Lenin, il socialimperialismo e l’autodeterminazione nazionale

La serrata critica di Lenin al socialimperialismo, principale responsabile della sconfitta della necessaria rivoluzione in occidente, si lega alla sua presa di posizione dialettica sulla lotta dei popoli per l’autodeterminazione nazionale


Lenin, il socialimperialismo e l’autodeterminazione nazionale Credits: http://www.linterferenza.info/lettere/darwin-laddormentatore-del-dissenso-nel-libero-mercato/

Segue da “Lenin vs il riformismo III e ultima parte

4. Il socialimperialismo

“Un popolo che opprime gli altri popoli può essere libero?” [1]. La risposta di Vladimir I. U. Lenin è no; la repressione di un’altra nazione e la propaganda delle classi dominanti in appoggio a essa accrescono gli ostacoli che il popolo oppressore dovrà superare per liberarsi dai pregiudizi funzionali a tenerlo soggiogato. È così portato a considerare suo nemico il popolo oppresso che si batte per la liberazione e gli appare necessaria l’unità nazionale con i suoi sfruttatori. Si impedisce così l’unità del proletariato dei vari paesi, indispensabile alla reale liberazione dal giogo del colonialismo e, più in generale, del capitalismo. Al contrario, secondo Lenin per realizzare la decisiva unità ed eguaglianza fra i proletari di tutte le nazioni i comunisti devono sostenere il diritto dei popoli all’autodeterminazione, prendendo le distanze dall’opportunismo di sinistra che disdegna tale battaglia considerandola borghese e contraria agli interessi internazionalisti del socialismo. Perciò, su tali questioni, Lenin sviluppa una giusta critica a chi, come “Rosa Luxemburg, rincorrendo il ‘praticismo’, non ha visto il principale compito pratico del proletariato grande russo e delle altre nazioni, non ha visto cioè che esso consiste nell’agitazione e nella propaganda quotidiana contro ogni privilegio politico e nazionale, per il diritto, per l’uguale diritto di tutte le nazioni a costituirsi in uno Stato nazionale. Questo è il nostro compito principale (per il momento) nella questione nazionale, perché solo in questo modo noi difendiamo gli interessi della democrazia e dell’unità su un piano di uguaglianza, di tutti i proletari delle diverse nazioni” [2]. A tale decisivo fine Lenin considera indispensabile eliminare ogni forma di privilegi fra nazioni e gruppi linguistici: “ecco il programma nazionale della democrazia operaia: non concedere il minimo privilegio a nessuna nazione e a nessuna lingua; risolvere il problema dell’autodecisione politica delle nazioni, cioè della loro separazione statale, in modo completamente libero e democratico” [3].

D’altra parte anche il decisivo concetto di autodeterminazione delle nazioni va considerato da marxisti storicamente. Da questo punto di vista è decisivo distinguere la fase progressista che svolge nella storia di un popolo la conquista dell’autodeterminazione nazionale, dalla fase di decadenza del capitalismo, in cui lo Stato nazionale finisce per impedire l’ulteriore sviluppo delle forze produttive. Come osserva a tal proposito Lenin: “non somiglia essa (l’autodecisione) – scrive P. Kievski all’inizio del suo articolo – al diritto di ottenere gratuitamente diecimila desiatine di terra su Marte? Per rispondere a questa domanda bisogna essere assolutamente concreti, tener conto cioè di tutta l’epoca attuale: una cosa è il diritto di autodecisione delle nazioni nell’epoca della formazione degli Stati nazionali, come migliore forma di espansione delle forze produttive in quel periodo; un’altra cosa è il diritto di autodecisione quando queste forme, le forme dello Stato nazionale, sono divenute un intralcio all’espansione delle forze produttive. Tra l’epoca dell’affermazione del capitalismo e dello Stato nazionale e l’epoca che vede deperire lo Stato nazionale e prelude al tramonto dello stesso capitalismo la distanza è davvero enorme” [4]. Egualmente dialettica deve essere l’attitudine dei comunisti nei confronti di movimenti di liberazione nazionale egemonizzati dalla borghesia. In questi casi, come chiarisce Lenin, i rivoluzionari debbono essere certamente favorevoli alla lotta delle borghesie nazionali oppresse ma, al contempo, debbono battersi contro ogni privilegio da esse rivendicato: in quanto la borghesia della nazione oppressa lotta contro la nazione che opprime, noi siamo sempre, in tutti i casi, più risolutamente di ogni altro, in suo favore, perché noi siamo i nemici più implacabili e più coerenti dell’oppressione. In quanto la borghesia della nazione oppressa difende il proprio nazionalismo borghese, noi le siamo contrari. Lotta contro i privilegi e le violenze della nazione che opprime; nessuna debolezza verso la nazione oppressa che aspira a conquistare dei privilegi” [5]. Tanto più che – come sottolinea Lenin in polemica con gli opportunisti di sinistra che contrapponevano astrattamente la lotta democratica (borghese) per l’indipendenza nazionale all’internazionalismo proletario – l’unità dell’internazionalismo deve essere libera e, quindi, presuppone necessariamente l’autonomia nazionale: “se rivendichiamo la libertà di separazione per i mongoli, per i persiani, per gli egiziani e per tutte le nazioni oppresse e dipendenti senza eccezione, non lo facciamo affatto perché siamo favorevoli alla loro separazione, ma solamente perché sosteniamo una unità e fusione libera, volontaria, non coattiva”[6].

