Ipocrisie di Stato

Il caso Cucchi è il primo in cui il muro omertoso si è sfaldato dall’interno.


Ipocrisie di Stato

Il caso Cucchi ha regalato ultimamente lo spettacolo di una doppia ipocrisia istituzionale: prima nell’occultamento omertoso di un omicidio da proteggere mediante uno “spirito di corpo”, poi, dopo ben nove anni di dolore costretto a negarsi nell’uso del tempo dovuto alla lotta per la verità dell’accaduto, nella parata dello “spirito di corpo” che spalanca le sue porte a scuse formali e a millantate rigidità etiche, frettolosamente approntate per le sole “mele marce”. Non le istituzioni democratiche, ma solo se altri individueranno gli “alcuni appartenenti dello Stato… irresponsabili” – parole del comandante Giovanni Nistri (la Presse, 13.10.’18) – “l’Arma prenderà le decisioni che le competono,… ma non si tratta di una violenza dello Stato ma di alcuni appartenenti dello Stato: lo Stato non può essere chiamato come responsabile della responsabilità di qualcuno”. Il condimento all’espressione della “solidarietà e vicinanza umana” alla famiglia non poteva mancare.

Anche il premier Conte ha sostenuto l’ipocrisia nel non dover coinvolgere “l’intero corpo dei carabinieri e delle forze dell’ordine in generale, che tutti i giorni si impegnano per tutelare le nostre vite, la nostra incolumità, la nostra sicurezza”. La concezione di uno Stato paternalista, uno Stato provvidenza, o come se esistesse “la partecipazione di tutti a tutti gli affari” (G.W.F. Hegel, Enciclopedia, §542) riemerge a negare invece “la produzione della massima ineguaglianza concreta degli individui nella realtà”, laddove “la libertà è rassodata come sicurezza della proprietà” (ivi, §539), aggiungiamo privata. Già due secoli fa, quindi, era chiaro il funzionamento dello Stato moderno ancora non invaso dalla manipolazione a tappeto determinata dall’attuale tecnologia e sviluppo neocorporativo.

La diversa cultura ha però costretto Conte a incastrarsi in una contraddizione più elevata: “chi ha sbagliato dovrà pagare perché ovviamente indossava la divisa dello Stato e rappresentava lo Stato, quindi la cosa è anche più grave”. O lo Stato, materializzato in quelle divise – come in tutti i suoi funzionari – era presente in quella necessaria individualizzazione in cui solo può esistere, e quindi assume tutta la responsabilità determinata nella concretezza di questa rappresentazione – ancorché indegna – o lo Stato è un ente privo di esistenza reale e pertanto irresponsabile giuridicamente, politicamente, ecc., la cui Arma è solo un’altra astrazione, senza alcuna verità, che quindi nemmeno tutela gli individui concreti che cascano nelle sue mani. Lo schema di uno Stato responsabile solo se viene smascherato, pronto a smarcarsi dalle responsabilità da abbandonare sulla testa delle sue manovalanze, per lo più inconsapevoli della loro precaria copertura – una volta che l’omertà venga incrinata – sull’arbitrio e sulla violenza loro concessa se non inculcata, questo schema si ripete stantio e fissato come un eterno ritorno, un reiterarsi della sua finitezza senza fine, un’evidenza del suo limite ingannevole, per chi sa vedere.

Lo Stato non è solo l’arma dei carabinieri. La magistratura è uno dei poteri dello Stato, e quindi avvocati e giudici hanno avuto un ruolo diretto in questo caso quando c’è stata l’assoluzione di tutti gli indiziati. La verità di quelle foto terribili del pestaggio a morte avrebbe dovuto far sorgere se non altro il sospetto che qualcosa fosse rimasto nell’ombra. Lo Stato dei tutti non c’è stato. Al contrario, lo Stato di parte ha mostrato la sua falsità democratica come in tutti gli altri casi analoghi: Aldrovandi, Genova o scuola Diaz, tutte le stragi a partire dal dicembre del 1969 alla Banca dell’Agricoltura a Milano, alla stazione di Bologna, a Brescia, a Ustica, a Sigonella, ecc., per citare infine le ultime. Non a caso in Italia manca ancora il reato di tortura. I casi di pestaggi, umiliazioni nelle carceri, sevizie e crimini commessi da parte delle forze dell’ordine sono sempre rimasti inevasi, sempre sotterrati e isolati.

La “sicurezza” di cui si parla con sempre maggiore enfasi non riguarda chi non ha potere o proprietà da difendere, la vita che conta, la cui incolumità viene salvaguardata è solo quella di chi gestisce lo Stato e di chi se ne è appropriato circondandosi di corpi di polizia, non a caso sempre più riforniti di strumenti antisommossa. Il caso Cucchi è il primo in cui il muro omertoso si è sfaldato dall’interno. La pressione esterna è stata evidentemente troppo salda e persistente, troppo umana. È bastata una sola coscienza emersa alla conquista della propria dignità umana, all’abbandono forzato della solidificata ipocrisia di Stato, perché quest’ultimo si affannasse immediatamente a ricercarne subito un’altra, di discolpa, di chi si chiama fuori e lascia sbranare i cani.

Quest’ultima ipocrisia però è ormai sotto gli occhi di tutti nella sua inconsistente, insolubile contraddittorietà: i vertici non sono mai responsabili, alla base della piramide di chi comanda la democratica licenza di uccidere accordata simula un potere che non si ha, gratifica una magra remunerazione e la divisa apparentemente dona il potere di potersi sentire chi non si sa e non si è.

ipocrisie di stato caso cucchi

15/10/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Carla Filosa

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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