L’Università pubblica italiana: 50 anni di storia del suo smantellamento neoliberista*

 In questi ultimi decenni la funzione sociale e politica dell’Università pubblica è stata radicalmente trasformata. Vediamo come


L’Università pubblica italiana: 50 anni di storia del suo smantellamento neoliberista*

L’ANDU

Da svariati decenni faccio parte dell’Associazione nazionale docenti universitari, che è stata fondata nel 1998, ma che di fatto esisteva già nel 1996 e nella quale confluirono la maggior parte dei precari che, con contratti diversi, lavoravano negli atenei italiani. L’ANDU ancora oggi continua a lottare per la difesa dell’Università pubblica e democratica, del tutto autonoma dagli altri poteri dello Stato, come recita il suo Statuto, anche se la sua azione è fortemente ostacolata dalla scarsa tendenza alla sindacalizzazione dei docenti universitari, a differenza di altri paesi come, per esempio, il Regno Unito dove è attiva e forte la University and College Union (UCU).

La trasformazione dell’Università

Prima di procedere a descrivere il processo di trasformazione subito dal sistema dell'educazione universitaria e della ricerca, sarà bene ribadire che si tratta di fenomeno universale, che sta riguardando le istituzioni universitarie sia del mondo a capitalismo avanzato sia dei cosiddetti paesi del Sud Globale.

Per ricostruire brevemente questo processo prendo le mosse da un presupposto teorico ovvio e ampiamente condiviso dai cultori delle scienze sociali: le trasformazioni della forma e dell'organizzazione sociale complessiva generano cambiamenti più o meno profondi nelle diverse sfere e nelle varie istituzioni, che interagiscono in un certo contesto storico-sociale. Rifacendomi a questo principio credo dunque che, se vogliamo capire cosa sta succedendo non solo nell'Università italiana ma anche in quella di tutti gli altri paesi, che non possono sottrarsi alle pressanti indicazioni della Banca Mondiale, dobbiamo in primo luogo chiederci, senza la pretesa di essere esaustivi, in quale contesto storico è emersa la crisi sistemica capitalistica, a cui in prima battuta si è risposto con l’ampiamento del mercato, in cui sono stati inseriti servizi – come l’educazione - prima elargiti dallo Stato.

Il collasso dei paesi socialisti europei, i quali - dopo decenni di propaganda distruttiva e denigratoria - dissolvendosi come neve al sole, ha dato un contributo importante a questi cambiamenti, giacché essi non hanno potuto svolgere più la funzione di modello sociale alternativo, cui - nonostante i loro difetti - i lavoratori dei paesi capitalisti potevano ispirarsi per rivendicare diritti e miglioramenti delle loro condizioni sociali.

Questo tragico evento ha significato il passaggio a un capitalismo selvaggio che ha determinato la morte di circa 18 milioni di persone nel est europeo (12 milioni nell’attuale Russia) non più sostenuti dallo Stato, le cui risorse prima pubbliche sono state accaparrate dall’ex burocrazia sovietica trasformatasi in una vorace borghesia.

Alla base del processo di trasformazione dell’Università sta la politica neoliberale (laissez faire, laissez aller) portata avanti dalla Banca Mondiale, la quale facendo leva sullo strumento dei prestiti ha favorito certi cambiamenti giudicati opportuni dal punto di vista dei suoi funzionari ed intellettuali. Ovviamente la Banca Mondiale - basterebbe citare i nomi dei suoi funzionari [1] - rappresenta gli interessi dell'attuale capitalismo transnazionale, dominato dagli Stati Uniti, che però oggi sembra chiaro a molti si stanno avviando verso un declino irreversibile e danno segni di indebolimento a vantaggio di altri centri capitalistici come già scriveva Giovanni Arrighi (1996: 425-466).

Ricavo la convinzione che il processo di trasformazione dell'Università sia un fenomeno mondiale da una serie di documenti provenienti da vari paesi (Belgio, Francia, Gran Bretagna, Brasile etc.), oltre che da un ottimo lavoro intitolato The New Economic Global Order and its Effects on Higher Education Policies, scritto da Angela C. De Siqueira, presentato come dissertazione di dottorato all'Università dello Stato della Florida (College of Education) nel 2001.

