Gramsci e l’involuzione in senso autoritario del liberalismo

#Gramsci denuncia come i sedicenti moderati, cioè le consorterie di proprietari che hanno di fatto gestito il potere grazie al regime liberale, presi dal panico di fronte al progressivo protagonismo di massa dei ceti popolari, tendono a fare del concetto di rivoluzione #passiva un vero e proprio programma politico.


Gramsci e l’involuzione in senso autoritario del liberalismo

Più aumenta la crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, più la sovrastruttura politica della società borghese si vede costretta ad abbandonare i princìpi progressisti del liberalismo. Non solo le contaminazioni con la democrazia – che aveva prodotto regimi liberal-democraticivengono meno, ma lo stesso potere legislativo, il più democratico, tende a essere sacrificato al potere più autoritario: l’esecutivo. Quest’ultimo finisce progressivamente per fagocitare e rendere subalterni gli altri due poteri: legislativo e giudiziario, in tal modo viene meno non solo l’impronta anti assolutista fondamento originario del liberalismo – ma la stessa divisione dei poteri. Anzi, denuncia Antonio Gramsci, l’esecutivo oltre a concentrare sempre più poteri nelle sue mani, per sviluppare questa involuzione in senso autoritario del liberalismo, finisce con il dotarsi di una massa di manovradi senza partito legati al governo con vincoli paternalistici di tipo bonapartistico-cesareo” [1], un fenomeno che già Platone indicava come caratteristico della forma più degenerata di governo, cioè il potere tirannico.

In tali fasi, dunque, tende a espandersi sempre di più lo scarto fra l’elemento democratico della Costituzione e la sua applicazione e interpretazione in senso sempre più regressivo. Inoltre all’elemento democratico e pluralista della discussione parlamentare, che tutela e valorizza le minoranze, si vengono sostituendo progressivamente i decreti leggi che rafforzano ulteriormente i poteri dell’esecutivo che, di fatto, usurpa sempre più la funzione chiave del potere legislativo. In tal modo, si provoca in ogni maniera la reazione degli organi elettivi per poter prevenire il caos sociale con un’azione preventiva volta a ristabilire l’ordine garantito dall’uomo forte di turno (cfr. 13, 37: 1637). In altri termini, si affermano sempre di più le tendenze golpiste del potere esecutivo. I sedicenti moderati, cioè le consorterie di proprietari che hanno di fatto gestito il potere grazie al regime liberale, presi dal panico di fronte al progressivo protagonismo di massa dei ceti popolari, tendono a fare del concetto di “rivoluzione passiva” – elaborato criticamente da Cuoco “per creare di contro a essa una morale nazionale di maggiore energia e di iniziativa rivoluzionaria popolare” (10, 6: 1220) [2] – un vero e proprio programma politico. A questo proposito Gramsci fa un esempio sul significato politico che muove, proprio in questa direzione, la stessa opera storica del più grande intellettuale tradizionale del tempo: Benedetto Croce. In effetti, dopo aver colto tutti i limiti della ricostruzione storica elaborata da Croce, Gramsci conclude osservando, acutamente, “che il libro sulla Storia d’Europa non è altro che un frammento di storia, l’aspetto «passivo» della grande rivoluzione che si iniziò in Francia nel 1789, traboccò nel resto d’Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi regimi, e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma la corrosione «riformistica» che durò fino al 1870. Si pone il problema se questa elaborazione crociana, nella sua tendenziosità non abbia un riferimento attuale e immediato, non abbia il fine di creare un movimento ideologico corrispondente a quello del tempo trattato dal Croce, di restaurazione-rivoluzione, in cui le esigenze che trovarono in Francia una espressione giacobino-napoleonica furono soddisfatte a piccole dosi, legalmente, riformisticamente, e si riuscì così a salvare la posizione politica ed economica delle vecchie classi feudali, a evitare la riforma agraria e specialmente a evitare che le masse popolari attraversassero un periodo di esperienze politiche come quelle verificatesi in Francia negli anni del giacobinismo, nel 1831, nel 1848” (10, 9: 1227).

Più in generale, Gramsci mostra come in tali frangenti storici molto delicatidi fronte all’assenza di iniziativa unitaria delle masse, al loro “sovversivismo sporadico, elementare, disorganico” (10, 41: 1325) – i moderati tendono ad appropriarsi, depotenziandole, alcune delle rivendicazioni espresse dalle masse popolari per mantenere nelle proprie mani l’iniziativa storica e ripiombare il popolo nella passività “quindi «restaurazioni progressive» o «rivoluzioni-restaurazioni» o anche «rivoluzioni passive»” (ibidem). 

Peraltro, come nota ancora acutamente Gramsci, affianco della rivoluzione passiva tende ad affermarsi l’esaltazione del volontarismo, che non è altro che un surrogato della mancata volontà di mobilitare le masse. Esso è, dunque, l’altra faccia della passività e rappresenta una “soluzione d’autorità, dall’alto, legittimata formalmente dal consenso, come suol dirsi, dei «migliori»” (19, 13; 2000).

