Una generazione sputa il rospo

La fatica di esistere dell’alternanza scuola lavoro.


Una generazione sputa il rospo Credits: Foto di Diego Chiaraluce

A volte si incazzano. Nonostante la letteratura e la sociologia, anche i nativi digitali, a volte, perdono la consueta mansuetudine. Così la cronaca di questi giorni ci consegna alcuni casi di un dissenso diffuso da parte dei diretti interessati: gli studenti.

I ragazzi del Vittorio Emanuele di Napoli hanno prestato la loro opera di alternanza presso le strutture del Fai, il fondo per l’ambiente italiano, indossando un cartellino che li indicava non come volontari, ma come studenti obbligati a prestare servizio. Come Paperon de’ Paperoni, il capoccia del Fai – insomma, qualcuno, adulto, deciso a farla pagare ai ragazzacci - si è arrabbiato con gli studenti Qui, Quo e Qua del liceo di Napoli pretendendo dalla scuola una lezione esemplare: l’abbassamento del voto di condotta.

Negli stessi giorni, a Carpi, uno studente dell’Itis “Da Vinci” non si piega al sei in condotta rifilatogli come un patriarcale schiaffone – o come una reazione fascistoide – dal consiglio di classe per aver espresso su facebook un giudizio critico sull’alternanza. La questione ha mosso polemiche e solidarietà allo studente da tutta Italia. Così, nei giorni successivi, il ragazzo ribadisce la propria idea: l’alternanza è sfruttamento del lavoro (in gran parte minorile). E, aggiungo, sottrazione di lavoro ad altri, lavoratori “veri” espulsi dalla produzione a causa della presenza di 1 milione e mezzo di studenti costretti dalla 107 all’alternanza - gratuita - dove sia.

Perché i ragazzi critici vengono puniti? Perché hanno colto nel segno. Segnalano e rifiutano il profilo ideologico e biopolitico della “cosa” introdotta con la 107. La vecchia disciplina e il rispetto delle gerarchie aziendali da inculcare a gente che ha mediamente dai 15 ai 19 anni. E che comprende l’importanza del modificare il linguaggio quando questo non si attiene alla realtà: la disciplina ingiusta si chiama oppressione. E l’alternanza si chiama sfruttamento.

Non sono questi i primi segnali di dissenso studentesco. Che sono in sostanziale continuità con quelli espressi dal mondo della scuola con modalità diverse nel corso degli ultimi anni. Dalle non dimenticate iniziative di lotta del 2015, al voto referendario del 2016, al voto alle politiche che ha spazzato via l’egemonia del PD nelle scuole. Che ora sono in attesa che qualcuno batta un colpo dall’aldilà parlamentare e ascolti davvero le richieste della scuola.

Il punto è che la scuola oggi si trova tra l’incudine e il martello. Da una parte una domanda – quella delle famiglie – di carattere efficientista che pretende si raggiunga il massimo del risultato formativo, educativo, emotivo col minimo sforzo e senza le contraddizioni tipiche della scuola (suo figlio non studia, quindi prende 3, non si arrabbi...) e, dall’altra, le grandi pressioni provenienti dai poteri forti affinché le scuole diversifichino l’offerta formativa fino a un processo di molecolarizzazione delle competenze da iscrivere nei curricula degli alunni. Che entreranno poi nei grandi algoritmi di enti e imprese pronti a pescare l’uomo giusto al momento giusto. E che, grazie all’alternanza, avranno imparato ad essere puntuali, presentabili, corretti, disciplinati, servili.

A questo proposito, l’alternanza scuola-lavoro viene promossa, spinta, celebrata nonostante sottragga ore allo studio e all’elaborazione autonoma, al pensiero. È importante – dicono lor signori – per meglio organizzare l’incontro tra offerta formativa e domanda di lavoro. Il tutto in un quadro, quello dell’insegnamento per competenze, in cui l’alternanza scuola lavoro scansa via la vecchia tesina all’esame di maturità. Quindi mai più, dice la vecchia riforma della maturità, le vecchie tesine che partono dalle passioni giovanili per poi toccare le discipline d’esame, ma un’analisi della propria esperienza di alternanza in azienda (o ente, o chicchessia riconosciuto come “soggetto ospitante”). Quindi, meno elegantemente, o fai l’alternanza, o non ti diplomi.

Già nell’ottobre del 2017, la ministra Fedeli ribadiva di considerare l’alternanza come uno strumento in cui credere profondamente.

Come in una religione rivelata, si crede nella necessità profonda di formare individui flessibili, versatili, pronti a muoversi nello spazio e nel tempo a seconda delle esigenze della dea impresa che diventa, nei fatti, un tutt’uno con l’individuo. Divenire, finalmente, l’individuo un’impresa, pronta a vendere, a vincere o fallire nel mercato del lavoro. Acquisire competenze come fossero sostanze dopanti e competere nel mercato. Questo il dogma. Competere. Senza pensare mai a chi, cosa e perché e a quali le conseguenze sul piano delle nevrosi individuali, dei danni alla comunità e all’ambiente, alle conseguenze alle generazioni venture.

Come in una religione rivelata e ben organizzata, l’alternanza è ben sostenuta da energiche offerte (a carico del contribuente, signori). Dai 100 milioni di euro stanziati dalla legge 107, a forme di sgravi fiscali, bandi delle camere di commercio, insomma, un sostanzioso sostegno allo svolgimento di attività più meno utili ad enti e imprese e più o meno inutili agli alunni.

Per esperienza diretta ho visto giovani adolescenti morir di noia alla stazione Termini a presenziare, ed eventualmente aiutare, chi doveva comprare un biglietto coi dispositivi automatici. Ho visto ragazze sciupar l’estate dentro uffici di informazione turistica e musei e altri a servire pietanze nelle sagre di paese. Ho accompagnato i miei studenti al cinema – stavolta tutto pagato, tanto i soldi ci sono – per un ciclo di film riguardanti la contemporaneità e il lavoro. Il tutto senza particolari lavori di preparazione in classe su questioni così importanti che meritano tutt’altro che l’alternanza di Renzi. Ho sentito degli studenti del G. Cesare prestare alternanza presso l’ordine degli avvocati e di quelli dei professionali lavorare la domenica. Sono tutte iniziative prese autonomamente dalla scuole, coerentemente con lo spirito della scuola dell’autonomia e con le presunte prospettive lavorative degli alunni.

Ciò conferma che l’alternanza non è funzionale a una conoscenza ampia e critica dell’economia e del lavoro, delle sue peculiarità e contraddizioni. Quanto guadagna un tramviere? Che cos’è un contratto a progetto? E cosa i contributi? Tendenzialmente, poco o nulla di tutto questo. Solo ricalcare il solco dell’aratro malconcio della struttura classista del paese. E spicciare le ore obbligatorie da espletare.

Come mille mine antiuomo da disperdere nel terreno permeabile dell’educazione, l’alternanza dei padroni vuole modificare l’animo degli studenti e il corpo della scuola. Di fatto è un grimaldello su cui forzare la scuola e metterla al completo servizio del “territorio”, leggi imprese.

Nonostante queste pretese, in tutta Italia emergono momenti di insubordinazione e si moltiplicano le iniziative contro l’alternanza promosse da studenti, lavoratori e genitori contro l’alternanza. Il re è nudo. E non è re.

14/04/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: Foto di Diego Chiaraluce

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L'Autore

Diego Chiaraluce

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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