Lenin inoltre, da un punto di vista radicalmente storicista di stampo hegeliano, sostiene che l’autodeterminazione dei popoli va sostenuta, come va sostenuta la dittatura del proletariato, quale fase intermedia necessaria al suo superamento, nell’internazionalismo e nel comunismo. Ecco quanto osserva Lenin su tale questione: “tutto lo scritto del P. Kievski è percorso come da un filo rosso da un fondamentale malinteso: perché predicare e – una volta al potere – realizzare la libertà di separazione delle nazioni, se tutto lo sviluppo tende verso la loro fusione? E allora – rispondiamo – perché predichiamo e, quando saremo al potere, realizzeremo la dittatura del proletariato, se tutto lo sviluppo tende verso la soppressione di ogni dominio coercitivo di una parte della società sull’altra?” [7]. Allo stesso modo bisogna secondo Lenin mantenere una giusta dialettica fra l’appoggio all’autodeterminazione delle nazioni e la prospettiva indispensabile all’affermazione del socialismo dell’unità di classe internazionale. Perciò, scrive Lenin: “il proletariato è contrario a qualsiasi praticismo: riconoscendo a tutte le nazioni l’uguaglianza politica e l’uguale diritto a costituire uno Stato nazionale, esso attribuisce il massimo valore all’unità dei proletari di tutte le nazioni ed esamina ogni aspirazione nazionale dal punto di vista della lotta di classe degli operai” [8]. Dunque, determinante, resta sempre l’analisi determinata della situazione determinata, ossia i movimenti indipendentisti saranno da considerare più o meno progressisti a seconda di quanto possano favorire o impedire la decisiva lotta di classe del proletariato. Tanto più che sotto la borghesia la repubblica più democratica porta solo alla sottomissione del personale politico al capitale finanziario. In tal modo, però, diviene chiaro che il problema è superare il capitalismo e non conquistare dei diritti puramente formali. Lo stesso discorso vale per la vexata questio del diritto delle nazioni all’autodeterminazione. Come osserva a ragione Lenin: “lo stesso si dica per la repubblica democratica: il nostro programma la ‘proclama’, come ‘governo del popolo’, benché tutti i socialdemocratici sappiano molto bene che, sotto il capitalismo, la repubblica più democratica conduce soltanto alla corruzione dei funzionari da parte della borghesia e alla alleanza tra la Borsa e il governo. (...) I marxisti sanno invece che la democrazia non distrugge l’oppressione di classe, ma rende solo più pura, più ampia, più aperta e più energica la lotta di classe: ed è quanto ci occorre. (...) Quanto più democratica è la struttura statale, tanto più risulta chiaro per l’operaio che la radice del male è il capitalismo, non la mancanza di diritti. Quanto più integrale è la parità giuridica delle nazioni (ed essa è incompleta senza libertà di separazione), tanto più risulta chiaro per gli operai della nazione oppressa che il male è nel capitalismo, non nella mancanza di diritti” [9].

