Dopo Vilnius una Nato sempre più aggressiva

Dal vertice Nato in Lituania emergono impegni a rafforzare il carattere aggressivo dell'Alleanza atlantica, a incrementare le spese militari, a convertire l'industria in direzione delle produzioni belliche, a prepararsi a uno scontro con la Cina. L'Unione Europea si conferma subalterna agli Usa.


Dopo Vilnius una Nato sempre più aggressiva

Quali elementi sono emersi dall'ultimo vertice Nato tenutosi nella capitale lettone di Vilnius il 11 e 12 luglio? Già le presenze sono un fatto indicativo. Oltre ai rappresentanti dei 31 paesi membri dell'Alleanza erano presenti quelli di Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Giappone e Ucraina, a conferma della volontà di rafforzare la collaborazione militare con quei paesi al fine di costruire un blocco attorno al paese guida, gli Usa, a tutela dei suoi interessi e in funzione anticinese. Quindi il nemico numero uno è il consueto, anche se nel comunicato finale dei capi di stato, a cui si “associa” il rappresentante della Nato, si continua a dire che “la Federazione Russa è la minaccia più significativa e diretta alla sicurezza degli alleati e alla pace e alla stabilità nell'area euro-atlantica”.

Il fronte russo

Iniziamo da quest'ultimo fronte. 

Il sostegno di Biden all’Ucraina non è certo per solidarietà verso questo paese, che infatti viene martoriato pesantemente dalla guerra, ma perché esso può rappresentare il mezzo per bloccare i corridoi energetici russi e determinare una frattura netta fra l'Europa e la Russia. Angela Merkel aveva avvisato nel 2008 che l’ingresso dell’Ucraina nella Nato sarebbe stata una sorta di guerra dichiarata alla Russia. Recentemente ella ha ammesso anche che i trattati di Minsk sono stati solo un modo per prendere tempo e armare l'Ucraina. 

Il vertice avrebbe dovuto certificare il successo della controffensiva di Zelensky ma le cose non sono andate come le potenze occidentali speravano. Dal 20 al 30 per cento del potenziale bellico Nato in dotazione all'Ucraina si è infranto nel corso della controffensiva contro i dispositivi di difesa russi (secondo fonti russe più di 26 mila soldati, 3 mila carri armati, 21 aerei, 5 elicotteri), i guadagni territoriali sono irrisori e tutt'altro che stabilizzati, non si è riusciti a capitalizzare neppure il golpe della Wagner che pur denota contraddizioni all'interno dei comandi militari russi, mentre in altre parti del fronte è la Russia che contrattacca e guadagna posizioni. Sugli armamenti parrebbe che l'Occidente sia alla canna del gas se lo stesso Biden ha ammesso che la fornitura di munizioni a grappolo si motiva con l'esaurimento delle scorte di altri armamenti. Naturalmente, mentre si era accusata la Russia di crimini di guerra per il presunto e non provato uso di tali ordigni, ora si dice che se li usa il paese invaso non è un crimine, per le ragioni superiori degli interessi ucraini (leggasi atlantici). Parrebbe che il dato di fatto di un esito fin qui non positivo della controffensiva sia stato in qualche modo considerato, anche dovendo tenere di conto delle imminenti elezioni presidenziali Usa, se, nonostante lo scalpitio di Zelensky della vigilia, che invocava tempi certi per l’ingresso nella Nato, l'esito finale del summit non ha fornito risposte a tal riguardo. La stessa Inghilterra, fino a ieri la più fanatica sostenitrice dell'escalation, all'indomani un confronto testa a testa con gli Stati Uniti, per bocca del Ministro della Difesa Ben Wallace, ha risposto in maniera beffarda alle pressioni ucraine: il Regno Unito “non è Amazon” in fatto di fornire armi all'Ucraina, la quale dovrebbe mostrare maggiore “gratitudine" verso i suoi alleati. La non decisione è stata edulcorata con promesse di entrata quando le condizioni lo permetteranno e assicurazioni che, anche se fuori dall'Alleanza, all'Ucraina sarà garantita la sicurezza, fornendo adeguate attrezzature militari, sempre più potenti. Lo ha confermato, con espressioni un po' sibilline, anche il Segretario Generale della Nato, Stoltemberg: in attesa dell'adesione dell'Ucraina alla Nato, “dobbiamo assicurare che, quando questa guerra finirà, ci siano accordi credibili in vigore per la sicurezza dell'Ucraina, in modo che la storia non si ripeta”. Anche sull'invio di bombardieri nucleari F16, per il cui utilizzo è in corso l'addestramento del personale ucraino, c'è stata molta cautela, considerato il rischio che siano destinati alla distruzione a causa della supremazia aerea della Federazione Russa. 

