Tra il 7 e il 9 novembre: il breve novecento dei comunisti

Dopo la caduta del muro di Berlino in Occidente si è tornati di molti decenni indietro sui diritti e sulle conquiste delle classi subalterne contro lo sfruttamento.


Tra il 7 e il  9 novembre: il breve novecento dei comunisti

In questi giorni le celebrazioni riguardanti il 9 novembre 1989 oscillano tra la stucchevole retorica sulla fine del “comunismo” e la mistificazione sui nuovi scenari di libertà che si sarebbero sviluppati negli ultimi trent’anni. A fronte dei revisionismi che sempre più puntano a equiparare regimi contrapposti come quelli nazifascisti e quelli del “socialismo reale”, nonché delle “narrazioni” revisioniste che presentano un mondo edulcorato e nascondono il riemergere dello sfruttamento selvaggio del capitalismo incontrollato, ritengo sia dirimente avviare una battaglia politica delle idee per il necessario ripristino di una corretta memoria storica sull’effettivo ruolo dei comunisti nel Novecento, sottolineando l’abissale distanza con il fascismo e il nazismo. Per questo propongo un breve percorso tra due date fondamentali del Novecento: il 7 novembre (25 Ottobre) 1917 e il 9 novembre 1989.

Il 7 novembre cadeva il centoduesimo anniversario della Rivoluzione d'Ottobre: il partito bolscevico (comunista) guidato da Lenin ruppe gli indugi e, in concomitanza col Congresso dei Soviet, esautorò un ormai delegittimato Kerensky, occupando la sede del governo provvisorio, già  dimora secolare degli zar: il Palazzo d'Inverno. Si aprì così un periodo di potere bipolare con l’Assemblea Costituente e i Soviet, che fu risolto con lo scioglimento della prima in quanto costantemente contrapposta ai provvedimenti emanati dal Soviet di Pietroburgo, non riconoscendone l’autorità: si andava prefigurando così una contrapposizione, un dualismo di potere, tra un’istituzione interclassista, sostanzialmente anticomunista, e una nuova forma istituzionale, consiliare, il Congresso dei Soviet, egemonizzato dai bolscevichi.

Il nodo principale era la questione della guerra: il consenso ai bolscevichi era cresciuto nel corso dell’anno, nei mesi successivi alla Rivoluzione di Febbraio, per il programma elaborato da Lenin nelle Tesi di Aprile e presentato al rientro dall’esilio svizzero, dopo la leggendaria traversata della Germania attraverso i fronti di guerra col treno blindato. Le Tesi di Aprile prevedevano la fine della guerra, o quantomeno l’uscita della Russia dal conflitto (che avrebbe spezzato il fronte bellico degli imperialismi in guerra), la distribuzione delle terre ai contadini, l’assunzione del potere da parte dei soviet (i consigli rivoluzionari degli operai, dei contadini, dei soldati). I primi due in particolare furono recepiti dai settori sociali proletari, e divennero parole d’ordine condivise da larghi strati delle masse popolari: quando i bolscevichi (i più organizzati politicamente e militarmente nella variegata galassia socialista russa, e con una coerenza ideologica scolpita dal pensiero di Lenin stesso) avviarono la presa dei palazzi del potere, una moltitudine di soldati, contadini, operai, proletari in massa affiancarono i militanti bolscevichi e trasformarono un’insurrezione di popolo in una rivoluzione di classe.

La data dell’inizio della Rivoluzione d’Ottobre rappresenta simbolicamente l’inizio del “secolo breve”, come fu definito il Novecento dallo storico marxista inglese Hobsbawm: quell’evento glorioso segnò la rottura degli schieramenti imperialisti nella Grande Guerra: il fronte orientale avviato nell’agosto 1914 con l’attacco russo alla Prussia aveva prodotto, sommati a quelli del fronte occidentale, milioni di morti: a questo si aggiunsero la devastazione di intere popolazioni, l’impoverimento delle economie e lo sconvolgimento delle società dei paesi impegnati nel conflitto.

