Il lavoro è fatica

Una prima riflessione sul nesso fra scuola, lavoro, Carta Costituzionale


Il lavoro è fatica Credits: bioradar.net

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro (Costituzione della Repubblica Italiana, art. 1 comma 1).

E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3 comma 2).

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto (art.4 comma 1).

[…] I non intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo cerebrale e muscolare-nervoso non sempre è uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale. […] non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens.

A. Gramsci, Quaderni 4 (XIII);12(XXIX).

[…] Con fatica ne trarrai nutrimento tutti giorni della tua vita […] con il sudore del tuo volto mangerai il pane […].

Genesi, 3-17/19.


Questo è un contributo sul nesso fra la Carta Costituzionale e i problemi attuali del sistema scolastico italiano, un commento sul concetto di lavoro che emerge dal testo di riforma della scuola, con l’applicazione del comma 33/passim della legge 13/07/15 n 107 cd. La Buona Scuola, e il relativo costituirsi dell’istituto Alternanza-Scuola-Lavoro (ASL).

Cito in esergo gli articoli della Carta più noti, ma su cui occorre continuare a riflettere, parola per parola, essendo ciascuna frutto di discussioni, allora, fra i costituenti, oggi, fra costituzionalisti della prima e dell’ultima ora.

Tenere insieme più aspetti sottolinea l’organicità della manovra governativa. La messa a sistema delle forme di manipolazione dei diritti operata dall’attuale Governo configura, con la legislazione sul lavoro (legge delega 10/12/14 n 183 cd. Jobs Act), con quella sulla scuola, con la riforma costituzionale, una straordinaria (nel senso di: “in stato di eccezione”) operazione di ingegneria sociale. Operazione destinata a rimanere negli anni futuri un’applicazione tutta italiana - per modalità e forme - del credo ordo-liberista, o forse anarco-liberista, in stile Chicago. E non uso a caso, in senso banale, la parola “credo”, perché si tratta di un’ideologia e di una serie di pratiche propriamente pastorali, sia nella versione di Friburgo, sia in quella americana. Il pastorale, bastone di comando e azione di cura eccezionale del gregge, rischia di essere scettro, simbolo di vertice di comando, grazie alla deformazione della Carta Costituzionale.

Si afferma a gran voce che i principi della Carta, racchiusi nella prima parte (artt 1-12) risultando immutati, continueranno a fare da ideale cornice a quel che segue (grosso modo tutti gli articoli compresi dal numero 48 alla fine del testo, variamente manipolati dal 2000 a oggi). E’ evidente come proprio i Principi resteranno - in virtù del disegno di legge costituzionale di quest’anno, se ratificato il 4 dicembre - lettera morta. Essi trovano un ostacolo alla loro piena realizzazione proprio dal congiunto delle leggi approvate dal Governo Renzi: lavoro, scuola, sistema elettorale. Il giurista Gianni Ferrara, nel 2004 e nel 2005, a ridosso del referendum imposto da Berlusconi, aveva segnalato questo rischio [1]. Stefano Rodotà, aprendo l’incontro di insediamento del Comitato per il No alla riforma costituzionale disse che avrebbe dovuto aprirsi una campagna coordinata fra la difesa della Costituzione, il referendum contro La Buona Scuola, quello sui temi sociali, il Jobs Act nello specifico, e contro lattuale legge elettorale. Il 2016 si inaugurava come l’anno delle battaglie organiche, disse. Siamo a novembre e sappiamo com’è andata, almeno fino al giorno 4 del mese prossimo...

Gramsci scriveva nel 1930/32, commentando la riforma della scuola fascista, che l’asse che avrebbe dovuto orientare l’insegnamento nella scuola elementare era basato su due assetti: educare alla scienza e educare ai diritti. Nel primo caso si trattava di formare, soprattutto nelle masse popolari, un atteggiamento che contrastasse il pensiero magico, sia quello infantile, sia quello folklorico, condizione culturale adulta, alla cui analisi dedicherà pagine altrettanto importanti.