Questo materiale mostra - cosa a prima vista stupefacente - come le varie riforme che in questi ultimi anni hanno sconvolto l'università italiana siano descritte, sollecitate utilizzando gli stessi principi, gli stessi slogan e le stesse considerazioni da un gruppo di intellettuali e specialisti, facenti capo alla Banca Mondiale e avendo avuto come laboratorio il Cile di Pinochet. Fino agli anni sessanta l'UNESCO, un'altra istituzione multilaterale, si è occupata in maniera particolare del problema educativo, avendo come punto di riferimento la Dichiarazione dei diritti dell'uomo (1948), e quindi muovendosi nella prospettiva dell'educazione come diritto inalienabile.

Per quanto riguarda la formazione e l'educazione il ritorno al liberalismo comporta una nuova concezione di queste ultime. Come è noto, soprattutto nei paesi più influenzati dalle idee della Rivoluzione francese e di J. J. Rousseau, l'educazione in generale e quella universitaria in particolare erano considerate un diritto dell'uomo e del cittadino, che lo Stato doveva garantire. In questi paesi, soprattutto europei, veniva stabilita anche una stretta relazione tra educazione e democrazia, nel senso che il cittadino poteva esercitare pienamente i suoi diritti politici solo se avesse avuto la possibilità di educarsi, di conoscere la storia, il funzionamento della vita sociale etc. Solo in questo modo poteva essere un agente politico consapevole, in grado di scegliere in maniera razionale e fondata.

Bisogna aggiungere, tuttavia, che molto spesso - anche in Italia - questi principi non si concretavano in pratiche effettive ed efficaci e restavano vuote parole. Ad esempio, in Europa solo uno scarso numero di giovani provenienti da famiglie operaie e contadine arrivavano a frequentare le Università, nella quale si formavano e si formano invece soprattutto i giovani appartenenti alla piccola e alla media borghesia. E ciò perché questi ultimi possono continuare a studiare senza aver bisogno di lavorare, ed inoltre hanno la preparazione culturale necessaria, derivata loro dalla tradizione familiare [2]. Inoltre, benché nel 1962 fu unificata la scuola media inferiore dagli 11 ai 14 anni, non si riuscì mai a realizzare una simile unificazione per la scuola superiore come proponeva nel 1972 il progetto di Marino Raichich, che avrebbe dovuto eliminare la divisione classista tra coloro che potevano continuare gli studi, frequentando l’università. e coloro che invece dovevano andare a lavorare.

Alla base dell'Università europea-continentale sta un'altra idea importante elaborata da Wilhelm von Humboldt (1767-1835), secondo la quale l'istituzione universitaria, deve per sua natura essere autonoma dal potere politico e per questo trovare risposta ai problemi generali della società. Come Rousseau, tuttavia egli era convinto che lo Stato deve promuovere l'educazione e lo sviluppo morale dei cittadini, organizzando le scuole e le Università, dove si insegna soprattutto ad apprendere (Geymonat, 1988: 22-23). Per Humboldt, che fu ministro per l'istruzione e il culto della Prussia e fondò l'Università di Berlino, le istituzioni universitarie devono essere al servizio della nazione e per questo non possono essere strettamente legate alle limitate e contingenti esigenze di una certa fase storica e sociale. Esse devono guardare al futuro della vita sociale e nazionale, mirare al possibile, al cambiamento e, nello stesso tempo, a ciò che resta valido nonostante la trasformazione storica. Egli sottolineava inoltre che nell'istituzione universitaria deve esservi una stretta connessione tra didattica e ricerca. Senza le innovazioni apportate dalla ricerca non può darsi una didattica aperta ai cambiamenti, alla critica dell'ordine esistente.

Bisogna segnalare, tuttavia, una sostanziale differenza tra le Università, ispirate al modello francese e tedesco e quelle invece sviluppatesi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Infatti, il modello anglosassone non prevede un forte legame tra Università e Stato, anche se da quest'ultimo tutte le Università, comprese quelle private, ricevono gran parte dei loro finanziamenti. In questi paesi le Università hanno sempre goduto di ampia autonomia, non essendo sottoposte ad alcuna forma di controllo ministeriale, ma nello stesso tempo hanno sempre subito l'influenza di quegli interessi privati, che le hanno sovvenzionate. Pertanto, ne consegue che questo tipo di istituzione universitaria, non improntata ad un modello generale e non istituita dallo Stato, è apprezzata dai teorici del neoliberalismo e dai fautori della trasformazione dell'Università.