La Rivoluzione russa suscitò da subito entusiasmi e speranze, da parte degli sfruttati, e odio e rancore da parte delle classi dominanti, che videro incrinare il proprio predominio. La conseguenza fu una nuova guerra dei paesi imperialisti che non dettero tregua alla Russia scatenando un’aggressione militare imperialista straniera e una guerra civile controrivoluzionaria e filo-zarista interna. Il trionfo dello schieramento rivoluzionario fu ottenuto a costo di sacrifici enormi e con provvedimenti draconiani come il cosiddetto “comunismo di guerra” (espropri forzati dei beni alimentari per sopravvivere nella guerra civile) e segnò profondamente il processo di transizione.

La lotta per la successione a Lenin divenne un durissimo conflitto tra componenti rivoluzionarie con prospettive diverse: da una parte il processo aperto e permanente del rivoluzionamento del sistema capitalistico, alimentato dall’accelerazione industriale, e dall’altra la difesa ad oltranza della rottura dell’Ottobre e il consolidamento della costruzione del “socialismo in un solo paese”. Non è il caso di discutere la questione teorica in questa sede, ma piuttosto confrontare le conseguenze che avrebbero avuto entrambe: le sconfitte del biennio rosso europeo (in Germania, in Baviera, in Ungheria), la mancanza di respiro del biennio rosso italiano (segnato dalla debolezza politica del PSI, che provocò la svolta reazionaria fascista) rivelano che la via del rivoluzionamento continuo predicato da Trockij non avrebbe avuto prospettive; la scelta della difesa ad oltranza dell’Unione Sovietica, d’altra parte, provocò una sclerotizzazione del processo di trasformazione, di transizione al socialismo, scambiando la dittatura di classe del proletariato con il potere del Partito Comunista come unica difesa delle rivoluzione.

La difesa dalle aggressioni esterne e dai presunti (alcuni reali, altri inventati) nemici interni ha provocato un blocco nel processo di transizione, nella dialettica politico-sociale. Il tentativo di una nuova politica economica lanciata da Lenin (la NEP) fu sostituita da una economia pianificata, gestita con piglio autoritario, i cui effetti sul piano economico-produttivo furono eccellenti: permisero di ribaltare la situazione generata dall’aggressione nazifascista nel 1943 con la battaglia di Stalingrado, mentre nel dopoguerra permisero di sviluppare programmi di ricerca scientifico-tecnologici che fecero raggiungere all’URSS il primato in vari settori, primo tra tutti quello aerospaziale; sul piano istituzionale e culturale, invece, l’ideologia sterilizzò le possibilità di rinnovamento artistico, letterario, filosofico, politico impedendo rinnovamento e trasformazione, arenando il sistema in un conservatorismo immobilistico che ha finito per bloccare ogni sviluppo e cambiamento.

Durante il XX secolo, segnato da momenti eroici e dalle tensioni della “guerra fredda”, l’Unione Sovietica e il blocco socialista dell’Est hanno fornito una speranza, un modello, una prospettiva storica di liberazione dallo sfruttamento per milioni di persone e dal giogo del colonialismo e dell’imperialismo per molteplici popoli, sia in Europa che negli altri continenti. Dalla fine degli anni Sessanta, il ciclo espansivo dell’economia e della società sovietica terminò: la lunga stagnazione degli anni Settanta e Ottanta culminò nella dissoluzione del blocco socialista, che si manifestò platealmente il 9 novembre 1989 con l’apertura dei confini tra Berlino Est e Ovest, a cui seguì nelle settimane successive l’abbattimento del Muro, e terminò a fine dicembre 1991, anno di torbidi drammi che provocò lo scioglimento dell’URSS.

Tra questi due poli del Novecento ci sta il primo tentativo di transizione al socialismo della Storia, bloccato dagli attacchi politico-militari dell’imperialismo, ma anche ingabbiato nelle costrizioni sempre più intorpidite di un sistema che si è concentrato sempre più nella difesa della propria autoconservazione, fino alla resa. L’esperimento di società alternativo al modello capitalistico-parlamentare franò, per una progressiva incapacità di autoriformarsi, a causa delle continue aggressioni dell’imperialismo (statunitense, euro-atlantico, NATO), ma anche del paranoico eccesso di controllo poliziesco suscitato dai sospetti su presunti o reali nemici controrivoluzionari all’interno. Il sistema a economia pianificata governato dai soviet non resse all’accerchiamento politico-militare imposto dagli USA con una folle corsa al riarmo missilistico che aveva portato il mondo sull’orlo di una guerra termonucleare in più occasioni (la peggiore fu quella di Cuba nel 1962).