E’ opportuno sottolineare come le frequenti citazioni che i nostri governanti ricavano dalla riflessione gramsciana a sostegno della vena tecnocratica, della necessità di formare una mentalità pragmatica, un approccio al lavoro adulto e al mondo economico-finanziario come elementi naturalizzati, siano un grosso equivoco, un’ipocrisia, più propriamente. Nei frammenti di miscellanea, ripresi più volte in numerosi quaderni, Gramsci scriveva sull’importanza di una scuola “attiva” in cui la relazione fra studenti (i bambini in primis) e gli insegnanti garantisse, a chiunque accedeva alla scuola, la possibilità della mobilità sociale.

Mobilità che si conseguiva grazie alla importanza del lavoro manuale, operaio, coniugato con la inderogabile educazione al pensiero libero, dis-alienato. Gli scopi del legislatore, nella “fissazione dell’età scolastica obbligatoria”, erano di continuare a far dipendere la formazione da “condizioni economiche generali”, assolutamente indiscutibili e immutabili. Ne discendevano due conseguenze, una necessità e un impegno: 1) far lavorare i giovani per averne subito un certo apporto produttivo immediato come ricaduta socio-economica; 2) fornire una disponibilità finanziaria statale da dedicare all’educazione pubblica, limitata a quegli scopi.

Gramsci si diceva certo che la congiunzione del primo e del secondo punto alimentasse il perpetuarsi delle differenze sociali di origine, che la riforma non era certo pensata per eliminare lo scarto fra le classi, semmai serviva a divaricare ancora di più la classe dirigente, formata nei licei, e quella obbligata al ceppo del lavoro manuale riproduttivo, sociale e materiale. Avevano capito bene gli americani, aggiungeva, il “gorilla ammaestrato” di Taylor doveva essere addestrato fin dall’infanzia a non pensare. Il progetto de LOrdine Nuovo avrebbe allora dovuto, risultare una fucina per il pensatore operaio, quel soggetto politico che, a dispetto della sua condizione, non solo pensa ma produce riflessione, come un intellettuale. Citava non solo l’operaio alla catena di montaggio, ma anche chi si occupava di quelle professioni dove sembra notevole il distacco fra ciò che fa la mano e ciò che pensa chi con la mano lavora. L’amanuense sbagliava nelle trascrizioni perché pensava a quel che leggeva. Il tipografo “è già molto più rapido, deve tenere in continuo movimento le mani; ciò rende più facile la meccanizzazione”, eppure – aggiungeva – il cervello non subisce “mummificazioni”, continua a lavorare, a riflettere. A dispetto, direi io, speranzosa e timorosa per la densità totalizzante della nuove tecnologie, anche del bombardamento del coding nella scuola di oggi!

La tentazione all’ammaestramento è forte, resta mirabile anche qui un’intuizione di Gramsci che oggi definiremmo bio-politica: quel che può salvare la scuola, soprattutto quella che dà i fondamenti, gli elementi, è il contatto con il “lavoro vivo del maestro”. Un richiamo che, se non sortisce i suoi effetti, non può contrastare la sintesi fra i tre livelli di rischio individuati: tecnica invasiva, addestramento precoce al lavoro manuale, distanza fra i corpi nel rapporto fra pari e fra adulto e alunni [2].

Lavorare con dignità, mantenendo la condizione di soggetto sempre in cerca della propria completezza nel momento in cui può immettere desiderio in quel che fa, significa anche rispettare il diritto all’ozio. Quell’otium che dall’antichità fino ad oggi era riservato a chi poteva contare per la riproduzione materiale, per il soddisfacimento dei bisogni, sullo sfruttamento della fatica di altri soggetti. Ozio che sta anche alla radice etimologica della parola skholề. La scuola, un luogo deputato alla sospensione, alla riflessione, alla ricerca. Insieme faticoso di atti anche questo, ricorda ancora Gramsci, con una dose di sacrificio e di affaticamento intrinseci anche nello studio, nell’impegno intellettuale, non immediatamente produttivo, non immediatamente spendibile sul piano dello scambio, contro-valore mercantile.