Facendo buon viso a cattiva sorte, Zelensky si è detto soddisfatto dell'esito del vertice.

Tuttavia il documento di Vilnius conferma la “politica della porta aperta della Nato”, cioè dell'ammissione di nuove nazioni. Su questo terreno un passo avanti decisivo è stato fatto per l'ingresso nell'Alleanza della Svezia, paese in passato tradizionalmente neutrale. La Turchia infatti ha rimosso i suoi veti e, anche con la liberazione di comandanti del battaglione Azov, pare essersi discostata dalla sua posizione relativamente più autonoma che le aveva consentito di candidarsi a mediatore fra le parti. Al momento non abbiamo elementi per ipotizzare se si tratta di una svolta tattica del momento per ottenere l'ammissione all'Unione Europea o di un ricollocamento strategico definitivo ma certo è che quel paese intende svolgere un ruolo non secondario come potenza regionale. 

Rimane comunque il fatto che i paesi aderenti saranno 32 paesi, ossia il doppio di quelli esistenti circa tre decenni fa, all’indomani dell'annessione della Germania dell'Est, quando all'Urss vennero fornite assicurazioni sulla volontà di non estendere l'Alleanza di un centimetro verso Est. 

L'annessione di quasi tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, di gran parte dei paesi dell'ex Jugoslavia, distrutta nel 1999 da una feroce guerra orchestrata dalla Nato e che ha visto l'Italia parteciparvi a pieno titolo, e dei paesi del Nord Europa, consente agli States e alla Nato di dislocare armi nucleari, basi militari e 300 mila militari tutt'intorno al confine occidentale della Russia.

Tra gli obiettivi strategici Usa e Nato riaffermanti a Vilnius, viene riconfermato quello della ricostruzione del sistema militare ucraino in vista dell’adesione del paese alla Alleanza Atlantica, il che consentirebbe l'intervento diretto della Nato in caso di aggressione straniera, ammesso che le condizioni di quel paese dopo la guerra saranno favorevoli a tale adesione.

Il fronte cinese

Non illudiamoci. La possibilità che si verifichi una certa presa di distanza da Zelensky non significa che gli Stati Uniti rinuncino alla loro politica aggressiva. Probabilmente, alla luce dell'insuccesso ucraino e dello svuotamento importante degli stock di armi, hanno necessità di concentrare le forze contro la Cina. Infatti, nonostante il formale additamento della Russia come principale nemico, è chiaro che si vuole colpire la Russia oggi per colpire la Cina domani. E forse, proprio in vista questo obiettivo e alla luce della situazione nel fronte russo, si vuole evitare di disperdere lì una parte consistente del potenziale bellico. Quindi non è sorprendente che nel comunicato finale del summit in Lituania si formulino altre minacce, più o meno velate, verso paesi che, in quanto amici della Cina, metterebbero a rischio la pace ossia la Cina stessa, la Corea del Nord e l'Iran. Al punto 6 del documento finale, infatti, si legge: “I conflitti, la fragilità e l'instabilità in Africa e in Medio Oriente incidono direttamente sulla nostra sicurezza e sulla sicurezza dei nostri partner. Le ambizioni e le politiche coercitive dichiarate della Repubblica popolare cinese (RPC) sfidano i nostri interessi, la nostra sicurezza e i nostri valori”. 

La cosa è ribadita, con formulazioni più dettagliate che fanno riferimento non solo alla presunta minaccia militare cinese, ma anche, candidamente, ai pericoli derivanti dalla sua capacità economica, ai successivi punti 23, 24 e 25. La volontà della Nato e degli Stati Uniti è quindi quella di salvaguardare il dominio unipolare Usa, messo in discussione dall'emergere di nuove potenze economiche che necessariamente si sono attrezzate anche sul piano militare per fronteggiare la politica aggressiva dell'Occidente. 

Da qui la contrarietà della Nato al Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW), definito “incoerente e incompatibile con la politica di deterrenza nucleare dell'Alleanza” (punto 54).