In particolare, bisogna aggiungere che i poteri economici hanno sollecitato - anche da noi - la trasformazione dell'Università e/o la creazione di istituzioni terziarie professionalizzanti, al cui modello la prima dovrebbe ispirarsi. Queste ultime sono presenti in altri paesi in varie forme; appaiono dotate di una grande flessibilità, sono in grado di soddisfare i bisogni della società e dell'economia, e sono capaci di preparare i giovani alle nuove professioni tecniche, manageriali etc. In queste ultime, la ricerca è assente o ha un ruolo secondario, i corsi sono brevi, vi sono scarse attrezzature, ma garantiscono agli organizzatori consistenti profitti. È interessante notare che l'Associazione Treellle, di cui è oggi presidente Attilio Oliva (prima era stata diretta da Umberto Agnelli della FIAT), nella pubblicazione già menzionata, chiama i poteri economici con un termine neutro stakeholders (portatori di interessi) ed attribuisce loro anche un ruolo nella governance [3] delle Università (2003: 12, 48). Inoltre, essa individua una serie di nuove missioni per l'Università, la quale oggi non avrebbe più il monopolio della ricerca. Tali nuovi compiti, dettati dall'esigenza di trovare l'equilibrio tra l'accrescimento disinteressato della conoscenza e il suo uso a fini pratici, riguardano la diffusione della cultura scientifica, la valorizzazione del territorio etc. Ma l'Università sarebbe anche chiamata a far sorgere nuove imprese, a favorire il trasferimento tecnologico verso di esse, con le quali infine dovrebbe stabilire relazioni di "paternariato" (2003: 19-20).

Purtroppo questo processo di trasformazione è già molto avanzato. In molti paesi importanti esponenti delle imprese capitalistiche o loro sodali siedono nei consigli di amministrazione delle Università, indirizzandone la ricerca e l'insegnamento.

La presenza di più modelli universitari (franco-tedesco e anglosassone) è molto importante, anche perché le grandi potenze coloniali e neocoloniali hanno importato nei loro domini diretti e indiretti il modello metropolitano. Per questa ragione, ad esempio, in Africa le istituzioni universitarie sono differenti a seconda del paese: il modello anglosassone è applicato nei paesi ex-colonie della Gran Bretagna, quello francese in quelli prima dominati dalla Francia.

A questo punto penso risulti abbastanza chiaro che, se il radicale cambiamento prodottosi in questi ultimi decenni significa - come si è visto - che l'Università deve rispondere con le sue attività di ricerca e di insegnamento alle esigenze immediate del sistema economico vigente e dei suoi gruppi dominanti, ciò implica inevitabilmente l'alterazione della sua natura e lo snaturamento della sua funzione, così come erano state definite in precedenza dalle correnti di pensiero su menzionate. Naturalmente ciò vale soprattutto per quei paesi che avevano adottato, come l’Italia, il modello franco-tedesco di Università.

L’Università italiana e la storia del suo smantellamento

Facciamo un passo indietro nel tempo partendo da due considerazioni preliminari. Con il Decreto del Presidente della Repubblica dell’11 luglio 1980, n. 382 si affrontava il problema dei precari (16.000 posti per il ruolo dei ricercatori, oggi sono circa 70.000) [4] e si prevedeva la loro stabilizzazione previo giudizio di idoneità con l’articolo 57. Questa legge, i cui contenuti non furono del resto mai del tutto applicati, lasciava aperti vari problemi: manteneva intatta la gerarchia accademica, istituiva il ruolo subalterno dei ricercatori, cui attribuiva anche una funzione didattica che contraddittoriamente non veniva pienamente riconosciuta, non risolveva il problema dei concorsi universitari che di fatto sono stati e sono in Italia, e non solo, sempre il risultato della cooptazione personale. Ciò nonostante questa legge, partorita nella complessa situazione politica post 68 e criticata accesamente da molti che la definirono un’ope legis, consentì l’accesso ad un lavoro stabile a migliaia di giovani e nello stesso tempo aumentò il numero dei docenti universitari nella prospettiva della creazione di un’università di massa mai avvenuta.