Anche quel Muro, costruito nel 1961 per dividere in due la città di Berlino, celava un’implicita ammissione di debolezza: le promesse di eguaglianza ed emancipazione nel sistema del “socialismo reale” persero sostenitori e arretravano, incapaci come furono di sostenere il confronto con le illusioni di libertà e felicità suscitate dal prorompente sviluppo consumistico dell’Ovest. Negli ultimi anni del secolo, si ripristinò il predominio delle potenze euro-atlantiche guidate dagli Stati Uniti nella NATO.

Tuttavia, dopo l’89, i muri anziché sparire si sono moltiplicati: l’Unione Sovietica e il blocco socialista dell’Europa orientale, con tutti i limiti strutturali e politico-culturali, aveva avuto comunque arginato gli spiriti selvaggi del neo-liberismo e del neo-imperialismo, riemerso prepotentemente con il dissolvimento del mondo socialista dell’Est europeo. Negli ultimi anni abbiamo assistito al proliferare di Muri che segregano interi popoli (quello tra Israele e Palestina, tra Messico e USA, in Libia, tra UE e Africa, tra Siria e Turchia … ), mentre ai flussi finanziari è concessa la massima libertà di movimento: come predatori, i capitali manovrati da una élite della borghesia che domina gli scenari mondiali, vengono scagliati su popoli e regioni, ne spolpano le risorse naturali e umane se ne vanno lasciando solo le carcasse di società annientate.

Il “crollo” del Muro di Berlino e la fine dell’URSS, anziché portare pace e prosperità al mondo (secondo la vulgata liberal-liberista), hanno provocato disparità economico-sociale, fragilità politico-istituzionale della democrazia, diffusione di conflitti endemici, aumentando l’instabilità geo-politica e gli scenari bellici nell’intero pianeta. Non si tratta di coltivare nostalgie per il “socialismo reale”, ma di denunciare che il mondo liberal-liberista sorto dalla fine del mondo socialista non può vantare un miglioramento: in pochi anni, si è tornati di molti decenni indietro sui diritti e sulle conquiste delle classi subalterne contro lo sfruttamento. L’imposizione dei principi del “capitalismo reale”, ricalcati sulle dinamiche della concorrenza che punta a ingoiare ogni regione del mondo nella rete della globalizzazione, hanno imposto il modello liberaldemocratico, basato sul libero mercato (liberismo), sulla proprietà privata, sullo sfruttamento “libero” del lavoro e dell’ambiente, nonché sulle divisioni tra dominanti e dominati e sulla prevalenza dei diritti civili su quelli sociali. In breve: libertà contro eguaglianza.

Tuttavia, dopo decenni di tale indottrinamento, alla svolta del secolo quel “mondo libero” risulta in piena crisi: concorrenza, libero mercato e globalizzazione hanno generato una diffusa e profonda diseguaglianza economico-sociale, precarietà sociale ed esistenziale nelle nuove generazioni, continue guerre contro popoli che non si assoggettano ai diktat imperialisti in regioni strategiche per le risorse energetiche (come il Medio Oriente).

La retorica ideologica sulla superiorità del sistema liberale e iper-liberista trionfante ha perduto credibilità, mentre emergono nuovi poli continentali che aspirano a scalare la gerarchia del pianeta: altri sistemi economico-sociali, soprattutto in Asia, si stanno rivelando più efficienti a gestire le dinamiche della globalizzazione, nonostante le contraddizioni sociali e sistemiche che in quei paesi, come la Cina, si sono manifestate in modo sempre più stridente. Se questi paesi possano rappresentare un’alternativa al sistema capitalistico puro euro-atlantico occidentale, ormai in crisi sistemica da decenni, lo potremo comprendere solo osservandone le dinamiche di sviluppo e di capacità di superare le contraddizioni attuali.

17/11/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Giovanni Bruno

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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