Del resto, come osserva acutamente Lenin, vi è, di fatto, un legame profondo fra dominio coloniale e affermazione dell’opportunismo, nella forma del socialimperialismo, fra i lavoratori dei paesi colonizzatori. “Lo sfruttamento delle colonie, da parte di un pugno di ‘grandi’ potenze, trasforma sempre più il mondo ‘civile’ in un parassita che vive sul corpo di centinaia di milioni di uomini” [10]. Una parte più o meno piccola degli enormi sovraprofitti, che tale dominazione offre alle classi dominanti, può essere utilizzata “per corrompere i propri operai, per creare una specie di alleanza (…) degli operai di una nazione con i propri capitalisti contro gli altri paesi” [11]. Si viene così a creare, nei paesi a capitalismo avanzato, con gli extra profitti garantiti dalla depredazione da parte dei paesi imperialisti dei popoli coloniali un’aristocrazia operaia, che ottiene un po’ più del necessario per riprodursi come classe. Dunque, ridistribuendo le briciole degli extraprofitti garantiti dalla più cinica spoliazione dei paesi colonizzati, la classe dominante dei paesi imperialisti riesce a corrompere e a portare su posizioni revisioniste i dirigenti sindacali e anche alcuni dirigenti dei partiti proletari. Le caratteristiche di tale aristocrazia operaia, sono ben delineate da Lenin: “in Occidente si è delineato – con molta più forza che da noi – uno strato di ‘aristocrazia operaiacorporativistica, gretta, egoista, insensibile, interessata, piccolo-borghese, di mentalità imperialistica, asservita e corrotta dall’imperialismo” [12].

Tale situazione favorisce l’illusione nel carattere progressivo di una “federazione europea delle grandi potenze”. Tuttavia essa – come era già evidente per il radicale borghese J. A. Hobson – non solo non contribuirebbe allo sviluppo della “civiltà mondiale”, ma conterrebbe “‘il gravissimo pericolo di un parassitismo occidentale, quello di permettere l’esistenza di un gruppo di nazioni industriali più progredite, le cui classi elevate riceverebbero, dall’Asia e dall’Africa, enormi tributi’” [13]. Mediante tali tributi le potenze dominanti “‘si procurerebbero grandi masse addomesticate di impiegati e di servitori, che non sarebbero occupati nella produzione di derrate agricole o di articoli industriali, ma nel servizio personale o in lavori industriali di second’ordine, sotto il controllo della nuova aristocrazia finanziaria’” [14]. I membri di quest’ultima divengono veri e propri “cani da guardia del capitalismo, corruttori del movimento operaio” sempre pronti a collaborare con la borghesia nazionale per “creare un’Europa imperialistica sulle spalle dell’Asia e dell’Africa” [15].

Note:
[1] V. I. U. Lenin, Sul diritto di autodecisione delle nazioni [febbraio-maggio 1914], in Id., Contro l’opportunismo di destra e di sinistra e contro il trotskismo, Edizioni progress, Mosca 1978, p. 241.
[2] Ivi, p. 242.
[3] Id., Osservazioni critiche sulla questione nazionale [ottobre-dicembre 1913], in op. cit., p. 181.
[4] Id., Intorno a una caricatura del marxismo e all’economismo imperialistico [agosto-ottobre 1916], in op. cit., pp. 268-69.
[5] Id., Sul diritto di autodecisione …, op. cit., p. 240.
[6] Id., Intorno a una caricatura …, op. cit., p. 275.
[7] Ivi, p. 277.
[8] Id., Sul diritto di autodecisione …, op. cit., p. 240.
[9] Id., Intorno a una caricatura …, op. cit., p. 281.
[10] Id., L’imperialismo e la scissione del socialismo [ottobre 1916], in Id., op. cit., p. 286.
[11] Ivi, p. 294.
[12] Id., L’estremismo malattia infantile del comunismo [aprile-maggio 1920], in op. cit. p. 437.
[13] Id., L’imperialismo e la scissione …., op. cit., p. 288.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 289.

26/04/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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