Ci si può chiedere per quale ragione ci sono voluti tanti anni di lotte dei precari per raggiungere questo limitato obiettivo cancellato nella fase neoliberista che ha visto l’esplosione del numero dei precari nelle università e nei centri di ricerca. La risposta è abbastanza semplice e consiste nel constatare realisticamente che il docente universitario è un funzionario pubblico privilegiato, importantissimo per sviluppare e propagandare le ideologie dominanti, che può inoltre trasformarsi in uomo politico, spesso presentato per le sue competenze come neutrale e quindi un vero e proprio tecnocrate che esibisce le sue scelte come falsamente apolitiche e “oggettive”. In due parole costui è strettamente legato al potere politico, che ne ha assoluto bisogno per persistere e riprodursi immodificato. Per tanto, la classe dirigente non ha voluto alterare la gerarchia universitaria, mantenendo il controllo della docenza e della ricerca nelle mani di pochi e lasciando proliferare il personale instabile per questa ricattabile.

Dopo il Decreto legge del 1980 cosa è successo? Gli economisti eterodossi sostengono che già alla fine degli anni 60 (in Italia c’era stato il miracolo economico) il sistema capitalistico entra nella già menzionata profonda crisi sistemica che ha persistito con ondeggiamenti sino ad oggi solo aggravata dalla pandemia. Come si è detto, da essa ha cercato di risollevarsi con le politiche neoliberiste cancellando tutte le conquiste dei lavoratori ottenute soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato nel secondo dopoguerra, e coinvolgendo anche il sistema educativo nel suo complesso, che ha subito varie controriforme e enormi tagli. Gli ultimi governi hanno fatto molte promesse, mai realizzate, di ripristinare il cosiddetto Stato sociale ormai languente e estenuato.

In questa dura e asfissiante era covidica qualcuno ha scritto un sarcastico Elogio del covid (Barbieri 2020), nel quale auspicava che la nostra cialtrona classe dirigente, dinanzi al terribile disastro da lei stessa provocato con l’ormai dimenticata spending review, si sarebbe ravveduta ed avrebbe provveduto a riparare i danni, investendo risorse nel sistema sanitario e in quello dell’educazione strettamente connessi tra loro. Purtroppo un auspicio del tutto condivisibile ma a tutt’oggi inascoltato.

Come si è anticipato, il neoliberismo ha sferrato un attacco contro lo Stato sociale, contro l’immorale e improduttivo assistenzialismo, contro tutte le politiche di sostegno economico-sociale ai lavoratori, contro l’”assurda pretesa” di avere un lavoro stabile, finendo con lo smantellare anche l’educazione universitaria, la cui funzione, secondo la nostra Costituzione del 1948, è quella di incentivare l’ascesa sociale e di preparare gli individui alla vita sociale e politica. Questo colpo si è riversato anche sul sistema sanitario nella misura in cui è collegato al primo.

Il risultato è stato proprio lo snaturamento complessivo della funzione del sistema educativo, che del resto non era mai stata svolta pienamente; si pensi solo alla perenne inadeguatezza delle risorse per garantire il diritto allo studio.

Vediamo i passi più importanti di questo processo, che – come ho già detto – non ha riguardato solo l’Italia. La prima mossa in questa direzione è stata la mercificazione dell’istruzione e della formazione decisa, insieme a quella di altri servizi (comunicazione, trasporti, salute, cultura, turismo etc.), nel 1995 dal GATS (General Agreement on Trade in Services) (V. de Siqueira, 2004).

Sempre nella stessa prospettiva è andata la riduzione degli investimenti pubblici nell’istruzione [5], seguendo quella linea che già aveva indicato Adam Smith nella sua celebre opera (La ricchezza delle nazioni, 1776), come ci ricorda sarcasticamente Karl Marx: «Per impedire la completa atrofia della massa del popolo, derivante dalla divisione del lavoro [6], A. Smith raccomanda l’istruzione popolare statale, seppure a prudenti dosi omeopatiche» (v. Manacorda 1964). Ossia ridurre al minimo il percorso di formazione della maggioranza dei giovani, fornendo loro solo quelle nozioni indispensabili all’attività lavorativa da svolgere, piegando così il processo di acquisizione delle conoscenze alle esigenze del mercato del lavoro ed inevitabilmente privandolo della sua ricchezza. Ciò nonostante, sia per l’alta specializzazione ad essa inerente sia per le continue innovazioni tecnologiche l’industria capitalistica necessita di lavoratori versatili che ricevano un’istruzione nella tecnologia e nell’impiego pratico degli strumenti di produzione in scuole specifiche. Tale contraddizione si risolve col destinare a questa formazione solo un piccolo gruppo di giovani, i futuri tecnocrati, i quali si troveranno a dirigere una massa di lavoratori dequalificati, sempre più precari e ricattabili.