Lavoro intellettuale in senso ampio, al più oggetto di dono, il dono che altri, riflettendo e documentando dispensano a chi cerca, a chi legge, a chi mette al lavoro il pensiero collettivo, socialmente disponibile. Nell’uso di parole e di oggetti la sospensione è garanzia di spazio immaginativo, di ribellione come mutamento, e di conservazione come memoria storica, tradizione. Ecco perché chi studia non lavora, o lo fa nel modo che Gramsci predicava come integrazione, attenzione al gesto della mano oltre che alla ragione. Se lavora, come ho segnalato più su, deve poter continuare a pensare [3].

L’intreccio fra scuola e lavoro nell’attuale dettato istituzionale si riscontra, a livello micro, nella diffusione dei manuali di economia, finanza, teoria del risparmio, diffusa a livello di scuola primaria mediante manuali specifici e con schede contenute nei libri di testo [4]. Sempre come pratica diffusiva, capillare, apparentemente solo informativa e non formativa, ci sono le sperimentazioni condotte con alunni della secondaria superiore nell’ambito degli accordi fra MIUR e Banca d’Italia, le visite di istruzione presso istituzioni bancarie e di impianto storico museale.

Ne leggo una testimonianza nel carteggio fra la dirigenza del Liceo Classico “M.D’Azeglio” di Torino e un giornalista de Il fatto quotidiano. Il corsivista aveva segnalato la visita presso il Museo del Risparmio della città come decisamente incongrua con il percorso scolastico, un “cavallo di Troia” per promuovere il risparmio e - tema molto attuale - la previdenza integrativa (il tutto gestito da circa sessanta banche coinvolte!) [5].

Il livello macro è invece promosso con grande enfasi laboratoriale nelle attività della su citata ASL (alternanza scuola-lavoro) obbligatoria. Il MIUR ha recentemente ristampato, in versione graficamente più accattivante, la guida operativa, corredandola di 16 schede: “La Buona Scuola: i Campioni dell’alternanza”. Non si parla né di Francesco Totti, o del vecchio indimenticabile Gino Bartali, la metafora sportiva serve a introdurre le aziende che hanno firmato i protocolli con le scuole superiori e si sono distinte per diffusione e qualità sul territorio nazionale. Ne prendo una a caso, e si capirà che non è casuale la scelta: Poste Italiane. La proposta rivolta alla scuola gioca sui cinque fronti su cui il servizio postale ha moltiplicato il suo mercato. Lasciata la logistica e il recapito ai margini della mission, è soprattutto sull’impegno di tipo eco-finanziario che l’attività dell’ex servizio pubblico si spende. Leggiamo nella manchette della scheda: “L’Italia sta attraversando una fase di profonda trasformazione del sistema produttivo, caratterizzata dal passaggio epocale dalla tecnologia tradizionale alla tecnologia digitale, la sua competitività e le prospettive di crescita e occupazione sono legate ad una ampia diffusione dei nuovi processi dell’e-commercio ai pagamenti digitali, passando per le transazioni via web, Poste Italiane intende essere fra i campioni dell’alternanza perché, contribuendo alla loro formazione, vuole fornire ai giovani gli strumenti per accompagnare, guidandola, la trasformazione del Paese. Laura Todini, Presidente”.

Chi imita chi? E’ il quadrunvirato Renzi-Boschi-Giannini-Padoan che dà il registro linguistico alle aziende, oppure – come più probabile - ha imparato la lezione da chi davvero governa il Paese? I postini che con contratti di tutti i tipi, ma sempre precari, corrono in motoretta di qua e di là, cosa ne pensano? I liceali vogliono il motorino, si sa… Del resto, volendo fare un po’ di storia e capire da dove viene il Verbo (e da dove continuerà a venire: il cambio Obama-Trump è senza variazione in merito alle scelte economiche neoliberiste), basta pensare alle stage-coach (le diligenze) e ai pony expess creati da Henry Wells e William Fargo nel 1852 (dieci anni prima dell’avvio del servizio postale italiano) per attraversare gli States da una costa all’altra, ma già a fine Ottocento orientati a gestire denaro e prestiti; oggi la Well-Fargo è fra le prime quattro banche più ricche d’America.

