimo.
Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla.”

Ora ci resta l’immagine di quel corpo martoriato, icona del nostro tempo, richiamo del Cristo morto del Mantegna e del Che in Bolivia.
Un’immagine che serba in sé un messaggio altissimo e doloroso, che non dovremmo ricordare solo nella data della sua morte.


Prof. Angelo d'Orsi
Docente a contratto Politecnico di Torino
Già Ordinario di Storia del pensiero politico
Università degli Studi di Torino
Direttore di "Historia Magistra. Rivista di storia critica" 
e di "Gramsciana. Rivista internazionale di studi su Antonio Gramsci"

01/11/2025 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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