Da sottolineare che con queste decisioni si sono scaricati i costi dell’educazione sui lavoratori e le loro famiglie, risparmiando così sui servizi sociali e decurtando quello che viene chiamato salario indiretto.

Passando direttamente alla situazione italiana menziono alcuni dati che tracciano il quadro delle nostre università. In primo luogo, occorre sottolineare che la spesa pubblica per la ricerca è stata tagliata del 21% in dieci anni, dal 2007 al 2016; a questo taglio dal 2008 al 2014 si è accompagnato quello del 14% alle università statali, per un totale di circa 2 miliardi di euro. Pertanto, i fondi pubblici assegnati alla ricerca nel nostro paese sono scarsi, pari all'1,34% del Pil contro una media europea del 2%.
Inoltre, la crisi del 2008 combinata col taglio dei fondi pubblici, ha portato alla riduzione delle iscrizioni nelle università italiane, con una contrazione del 20,4% tra gli anni accademici 2003-2004 e 2014-2015. Paradossalmente questi sono intervenuti proprio nel momento in cui i ricercatori italiani hanno registrato un miglioramento della produzione scientifica.
La diminuzione delle risorse pubbliche ha colpito il tessuto economico italiano costituito per lo più da piccole imprese, che non svolgono attività di ricerca, e ha provocato un'emigrazione di circa 11.000 giovani studiosi e il blocco delle assunzioni dei docenti. Una significativa perdita che aggrava la già difficile situazione socio-economica del paese.

Riassumendo, nel giro di alcuni decenni, l’università italiana, che aveva già vari problemi, per la prima volta nella sua storia, è stata ridimensionata di circa un quinto. La riduzione è stata molto maggiore di quanto non sia avvenuto negli altri settori pubblici, mentre per esempio in Germania i fondi sono aumentati. Il fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle università statali è stato ridotto di oltre il 20% (circa 5 miliardi). Per ottenere l’abbassamento della spesa è stato diminuito il numero dei docenti (principale voce di costo delle università) stabilendo un lungo blocco del turnover, cioè del ricambio del personale andato in pensione. Abbiamo ora quasi quindicimila (e il personale tecnico-amministrativo si è pure notevolmente ridotto). Non ha più potuto avere accesso all’università una generazione di giovani ricercatori. La maggior parte si è dovuta accontentare di posizioni precarie, sottopagate e senza prospettive chiare di carriera in attesa di tempi migliori. Altri sono emigrati verso altri paesi, dove si sono inseriti nei loro ai sistemi universitari, cui abbiamo così donato il cosiddetto capitale umano altamente qualificato e formato a nostre spese.

Il taglio delle risorse pubbliche è stato accompagnato da un notevole aumento della tassazione studentesca, mentre la politica per il diritto allo studio (borse, alloggi, servizi) è insignificante né i fondi europei la faranno aumentare in maniera consistente.

In questo contesto le difficoltà economiche delle famiglie si sono fatte più difficili e hanno finito col non mandare all’università i propri figli. Anche le immatricolazioni, minori a quelle degli altri paesi europei, sono in calo di circa un quinto rispetto al passato.

Oggi gli iscritti sono 1.700.000 iscritti, dei quali sono una parte si laurea, con una perdita quest’anno di 9.500. Non si sono immatricolati all’università i diplomati degli istituti tecnici e professionali, provenienti da famiglie a basso reddito più modesto e dal Mezzogiorno.

Sono stati tagliati soprattutto gli insegnamenti di area umanistica, e si è dato vita a una netta suddivisione fra atenei di serie A nel Nord industrializzato e atenei di serie B nel Sud ulteriormente immiserito. In sostanza, i vari governi non hanno sostenuto la formazione superiore proprio nelle regioni del paese in cui ci sono meno studenti universitari, e il ruolo sociale delle università sarebbe più rilevante per il rilancio del territorio. Questa decisione politica è stata presa per favorire le strutture capitalistiche settentrionali, occultandola con un’ideologia positivistica fatta di indicatori ed algoritmi, e ispirata alla competizione e al merito (Viesti 2020) [7].

Parallelamente a questo processo si è realizzata anche la trasformazione in base alla quale le università non debbono più elargire conoscenze ma competenze, le quali per loro natura sarebbero misurabili e quindi permetterebbero di valutare la capacità di un certo individuo di svolgere una certa attività.

