Il Perù a un bivio

Se le masse popolari peruviane si mobiliteranno per difendere la vittoria elettorale e spingere il nuovo governo a rispettare le proposte elettorali più radicali, potremmo assistere a un essenziale rilancio del socialismo del ventunesimo secolo, in caso contrario, un nuovo tradimento delle forze del cambiamento, condannerebbe il paese a nuovi lunghi anni di dominio neoliberista.


Il Perù a un bivio

Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la conseguente diffusione a livello internazionale del neoliberismo, divenuto pensiero “unico” dominante, l’unico continente ad andare sostanzialmente controcorrente è stata l’America Latina. Negli anni Novanta grazie all’inaspettata resistenza della Cuba socialista, isolata a livello internazionale, a poche miglia dagli Stati Uniti, rimasti unica grande potenza a livello mondiale. Con l’inizio del nuovo secolo è iniziato un decennio in cui, sulle orma del Venezuela della “Rivoluzione bolivariana”, si parlava della diffusione nell’America del Sud e anche, in parte, nell’America centrale del “socialismo del ventunesimo secolo”.

Alla fine del decennio, con la vittoria di Obama e il rilancio della capacità di egemonia sul piano internazionale statunitense, con il colpo di Stato che rovescia il presidente dell’Honduras, inizia il decennio della riscossa delle forze controrivoluzionarie, conservatrici e reazionarie. Prima con due colpi di Stato istituzionalizzati che rovesciano i presidenti di sinistra in Paraguay e Brasile e poi con la riaffermazione delle destre anche per via elettorale, i governi di sinistra vengono in buona parte rovesciati

Con la vittoria di Obrador in Messico, le forze della sinistra – che proprio in questo paese, anche nel decennio progressista, erano state fermate da clamorosi brogli elettorali – hanno ripreso a vincere sul piano elettorale. Si tratta in ogni caso – come conferma la vittoria l’anno successivo di Alberto Fernández in Argentina – di una sinistra a trazione socialdemocratica e riformista, più timida e anche più fragile di quella che si era affermata nel primo decennio del XXI secolo.

Tale tendenza riformista potrebbe essere messa in discussione dal successo nelle elezioni in Perù del partito Perù libero che si definisce marxista leninista e mariateguista, dal nome del più importante marxista del paese, una sorta di Gramsci peruviano. Tale partito – guidato dal maestro campesino e sindacalista di base Castillo – ha sconfitto al primo turno le destre divise e la stessa candidata socialdemocratica, sostenuta persino dal quotidiano sedicente comunista «Il manifesto».

Con una campagna elettorale incentrata sulla promessa di nazionalizzare le imprese straniere – che controllano le principali ricchezze naturali del paese e ne deturpano l’ambiente – e di modificare la costituzione neoliberista imposta dal dittatore Fujimori, il candidato della sinistra radicale si è conquistato il pieno sostegno delle masse popolari e l’odio di tutte le forze borghesi. Peraltro Castillo godeva di un’ampia fiducia fra le masse sfruttate del paese, per aver vinto un importante conflitto sociale, lottando dal basso, in aperta rottura con le burocrazie sindacali anche lì neocorporative.

D’altra parte, le forze dell’ordine costituito – resesi presto conto del tragico errore di presentarsi separate al primo turno, sottovalutando la possibilità di un exploit delle forze della sinistra radicale – come accade spesso hanno prontamente invertito rotta. I fratelli-coltelli del primo turno sono riusciti a fare blocco al secondo turno, per quanto intorno a una candidata impresentabile, pur di sbarrare la strada al candidato delle masse popolari oppresse e sfruttate. Come di consueto, nel momento in cui vedono messi in discussione i loro abnormi e sempre più irrazionali privilegi, i ceti dominanti hanno prontamente rinunciato alle regole formali della liberal-democrazia, alla quale pur dicono di richiamarsi. Sono riuscite a ricompattare il blocco sociale dominante e i suoi alleati subalterni, della piccola e media borghesia, e a sfruttare al meglio il proprio controllo dei mezzi di comunicazione e, più in generale, degli apparati dello Stato per demonizzare e isolare dal ceto medio e dalla parte meno consapevole delle stesse masse popolari il candidato della sinistra radicale. Sebbene Castillo si sia richiamato a due esponenti non particolarmente radicali della sinistra latinoamericana, come Evo Morales e Rafael Correa, e abbia rigettato le accuse di castro-chavismo, la classe dominante lo ha prontamente bollato come un epigono del movimento guerrigliero – generalmente accusato di estremismo e di aver utilizzato i più violenti metodi terroristi – Sendero Luminoso.

