Progressività delle tassazioni

Cancellazione della Fornero, progressività delle tassazioni, aumento delle aliquote fiscali, riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e reddito minimo. Ecco il programma minimo per contrapporsi al governo Draghi.


Progressività delle tassazioni

All’indomani dello sciopero generale del 16 dicembre sembrerebbe tornato il sereno all’interno del sindacato cosiddetto rappresentativo tanto da siglare il primo contratto nazionale della Pubblica amministrazione per non parlare poi del tavolo con il governo convocato sulle pensioni. Al di là delle polemiche sulla natura dello sciopero, sui suoi effettivi obiettivi e sul ritardo nella indizione, sarebbe doveroso elaborare un programma minimo, che tanto minimo alla luce dei fatti non sarebbe, di rivendicazioni da spendere nell’attuale contesto politico, rivendicazioni non certo rivoluzionarie ma capaci di incrinare i rapporti di forza esistenti restituendo forza alle istanze delle classi sociali subalterne.

Pochi giorni fa è stata pubblicata una proiezione sull’età pensionabile dei neoassunti. Chi oggi entra nel mondo del lavoro non ne uscirà prima di 71 anni di età e con un assegno previdenziale pari alla metà dell’ultimo salario percepito. I cinquantenni di oggi, poco più fortunati, andranno in pensione a 67 o 68 anni di età e presumibilmente con un assegno previdenziale di poco superiore al 60% dell’ultima busta paga.

Diventa prioritario l’abbassamento dell’età pensionabile, e non solo nell’ottica di favorire l’occupazione delle giovani generazioni, ma ancora più urgente dovrebbe essere la revisione del calcolo degli assegni senza il quale, tra 20/30 anni, avremo migliaia di pensionati con redditi da fame, costringendo lo Stato a intervenire con misure di sostegno al reddito.

Nessuno parla da anni di ripristino del sistema retributivo per calcolare la pensione in base ai redditi percepiti negli ultimi 5 o 10 anni di vita lavorativa, argomento tabù perché determinerebbe l’aumento della spesa previdenziale che per le direttive Ue deve essere tenuta invece sotto controllo e progressivamente ridotta.

La contrapposizione fittizia tra vecchi e giovani è stata strumentale per distruggere il sistema retributivo, pur sapendo che anni di precariato e contributi insufficienti avrebbero sancito assegni previdenziali da fame. Dopo anni di occupazioni instabili, vuoti contributivi e lavoro nero, la vecchiaia di tanti/e è destinata a crescenti difficoltà, vissuta come sarà in condizioni economiche insicure e con bassi redditi.

In tutti i contratti nazionali siglati si va rafforzando il peso di sanità e previdenza integrativa: se vuoi una pensione dignitosa dovrai pagartela da solo rinunciando al trattamento di fine rapporto (Tfr). E in questa ottica, da anni ormai, si stanno muovendo i sindacati, i maggiori sponsor della previdenza integrativa. Analogo discorso vale per la sanità, visto che quella pubblica è ormai al collasso e non certo per responsabilità dei contagi (fin troppo facile prendersela con i non vaccinati quando le liste di attesa per operazioni e visite sono interminabili, mentre le visite a pagamento hanno tempi sempre celeri al contrario delle prestazioni mutualizzate!). Tanto vale, ci dicono con l’assenso dei sindacati confederali, potenziare la sanità integrativa attraverso il welfare aziendale costruito ad arte tanto per favorire la sanità privata quanto depotenziare l’universalità del diritto alla salute.

Sanità e previdenza integrativa sono baluardi dell’azione sindacale della Cgil, difficile pensare a un’inversione di rotta. Analogo discorso vale per gli enti bilaterali e per tutti gli ambiti nei quali associazioni datoriali e sindacati rappresentativi alimentano la pratica della concertazione e della cosiddetta riduzione del danno.

Dopo anni di subalternità politica e culturale le giovani generazioni hanno introiettato il concetto della precarietà. Per chi attende anni prima di un impiego fisso l’idea di rinunciare al tfr per costruirsi un supporto alla pensione pubblica è una sorta di compromesso accettabile; la riduzione dell’età lavorativa viene vista come un’autentica minaccia perché, riducendo gli anni di contributi, anche l’assegno previdenziale verrebbe alleggerito. Verrebbe spontaneo concludere che si lavora fino a 70 anni di età per non finire prima chiusi in casa a contare gli spiccioli dell’assegno previdenziale reclamando l’aiuto economico dei figli (fino a oggi i pensionati hanno rappresentato una sorta di welfare familiare per i figli precari o senza lavoro).

E il medesimo ragionamento riguarda anche il welfare aziendale: rinunciare a parti di salario per usufruire di servizi sanitari è diventata una sorta di garanzia (per certi sindacalisti addirittura una conquista) a fronte delle inefficienze del sistema sanitario pubblico. Nell’arco di pochi anni hanno non solo distrutto quanto restava della coscienza di classe ma anche fatto sì che si affermassero dentro la classe lavoratrice concetti assai pericolosi che in sostanza portano acqua solo alla distruzione del welfare universale e, crediamo, perfino del contratto nazionale.

Prendiamo per esempio il caso della performance, da anni strumento di divisione tra i lavoratori della Pubblica amministrazione, inefficace anche ai fini di accrescere la produttività ma utile strumento ricattatorio per impedire elementi di conflittualità nei luoghi di lavoro. Nei giorni scorsi, su alcuni giornali, sono usciti dati allarmanti sull’aumento esponenziale dei licenziamenti legati a provvedimenti disciplinari. La cieca obbedienza al datore di lavoro tra rispetto dei codici etici e comportamentali e obbligo di fedeltà sta producendo danni incalcolabili alle rivendicazioni economiche e decretato l’espulsione dai cicli produttivi di tanti delegati e lavoratori combattivi. Non esistono solo licenziamenti collettivi o delocalizzazioni produttive. L’accanita lotta dei padroni contro i lavoratori ha alimentato la sorveglianza e la repressione costruendo meccanismi punitivi sempre più efferati.