Tuttavia senza il concorso attivo delle masse non sono certo più i soli migliori a produrre, nel mondo moderno, storia universale. Così, come pone in evidenza Gramsci, “in tutta una serie di quistioni, sia di ricostruzione della storia passata, sia di analisi storico-politica del presente, non si tiene conto di questo elemento; che occorre distinguere e valutare diversamente le imprese e le organizzazioni di volontari, dalle imprese e dalle organizzazioni di blocchi sociali omogenei (è evidente che per volontari non si deve intendere l’élite quando essa è espressione organica della massa sociale, ma del volontario staccato dalla massa per spinta individuale arbitraria e in contrasto spesso con la massa o indifferente per essa). Questo elemento ha importanza specialmente per l’Italia: 1) per l’apoliticismo e la passività tradizionali nelle grandi masse popolari che hanno come reazione naturale una relativa facilità al «reclutamento di volontari»; 2) per la costituzione sociale italiana, uno dei cui elementi è la malsana quantità di borghesi rurali o di tipo rurale, medi e piccoli, da cui si formano molti intellettuali irrequieti e quindi facili «volontari» per ogni iniziativa anche la più bizzarra, che sia vagamente sovversiva (a destra o a sinistra); 3) la massa di salariati rurali e di lumpenproletariat, che pittorescamente in Italia è chiamata la classe dei «morti di fame». Nell’analisi dei partiti politici italiani si può vedere che essi sono sempre stati di «volontari», in un certo senso di spostati, e mai o quasi mai di blocchi sociali omogenei. Un’eccezione è stata la destra storica cavourriana e quindi la sua superiorità organica e permanente sul così detto Partito d’Azione mazziniano e garibaldino, che è stato il prototipo di tutti i partiti italiani di «massa» successivi, che non furono tali in realtà (cioè non ordinarono gruppi omogenei sociali) ma furono attendamenti zingareschi e nomadi della politica” (13, 29: 1623-624).

Dunque, tornando ai momenti clou del corso storico, ai frangenti storici decisivi, Gramsci fa notare – di contro al populismo e a ogni tendenza apologetica dello spontaneismocome, persino in tali frangenti, capaci di reale iniziativa politica restano soltanto delle minoranze organizzate.

Così se i dirigenti progressisti e/o rivoluzionari nel momento in cui hanno la possibilità reale di conquistarsi l’egemonia su larghe masse, dando uno sbocco rivoluzionario alla crisi, rinunziano a tale compito storico [3], rischiano d’essere spazzati via dalla reazione della minoranza avversa. Così sarà proprio la mancata Rivoluzione in occidente, ad aprire – per quanto involontariamente e inconsapevolmente – la strada alla reazione fascista e poi nazista.

In tal caso, quindi, ne conclude Gramsci, “tutto l’apparecchio [statuale] si sfascia e se ne forma uno nuovo [lo Stato fascista], in cui le vecchie moltitudini non contano nulla e non possono più muoversi e operare. Ciò che si chiamava «massa» è stata polverizzata in tanti atomi senza volontà e orientamento e una nuova «massa» [di piccolo borghesi e ceti medi] si forma, anche se di volume inferiore alla prima [la proletaria], ma più compatta [in quanto diffusa su l’intero territorio nazionale] e resistente, che ha la funzione di impedire che la primitiva massa si riformi e diventi efficiente” (15, 35: 1789). Ecco, dunque, come Gramsci rielabora i tragici eventi che hanno prodotto il ventennio fascista e la funzione storica e sociale del regime mussoliniano.

Note:

[1] Gramsci, Antonio, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Gerratana, Valentino, Einaudi, Torino 1977, Vol. I, p. 387. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.

[2] A tale proposito, nota acutamente Gramsci: “il primo esempio clamoroso di queste apparenti contraddizioni è da studiare nell’episodio della Repubblica Partenopea del 1799: la città fu schiacciata dalla campagna organizzata dalle orde del cardinale Ruffo, perché la Repubblica, sia nella sua prima fase aristocratica, che nella seconda borghese, trascurò completamente la campagna da una parte, ma dall’altra, prospettando la possibilità di un rivolgimento giacobino per il quale la proprietà terriera, che spendeva la rendita agraria a Napoli, poteva essere spossessata, privando la grande massa popolare dei suoi cespiti di entrata e di vita, lasciò freddi se non avversi i popolani napoletani” (19, 26: 2037-38).

[3] A tal proposito, restano estremamente significative e attuali le critiche di Gramsci alle tendenze apologetiche della non-violenza che tendono ad affermarsi in tali cruciali tornanti storici. Per cui, come mostra Gramsci, la concezione della non-violenza tende a svilupparsi nel momento in cui “molti uomini che si credono civili siano dominati da pochi uomini ritenuti meno civili ma materialmente invincibili. (…) La coscienza dell’impotenza materiale di una gran massa contro pochi oppressori porta all’esaltazione dei valori puramente spirituali ecc., alla passività, alla non resistenza, alla cooperazione, che però di fatto è una resistenza diluita e penosa, il materasso contro la pallottola” (6, 78: 748). 

 

27/01/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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