Gli Usa hanno dislocato circa 800 basi militari sparse nel mondo, un numero senza precedenti e hanno fatto un ricorso strutturale alla guerra e alla minaccia militare, perché sentono che il confronto sul solo terreno economico, pur nel contesto di una politica protezionistica aggressiva (altro che globalizzazione!), le è meno favorevole. Un paese che vanta un debito sovrano verso l'estero di oltre 7 mila miliardi, un debito commerciale di circa 90 miliardi di dollari e che è a serio rischio di default, nonostante la supremazia del dollaro che gli consente di acquistare merci stampando carta moneta dietro a cui non c'è un ragionevole fondamentale. Gli Usa stanno cercando disperatamente di mantenere almeno questa supremazia e sentono che però essa è posta sulle sabbie mobili, visto che paesi che rappresentano la maggioranza della popolazione del globo, stufi di subire simili imposizioni, si stanno organizzando per utilizzare altre valute, o addirittura una valuta creata ad hoc, nelle transazioni internazionali e nelle riserve delle banche centrali.

La guerra ucraina e le sanzioni contro la Russia, fra cui la piratesca confisca delle riserve russe presso banche occidentali, ha innescato una reazione precauzionale, accelerando questo processo di liberazione dal dollaro. In un certo senso tale guerra ha costituito un'ulteriore spinta verso il multilateralismo. L'Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), a cui si stanno candidando ad aderire altre decine di paesi, rappresentano ormai una realtà a cui la potenza imperialistica americana non pare rassegnarsi e da qui nascono anche le opzioni militari.

Le stesse provocazioni a sostegno dell'indipendenza di Taiwan, non riconosciuta dal diritto internazionale, la fornitura di sommergibili nucleari americani all'Australia destinati al mar della Cina, le manovre militari in quei mari, fanno temere la possibilità di uno scontro terribile o quanto meno, in uno schema di nuova guerra fredda, costringono l'altra parte a un riarmo che renderà più difficile il soddisfacimento dei bisogni della propria immensa popolazione.

La dislocazione di armamenti, anche nucleari, “in terra, in aria e in mare” non solo all'interno dei paesi aderenti ma ovunque possibile, “nei tempi e nel dominio di nostra scelta”, è precisata al punto 32. E tuttavia si stigmatizza che la Cina adegui il proprio arsenale nucleare (55) e si intende impedire che anche Iran e Corea del Nord si dotino di tali ordigni (56, 57 e 58).

Omettiamo la serie di riferimenti alla necessità di una specifica dotazione di armamenti, di addestramento, di integrazione, di tecnologie, di intelligence ecc. in preparazione della guerra ma è chiaro che siamo davanti a un salto di qualità, al tracciamento di una strategia fatta di tensioni e guerre permanenti. Si guarda non solo all'Unione Europea e al mar Nero, ma anche all'Africa e, in funzione anticinese, al Sud-Est asiatico. 

Il braccio armato dell'Occidente verrà esplicitamente posto a tutela degli obiettivi “contro shock e perturbazioni strategiche” e degli interessi economici “per identificare e mitigare le vulnerabilità e le dipendenze strategiche, anche per quanto riguarda le nostre infrastrutture critiche, le catene di approvvigionamento e i sistemi sanitari” (utilizzando anche la guerra o l’esportazione di regime changes, come in Ucraina). Si veda il punto 61, ponendo sotto stretto controllo l'area dei Balcani (75, 76, 77 e 78), il Medio Oriente e l'Africa (82) e, ovviamente, l'Indo-Pacifico (85). 

Il ruolo della Nato sarà caratterizzato anche dal suo ingresso prepotente nella cosiddetta riconversione ecologica, scegliendo deliberatamente di boicottare le produzioni cinesi più tecnologicamente avanzate al riguardo, come ad esempio i pannelli solari e le batterie di nuova generazione, senza dimenticare il controllo politico e militare dei territori ricchi di litio e altri minerali strategici.

Il quadro complessivo è aggravato dall'escalation di Israele contro i Palestinesi, con le colonie ormai in guerra contro la popolazione civile disarmata e impotente, anche per la codardia dell'Anp e della “comunità internazionale” che non assume decisioni idonee a rendere operative centinaia di risoluzioni dell'Onu. 

Il ruolo dell'Europa

Di fronte a questa prepotenza colpisce la debolezza e subalternità dei paesi dell'Unione Europea, segno evidente che questa costruzione – al di là dei sogni magnificati, non a ragione visto il loro carattere chiaramente antisovietico, di Ventotene – non opera nell'interesse dei popoli europei ma dei grandi gruppi capitalistici in un rinnovato intreccio imperialistico. Non cadiamo nel ridicolo ripetendo la storiella del sogno infranto dell'Europa dei popoli. Il Continente è ormai in panne e subalterno ai dettami degli States e agli interessi imperialistici che sono condivisi, pur fra contraddizioni interimperialistiche, dal capitale transnazionale, senza alcuna volontà di guardare a quelli dei propri cittadini. L'Europa esce con le ossa rotte da questa guerra e fortemente divisa, proprio come volevano gli Stati Uniti. 