Come scrive Giorgio Israel (2016) l’introduzione di questa nozione sarebbe necessaria perché finora la conoscenza ha riempito la testa degli studenti solo di nozioni astratte senza tenere in vita il loro legame con la pratica. Naturalmente dai tempi di Socrate nessuno ha mai pensato di separare la teoria dalla pratica, dato che, in tutte le discipline sia umanistiche che scientifiche, conoscere un concetto significa essere capaci di utilizzarlo per risolvere problemi concreti anche complessi. Inoltre, la convinzione della misurabilità delle competenze, largamente sostenuta dai “riformatori” e tradotta nel sistema dei crediti, è priva di qualsiasi fondamento, giacché essa è smentita dalla variabilità individuale e non è mai stata individuata un’unità di misura oggettiva. Né è chiaro ai suoi fautori in cosa consista in sé la competenza giacché di essa si danno decine di definizioni. Oltre a ciò, trattandosi di processi eminentemente qualitativi e non quantitativi (come si vuole far credere), più che di misurazione si potrebbe parlare unicamente di “stima”, la quale inevitabilmente coincide con una valutazione dai caratteri soggettivi e assai variabili.

Tra le competenze, individuate dall’Unione Europea, che si dovrebbero acquisire attraverso lo studio universitario e che disvelano il loro carattere pragmatistico e aziendalistico, oltre che brillare per la loro vaghezza, genericità, arbitrarietà, ricordiamo: 1) professionalismo, inteso come capacità di proporre sfide e di mostrare fiducia in sé; 2) la capacità di programmare, che si concreterebbe nello spirito di iniziativa e nella flessibilità; 3) la capacità di entrare in relazione, ossia essere in grado di persuadere e di influenzare. Insomma, il sistema educativo dovrebbe sfornare tutti “piccoli imprenditori” capaci di autopromuoversi.

La nozione di competenza rimanda anche ad un altro aspetto delle riforme neoliberiste del sistema educativo, ossia alla famosa questione della relazione educazione-lavoro. Ora è importante sottolineare che vi sono vari modi di intendere tale rapporto; nella tradizione marxista tre sono i pilastri dello sviluppo onnilaterale dell’uomo: educazione – lavoro – attività fisica, i quali debbono essere sviluppati contemporaneamente e non per scopi a loro esterni, ma solo per dar corpo allo sviluppo di tutte le potenziali capacità dell’individuo.

Ben diversa è l’università che ci viene consegnata oggi dalle politiche neoliberiste e dalla crisi provocata dalla pandemia, indirizzata al perseguimento di fini ad essa esterni e funzionali agli interessi dei grandi gruppi, che necessitano di personale plasmato in maniera unilaterale per svolgere certe specifiche funzioni e di ricerche che indirizzino verso la produzione di oggetti vendibili sul mercato. E necessitano anche di forza-lavoro in formazione da inserire nei processi produttivi senza nessuna remunerazione con la scusa di elargire un servizio ai giovani, che dovranno trovare un’occupazione. Tuttavia, tutti questi vantaggi non sono sufficienti agli esponenti della Confindustria, i quali con l’accantonamento della ricerca di base e l’enfasi su quella applicata, la professionalizzazione dell’università, la presenza di privati nei consigli di amministrazione degli atenei, imposta dalla legge Gelmini nel 2010, hanno ottenuto così che la ricerca sia orientata a soddisfare le esigenze delle piccole e medie industrie tipiche del tessuto economico italiano. E ciò perché queste ultime non sono in grado di svilupparla e pertanto necessitano che le istituzioni pubbliche la facciano per loro.

È abbastanza agevole disvelare le motivazioni che stanno alla base dell’introduzione della nozione di competenze sviluppatasi in origine nel contesto aziendale. In primo luogo, nell’ambito dell’Unione europea, in cui capitali, merci e lavoro debbono liberamente circolare, è diventata urgente la standardizzazione di sistemi scolastici e universitari, in modo da uniformare i lavoratori alle esigenze del mercato del lavoro. In secondo luogo, tale impostazione è legata all’ideologia costruttivista affermatasi nel campo dell’istruzione e della pedagogia, che considera l’apprendimento solo un processo di adattamento all’ambiente in un’etica meramente utilitaristica.

Sono rimasta sorpresa nello scoprire che questo concetto è stato applicato per la prima volta durante la Seconda Guerra Mondiale, quando per esempio si tentava di misurare l’abilità di un pilota di un aereo militare in base ai bersagli effettivamente da lui colpiti, tenendo conto del numero di quelli che invece avrebbe dovuto colpire.