Quel che gli studenti devono imparare è accettare, nell’ordine: 1) lo sfruttamento del lavoro gratuito o semigratuito (nell’ASL figurano fra i campioni non a caso anche McDonald, Zara, Coop…); 2) “il” lavoro è un obbligo, da cercare nelle maglie del suo mercato, a qualunque prezzo; 3) i rapporti sociali di produzione e la conflittualità non esistono; è naturale lavorare da soli con il proprio PC (anche per usare l’applicazione delle ordinazioni degli hamburger); 4) meno pensi, più sei veloce e produttivo, sempre pronto alla nuova consegna.

La formazione dei docenti entra qui in gioco, nel nodo che ho cercato di evidenziare. Il loro lavoro vivo viene ridotto al passa-parola, a esecuzione acefala di programmi, a compilazione di protocolli preformati, a rapida consegna di format e di questionari di risultato. Basta dare uno sguardo alla nuova guida sulla loro formazione obbligatoria [6]. Fra le nove priorità figura proprio l’alternanza scuola lavoro, annodata al digitale. Tutto scontato, via libera all’alienazione del docente, alla catena del lavoro intellettuale. Ne abbiamo già parlato, ma il discorso andrebbe ripreso, non è certo chiuso sulla linea di qualche commento.

Una breve glossa. C’è molta confusione a sinistra, anche fra chi si dice marxista o comunista, sul concetto di lavoro. Molti sono rimasti impigliati nella rete dei diritti acquisiti durante le lotte del secolo scorso, nel welfare keynesiano come orizzonte unico, nella cooperazione che rimetteva al lavoro le fabbriche argentine, e hanno perso l’occasione di ragionare sul lavoro come feticcio, non solo, e non tanto, come produttore di plusvalore e di merci-feticci. Questioni importantissime (quasi inestricabili: sul valore-lavoro o quella sul nesso con la soggettività) ma, come mi ricordava un compagno, che hanno oscurato il ragionamento intorno al concetto di ozio, ma anche di noia.

Declinati entrambi non sull’orlo del vuoto, ozio e noia sono privati della cornice disegnata da un pensiero divagante, da un corpo libero perché perfettamente insediato nel tempo della vita che scorre. Malgrado noi, il nostro attivismo. Così, lo ricordo ai meno giovani, essere giovani non è muoversi come una trottola, non è imparare le tecniche migliori di attacco verbale e fisico per guadagnarsi un posto al sole, ma è saper godere di “un lunedì al sole”, nella lentezza [7].

Note:

1. G. Ferrara, I diritti del lavoro e la costituzione economica italiana e in Europa, 2005. Verso la monocrazia, 2004 in www.costituzionalismo.it .

2. A. Gramsci, Quaderni dal carcere a cura di V. Gerratana Einaudi, Torino, 1975.

3. Molti richiami di questo tipo si possono trovare nelle lettere di Gramsci ai figli; una breve ma densa selezione in: a cura di M.F. Solari, A. Gramsci Come va il tuo cervellino? Lettere sull’amore per lo studio L’Orma ed., Roma, 2012.

4. La moneta e gli strumenti di pagamento. Scuola Primaria, Quaderni didattici delle Banca d’Italia in www. bancaditalia.it.

5. In Diritto di replica, si può leggere la lettera indignata della Dirigente Scolastica del liceo di Torino al giornalista Beppe Scienza e la replica di quest’ultimo, 9/10 novembre 2016.

6. MIUR Piano Formazione Docenti 2016.

7. Poiché la letteratura sul lavoro è sterminata e, come ho detto, molto contraddittoria, cito solo un saggio recentissimo e molto recensito, con una ricca bibliografia: Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016.

19/11/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renata Puleo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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