Tale politica elettorale terrorista – cinicamente utilizzata delle sedicenti forze moderate, che peraltro hanno sostenuto una candidata sostanzialmente filo golpista – è riuscita a ricompattare in funzione subordinata alla classe economicamente dominante i ceti intermedi. Al contempo è riuscita a intimidire i propri avversari e, in particolare, il candidato della sinistra Castillo il quale, per cercare consensi nelle classi intermedie e per paura delle forze golpiste nazionali e internazionali – con importantissimi agganci con gli apparati repressivi dello Stato e con l’imperialismo, in particolare statunitense – nel corso del ballottaggio ha via via messo da parte gli aspetti radicali del proprio programma elettorale, che gli avevano consentito di vincere il primo turno, anche se con meno del 20 per cento dei voti. Le promesse nazionalizzazioni e la consueta intenzione delle forze del Socialismo del XXI secolo di una reale riforma in senso radicale della costituzione neoliberista imposta dal golpista Fujimori – padre del candidato al ballottaggio delle destre – sono state abbandonate. Al punto che il candidato delle sinistre è arrivato ad assicurare che avrebbe, in ogni caso, rispettato la costituzione, rinunciando così a un reale cambiamento

Nonostante tale svolta opportunista di destra, il voto si è estremamente polarizzato, con le masse popolari a votare per Castillo e borghesia, ceto medio e piccola borghesia a fare blocco a sostegno della candidata della destra. In tal modo, la distanza fra i due candidati al ballottaggio si è ristretta sempre di più. Castillo, dato dai primi sondaggi con un 20% di elettori in più della sua concorrente, ha finito per apparire sconfitto ai primi exit poll, in cui al solito mancava il dato delle regioni più povere e remote del paese, schierate massicciamente per Castillo.

Come spesso accade, la tattica di assumere posizioni meno radicali per conquistare voti al centro si è dimostrata, a conti fatti, piuttosto fallimentare, anche se ha presumibilmente tenuto a bada le spinte della destra a un colpo di Stato preventivo per mettere al sicuro i privilegi della classe dominante. Anche perché, abbandonando il candidato di sinistra le parole d’ordine più radicali che consentirebbero una reale trasformazione, finisce per demotivare e far crescere le pulsioni antipolitiche di settori privi di una reale coscienza di classe delle masse popolari, che hanno appreso per esperienza che attraverso le elezioni la loro situazione di oppressione e sfruttamento resta sostanzialmente immutata. In effetti, si tratta di sano buon senso popolare, che ha imparato, empiricamente, che le elezioni sono funzionali essenzialmente al mantenimento dello status quo. D’altra parte l’antipolitica è funzionale alla classe dominante e all’oligarchia che – grazie alla mancata partecipazione persino alle elezioni di settori crescenti delle masse popolari – mantiene inalterato il proprio dominio.

Allo stesso tempo, è quanto mai evidente che, non solo la vittoria del candidato delle masse oppresse va difesa con una massiccia mobilitazione popolare – e questo gli oppressi e sfruttati peruviani sembrano averlo compreso – ma anche che un reale governo di cambiamento ci sarà e potrà avere possibilità di successo soltanto se crescerà la mobilitazione dei ceti subalterni, modificando i rapporti di forza reali fra le classi sociali.