L'Italia cerca di scopiazzare Mattei – però in un contesto profondamente diverso – con accordi bilaterali che mirano al contenimento dei flussi migratori e poco più. 

Il potenziamento militare

Gli aumenti delle spese militari nei paesi aderenti all’Alleanza in breve tempo supereranno il 2 per cento del Pil come si evince dalla risoluzione finale di Vilnius (“Affermiamo che in molti casi saranno necessarie spese superiori al 2% del PIL per porre rimedio alle carenze esistenti e soddisfare i requisiti in tutti i settori derivanti da un ordine di sicurezza più contestato”, punto 27 della risoluzione). Per questo scopo, è aggiunto al punto successivo, si prevede di destinare il 20% dei bilanci statali alla sicurezza.

L'Unione Europea sta chiaramente muovendosi verso il keynesismo di guerra. Emblematico è l'intervento di Stefano Pontecorvo, Presidente di Leonardo, alla Conferenza internazionale The future of the West in a fragmented world, riportato da Analisi Difesa, in cui si dice esplicitamente che l'Italia e l'Europa si sono adagiate troppo sulla fine della guerra fredda e hanno investito nel welfare, mentre ora sarebbe il tempo di disinvestirvi per investire invece in produzioni e tecnologie militari. Nella sua reprimenda ha affermato che “l’Europa nel suo complesso si può permettere di destinare quasi il 50% del PIL alla spesa sociale perché ci sono altri che spendono per la propria sicurezza e difesa. [...] Oggi questo è un «lusso» non più sostenibile, almeno non negli stessi termini” e ha lamentato che, mentre gli Usa primeggiano spendendo per la difesa il 3,5% del Pil, il nostro paese si colloca al dodicesimo posto, mentre le parti si invertono a proposito del welfare (Italia quarta e Usa ventunesima).

Prima del summit, l'obiettivo, in fatto di spesa militare, era il raggiungimento da parte di ciascun paese membro di un livello pari al 2 per cento del Pil. A Vilnius tale livello non è più il tetto da raggiungere ma è diventata la base minima da cui partire, potendo raggiungere anche, per esempio, il 4 per cento. “Faremo in modo che le nostre decisioni politiche – si legge nel punto 87 del comunicato finale – dispongano di risorse adeguate. Ci baseremo sui progressi compiuti per garantire che l'aumento delle spese per la difesa nazionale e il finanziamento comune della NATO siano commisurati alle sfide di un ordine di sicurezza più contestato”. E già in quest'anno tale spesa, secondo l'annuncio del Segretario Generale della Nato, aumenterà dell'8,3%. 

È stata concordata anche la riconversione industriale in direzione della produzione bellica: “Per disporre delle capacità necessarie, l'Alleanza ha bisogno di un'industria della difesa forte e capace, con catene di approvvigionamento resilienti […], un'industria della difesa più forte in Europa e una maggiore cooperazione industriale nel settore della difesa” (punto 30, concetto poi ribadito al punto 36).

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al termine del vertice di Vilnius, ha confermato l'impegno finanziario dell'Italia in campo militare, nell'ottica di “tenere conto della progressione, della sostenibilità e della responsabilità e della partecipazione al funzionamento dell'Alleanza che ogni alleato assume”. 

L'Italia in breve tempo dovrà aumentare la spesa militare, dall’attuale media giornaliera di 80 milioni di euro, a oltre 100 milioni, pagati dai cittadini italiani con denaro pubblico sottratto alle spese sociali e agli investimenti produttivi.

Anche per questa ragione, ma soprattutto per i pericoli di precipitare nell'abisso della guerra mondiale, i cui prodromi sono già ben delineati, e per non chiudere le prospettive di profondi cambiamenti sociali, bisogna che la parola d'ordine della pace sia elemento centrale della strategia della trasformazione in senso socialista anche di questa Europa tormentata dalla ripresa di vari nazionalismi e dall'ascesa al potere di forze di estrema destra e reazionarie, le quali hanno capitalizzato i consensi derivanti da un malessere economico e sociale diffuso e dall'avversione alla tecnocrazia europea, anche se presto le stesse forze andranno a sostituire le altre “democratiche” in questo “lavoro sporco”.

21/07/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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