Eliminare l’obbligo di fedeltà aziendale avrebbe un impatto positivo sulla ripresa della conflittualità; non cambierebbe la natura subordinata del rapporto lavorativo ma andrebbe a incidere sui rapporti di forza e sul potere contrattuale.

Veniamo infine alla questione delle aliquote fiscali la cui progressività nei 40 anni di neoliberismo è stata ridotta ai minimi termini affermando al contempo l’idea di una tassazione piatta, “flat”. Non è casuale che dal 1910 al 1980 la ricchezza posseduta dal 10% della popolazione ricca sia diminuita in maniera accentuata nei paesi a capitalismo avanzato salvo poi tornare a crescere fino ai nostri giorni. Anche senza essere raffinati storici o cultori del pensiero politico sappiamo che tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta sono arrivati al potere i neoliberisti che hanno non solo abbattuto le aliquote fiscali ma anche gli strumenti a tutela del potere di acquisto (scala mobile) ridimensionando il diritto di sciopero nella mera ottica di indebolimento del sindacato. Il tramonto del neokeynesismo, privatizzazioni e delocalizzazioni hanno alimentato le disuguaglianze sociali ed economiche. Le classi subalterne, perfino i ceti medi, vivono da lustri un crescente impoverimento. Quando si parla, a destra e non solo, di flat tax, intendiamo aliquote molto basse applicate ai redditi elevati, non parliamo solo di tassa piatta ma di un’irrisoria tassazione che promette in sostanza maggiore reddito per i ceti privilegiati a discapito del bilancio statale. La riduzione delle tasse ha immediate ripercussioni sulla sanità e sull’istruzione pubblica, sul welfare universale in tutte le sue accezioni e sulle pensioni. L’idea che riducendo le tassazioni potranno ricevere vantaggi i contribuenti è il prodotto della egemonia culturale e politica delle classi dominanti che mirano essenzialmente a distruggere ogni reale controllo e indirizzo dello stato sull’economia. Benefici ancora maggiori sarebbero possibili ridefinendo le aliquote dell’imposta sul reddito. non a caso le aliquote un tempo esistenti erano numericamente maggiori perché partivano da una idea di tassazione progressiva per favorire la pur parziale ridistribuzione delle ricchezze, con un’aliquota molto inferiore dell’attuale per i redditi bassi e molto superiore per quelli alti. Una forbice che si è ridotta ai minimi termini.

Non siamo in presenza di richieste atte a costruire un sistema fiscale semplificato. Si mira direttamente alla riduzione delle tasse per i redditi elevati giudicando insufficienti i sistemi fino a ora adottati tra detrazioni e deduzioni.

Se si vogliono ridurre le tasse i soldi andranno trovati dal depotenziamento dello Stato e del sistema pubblico, con danni enormi per i più poveri: chi guadagna oltre 100mila euro all’anno può sempre ricorrere a sanità e istruzione privata al contrario delle classi medie e di quelle basse.

Se invece vogliamo salvaguardare i redditi medio bassi, occorre accrescere le aliquote fiscali e distribuire le ricchezze per almeno interrompere il drenaggio di soldi a favore del 10/15% della popolazione più ricca.

Non pensiamo che questi obiettivi, al pari di un reddito minimo che metterebbe in crisi il sistema degli appalti e dei subappalti visto che i contratti in essi applicati prevedono paghe orarie irrisorie, siano rivoluzionari ma potrebbero almeno rappresentare istanze minime di contrasto al governo Draghi. Quali sono allora gli ostacoli alla costruzione di una vertenza complessiva attorno a fisco, previdenza, sanità e lavoro? Le risposte potrebbero essere molteplici, non ultima la partecipazione della Cgil, dell’associazionismo e dei partiti di centrosinistra a un sistema di potere che ha introiettato il verbo neoliberista distruggendo ogni rivendicazione sociale forte come la redistribuzione delle ricchezze. Il sistema retributivo per calcolare le pensioni metterebbe in seria crisi i fondi previdenziali contrattuali delegittimando l’operato di Cgil, Cisl e Uil. Quando poi si parla di inserire nella contrattazione nazionale un reddito orario minimo si dimentica la reale natura di alcuni contratti nazionali che trovano applicazione nel terziario, nel socio sanitario e negli appalti; se oggi dovessimo stabilire una paga oraria minima nelle cooperative sociali e nel multiservizi i contratti dovrebbero essere riscritti mettendo in crisi la privatizzazione dei servizi, il contenimento della spesa pubblica e le stesse regole che disciplinano appalti e subappalti

Lo stesso proliferare del numero dei contratti è stato funzionale ai processi di esternalizzazione dei servizi, inutile prendersela con gli accordi pirata siglati dai sindacati autonomi perché la debacle salariale è avvenuta da tempo e con gli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro siglati dai sindacati più rappresentativi. Queste poche e confuse considerazioni dovrebbero indurci a cambiare radicalmente il nostro modo di pensare e di leggere la realtà: se vogliamo mettere in crisi i processi in atto di ristrutturazione del capitale non possiamo che farci promotori di un programma minimo sfidando su determinate tematiche il mondo sindacale. Questo dovrebbe essere il ruolo dei comunisti e di quanti vogliono cambiare lo stato delle cose presenti senza nascondersi dietro a vecchie letture e a tatticismi che ormai fanno a pugni con i reali rapporti di forza tra capitale e lavoro.

31/12/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Federico Giusti

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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