Dall’ambito militare la nozione di competenza è stata trasferita negli anni ’60 del Novecento in ambito aziendale e da qui successivamente applicata ai sistemi educativi; applicazione basata sulla falsa convinzione che si possa ridurre un processo complesso, come quello della formazione di un individuo, a elaborazioni astratte e con scarsissimi collegamenti con la realtà.

Tracciato questo deludente quadro vediamo le misure che sono state prese dal governo in carica per risollevare il sistema educativo e sanitario nazionale negli aspetti in cui quest’ultimo dipende dal primo, richiamandoci a un documento dell’Associazione nazionale docenti universitari.  

Poco o nulla nella Legge di bilancio 2021 c’è per il diritto allo studio, per i precari (probabilmente il 63% della forza-lavoro nelle università e negli enti di ricerca), per il reclutamento, per gli avanzamenti di carriera. Invece sono stati stanziati 84 milioni (+44%!) per le università private e 10 milioni per Invitalia, Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa di proprietà del MEF (Ministerio Economia e Finanza). Dei 500 milioni l’anno stanziati per università 20 milioni per 2021 e il 2022 saranno destinati alle imprese creative e in particolare allo sviluppo della relazione atenei/imprese. Non si prevede il rinnovo del contratto del personale tecnico-amministrativo.

Non è stata manifestata nessuna intenzione di abolire il numero chiuso nei corsi di Medicina e Chirurgia, di Scienze delle professioni sanitarie, Scienze della formazione primaria etc. e ciò nonostante l’Organizzazione mondiale della Sanità abbia segnalato che mancano all’Italia circa 50.000 medici e 50.000 infermieri, che ci avrebbero certo fatto comodo in questi mesi o meglio anni di pandemia. Dirò di più, nella lettera che accompagna la Legge di bilancio, si prefigurano già tagli di 300 milioni al sistema sanitario ormai completamente disastrato e privatizzato (per esempio 18 ospedali chiusi in Calabria! 12 nel Lazio!), giustificati dalla futura (?) digitalizzazione della Pubblica Amministrazione.

Inoltre, il simpatico Sig. Renzi, esponente del Partito democratico, è tornato su alcuni temi che gli sono assai cari: abolire il valore legale del titolo di studio, far scegliere il rettore dal Consiglio di amministrazione e non più farlo eleggere dalla comunità universitaria, sia pure in forma ridotta come avviene ora, sottrarre l’università dai vincoli della pubblica amministrazione restituendole autonomia e applicare il Job Act agli atenei, che rende più facili i licenziamenti. L’attacco all’università pubblica è perfettamente in linea con quello contro la scuola, in corso da anni, e ha il deliberato obiettivo di cancellare l’idea stessa di un’università di qualità, democratica, aperta a tutti e diffusa nel Paese.

Quanto al Recovery Plan (denaro messo a disposizione dall’Europa per fronteggiare la crisi pandemica) esso mette a disposizione oltre 8 miliardi per il capitolo “Dalla Ricerca all’impresa”, e solo 4,5 miliardi non strutturali per la ricerca di base.

Complessivamente il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, con il quale si distribuiscono i fondi disponibili molti dei quali a debito, investe 15 miliardi nel settore università e ricerca, nei processi di innovazione e trasferimento tecnologico; risorse insufficienti per un vero rilancio degli atenei e dei centri di ricerca in una paese che ha il numero di laureati tra i più bassi di quello degli altri soci europei; risorse che inoltre vengono stanziate accentuando la snaturamento della funzione sociale dell’Università pubblica ormai ridotta a fungere da agenzia per il mercato del lavoro. Inoltre, benché negli ultimi tempi il numero degli iscritti alle università sia lievemente cresciuto, il PNRR ha dimezzato i fondi previsti per il diritto allo studio e non ha ampliato il numero degli esenti dalle tasse universitarie.

Come si vede, nonostante la pandemia e tanta retorica, non si vuole cambiare rotta, anzi si intende persistere nelle stesse direttive economiche ed ideologiche adottate negli ultimi decenni da tutti governi, quale fosse il loro orientamento politico. Del resto, abbiamo potuto toccare con mano la sostanziale somiglianza tra le forze politiche italiane, verso le quali le masse popolari non nutrono più molta fiducia, quando si sono messe tutte insieme per dare vita all’attuale governo preseduto dall’ex banchiere Mario Draghi entrato in carica il 13 febbraio 2021 che persisterà nella politica di smantellamento del sistema universitario a meno che docenti e studenti non comincino a mobilitarsi.