Tanto più che, come è noto, la lotta di classe non ha luogo solo sul piano decisivo, socio-economico, ma anche, a livello nazionale e internazionale, fra paesi imperialisti e paesi subalterni al neocolonialismo. Da questo punto di vista, se negli Stati imperialisti un governo di sinistra è sostanzialmente una contradictio in adiecto, che ha generalmente come risultato la perdita di credibilità delle forze di sinistra dinanzi agli oppressi e sfruttati – come il caso italiano ha dimostrato nel modo più evidente – nei paesi subalterni un governo antimperialista può modificare i rapporti della lotta di classe a livello internazionale.

Tuttavia è anche vero che in non pochi casi, come in Russia, in Iran e, nell’ultimo periodo, anche in Siria, le posizioni sostanzialmente antimperialiste servono anche a meglio mantenere delle società, di fatto, classiste in politica interna.

Inoltre, come proprio l’esperienza del socialismo del XXI secolo ha ulteriormente dimostrato, vincere le elezioni non significa né prendere il controllo della società civile economica, né avere il dominio sullo Stato profondo, a partire dagli apparati repressivi. Non comporta nemmeno assumere il reale controllo degli strumenti indispensabili alla lotta per l’egemonia, ovvero i mezzi di comunicazione di massa, i sindacati, gli intellettuali, la chiesa, la scuola, l’università e la maggioranza dei partiti politici. Anzi, generalmente tutte queste casematte decisive per l’egemonia, restano in massima parte, insieme alla società civile economica, sotto il controllo della vecchia classe dominante che resta così tale, pur avendo perso il controllo della classe dirigente.

Abbiamo così visto governi, come quello del Partito dei lavoratori in Brasile o della rivoluzione bolivariana in Venezuela, fare grandi passi per far uscire dalla miseria larghi strati di sottoproletariato, senza che questi indubbi risultati abbiano fatto crescere la popolarità e ancora di più il sostegno attivo delle masse ai governi della sinistra. Proprio perché le politiche assistenziali dello Stato – se chi governa non controlla i decisivi strumenti dell’egemonia – possono essere sfruttati dalla destra all’opposizione, che può far sviluppare fra i sottoproletari o gli ex sottoproletari una coscienza distorta, piccolo-borghese.

Come abbiamo visto i governi e le forze di sinistra in Brasile sono state costantemente sulla difensiva, per il terrore di un colpo di Stato militare, per non parlare di paesi con governi di sinistra ancora più deboli come Paraguay e Honduras. Persino in Bolivia – non appena il prevalere di posizioni opportuniste di destra, ha portato il governo Morales a perdere il sostegno attivo dei settori più radicali degli oppressi e sfruttati, come già in Honduras, Paraguay e Brasile – si è assistito, di fatto, a un colpo di Stato meno violento di quelli degli anni settanta, solo perché i presidenti eletti si sono prontamente arresi senza combattere.

Peraltro anche i paesi dove le forze della sinistra si erano conquistate, dopo anni di lavoro certosino, un sostanziale controllo delle forze armate, come in Venezuela – dove pure le grandi risorse naturali sono state messe, in buona parte, al servizio delle masse popolari – è bastato un accordo fra gli Stati petroliferi reazionari, allo scopo di abbassare il prezzo del petrolio, per mettere in crisi il chavismo, che pure era stato così popolare fra le masse popolari venezuelane.

Perciò masse popolari e sinistra in Perù sono di fronte a un bivio, in quanto o le prime manterranno alta la mobilitazione e le seconde porteranno avanti le originarie e più radicali riforme – trasformando in senso progressista la costituzione neoliberale e nazionalizzando le principali risorse naturali – o il governo diverrà sempre più debole e sempre più incapace di contrastare la classe dominante, che mantiene nelle sue mani la ricchezza, lo Stato profondo e i mezzi per l’egemonia sulla società civile, nel senso gramsciano del termine.

17/06/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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