Bibliografia

Arrighi G., Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, Milano 1996.

Associazione Treellle, Quaderno n. 3, Università italiana, università europea? Dati, proposte e questioni aperte, Settembre 2003.

Barbieri D., Elogio del Covid, in Pandemia del XXI secolo, a cura di A. Ciattini e M. A. Pirrone, PM Edizioni, Varazze 2020.

Bernardeschi, A., Un bilancio 2021 di assistenza alle imprese, https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/un-bilancio-2021-di-assistenza-alle-imprese

De Siqueira A.C., The New Economic Global Order and its Effects on Higher Education Policies, A Dissertation submitted to the Department of Educational Foundations and Policy Studies in partial fulfillment of the requirements for the degree of Doctor of Philosophy, The Florida State University, College of Education, Fall Semester 2001.

De Siqueira A. C., The regulation of education through the WTO/GATS, http://www.jceps.com/wp-content/uploads/PDFs/03-1-02.pdf, 2004.

Geymonat L., "Intreccio di temi eterogenei nel pensiero tedesco", in Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. IV, Garzanti, Milano 1988.

Hobsbawm E. J., Il secolo breve. 1914-1991: l'era dei grandi cambiamenti, Rizzoli, Milano 1995.

Israel G., “Un intervento nel dibattito sulle ‘competenze’”, http://www.gliscritti.it/blog/entry/3672, 2016.

Manacorda M. A., Il Marxismo e l’educazione (Testi e Documenti 1843- 1964), A. Armando, Roma 1964

Smith A., La ricchezza delle nazioni, vol. III°, Newton Compton Editori, Roma 1976 (ed. or. 1776). Viesti G., La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria, Laterza, Bari-Roma 2018.

Sitografia

https://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/ricerca_istituzioni/2019/03/20/ricerca-in-italia-tagliato-il-21-fondi-in-10-anni-_08cd8e77-7cb2-406d-ab2d-0a55f7007636.html. http://www.andu-universita.it/2021/01/06/15-scienziati/. https://www.today.it/attualita/recovery-plan-piano-amaldi-fondi-ricerca.htm)l

Note:

* L'articolo riprende una relazione svolta nell'ambito della tavola rotonda  su crisi, pandemia ed educazione dal titolo "Colóquio Internacional Marx e o Marxismo 2021. O futuro exterminado? Crise ecológica e reação anticapitalista" .  Questo evento è uno dei più importanti in Brasile sulla discussione marxista.

[1] Ricordo che i presidenti della Banca mondiale sono sempre scelti dagli Stati Uniti.

[2] Nel Quaderno n. 3 dell'Associazione Treelle (2003), espressione del mondo confindustriale, si legge che in Italia le tasse universitarie coprono meno del 15% dei costi, e che le Università per legge non possono far pagare agli studenti più del 20% del Fondo di finanziamento ordinario, ricevuto dal Ministero. Inoltre, secondo la stessa fonte a beneficiare della "quasi gratuità" dell'Università sono i ceti medi e medio-alti, mentre gli studenti di basso status socio-economico sono assai pochi in tutti i paesi dell'OCSE (Italia compresa) (2003: 50). Si tenga presente che dal 2009 le tasse universitarie sono aumentate di circa il 60% per compensare i tagli dei fondi.

[3] Come si vede l'inglese è d'obbligo.

[4] I dati attuali sui precari sono: 30.000 dottorandi, 22.000 tra assegnisti e ricercatori precari, 28.000 docenti a contratto, 47.000 docenti strutturati con una perdita di più di 10.000 posti negli ultimi decenni e senza nessuna previsione di recupero.

[5] In Italia è cominciata con l’art. 5 della legge 537/1993, che si fondata sull’autonomia universitaria che ha fatto di ogni università un ente indipendente dotato di propria personalità giuridica, che gode di un’autonomia normativa, finanziaria, didattica, di ricerca (legge 168/1989, art. 6).

[6] Tra lavoro intellettuale e manuale e tra le singole funzioni dell’operaio dell’industria.

[7] Dati precisi si ricavano dal RAPPORTO SULL’UNIVERSITÀ ITALIANA - 2008-2020

HTTPS://WWW.UNREST-NET.IT/RAPPORTO-SULLUNIVERSITA-ITALIANA/

 

04/09/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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