1917: Un anno lungo un secolo. Una lettura “storico-filosofica” della Rivoluzione d'Ottobre - 2a parte

Le tensioni politico-sociali: dalle ‘Tesi di aprile’ al tentativo di colpo di stato in agosto. Le aspettative tradite dal Governo provvisorio liberal-socialista.


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Gli eventi del febbraio/marzo avevano messo in moto una vera e propria slavina: in pochi giorni, all’abdicazione dello zar Nicola II (2/15 marzo) era seguita quella del fratello Michail, che aveva rimandato all’Assemblea Costituente il compito di attribuirgli l’investitura di imperatore. Con questa mossa, pur formalmente sottomettendo il proprio potere al mandato popolare dell’Assemblea Costituente, i Romanov cercavano di rafforzare il potere del Governo provvisorio (con l’intento di dominarlo mediante accordi e compromessi con i moderati nella Duma, il Parlamento russo in cui erano presenti in grandissima prevalenza esponenti dell’aristocrazia privilegiata e reazionaria, nonché dell’alta borghesia) e di delegittimare l’altro organo che era stato determinate nel processo rivoluzionario, il Soviet degli operai e soldati di Pietrogrado (i soviet erano consigli assembleari popolari, in cui erano presenti le varie formazioni populiste e socialiste, tra cui i bolscevichi).

È questo l’organo che, di fronte alle sollevazioni operaie e alla ribellione dei soldati del febbraio, avrebbe avuto l’autorevolezza e la forza di impugnare il potere ed esercitare quella svolta (innanzitutto sulla guerra, poi sulla distribuzione delle terre) che la maggioranza della popolazione invocava e per cui si era mobilitata da mesi nelle piazze. Eppure, nonostante questa possibilità, il Soviet di Pietrogrado rinunciò a questa occasione e lasciò alla Duma, nonché alla sua emanazione (il Governo provvisorio guidato da un nobile, il principe L’vov), la gestione della rivoluzione e della fase storica. Sulla base di questa indecisione, o piuttosto di un atteggiamento codino rispetto alla borghesia da parte dei rappresentanti del partito social-rivoluzionario e di quello menscevico (in maggioranza nei soviet), il processo di rivoluzionamento sociale complessivo in Russia si attestò per alcuni mesi in una sorta di limbo in cui gli interessi della fragile borghesia imperialistica e quelli della aristocrazia militare e filo-zarista (per quanto nascosta) trovavano convergenza nel proseguimento della guerra.

Tuttavia, il Governo post-zarista (non ancora formalmente repubblicano) non era consolidato: nonostante le posizioni continuiste rispetto alla guerra che avevano assunto, oltre ai liberali del partito dei cadetti (che avevano espresso il capo del governo, L’vov), social-rivoluzionari e menscevichi, che non volevano assumersi la responsabilità di imporre la resa della Russia di fronte all’aggressività tedesca, la rivolta popolare antimilitarista, guidata da operai e soldati, aveva messo radici profonde nel popolo russo, anche in quei settori contadini meno radicalizzati ed egemonizzati dai social-rivoluzionari. La propaganda bellica non avrebbe dunque attecchito, e l’ottusità degli esponenti liberali e socialisti moderati di fronte alle richieste popolari si sarebbe rivelata fatale per il Governo provvisorio.

La politica militare della Russia aveva determinato la saturazione delle masse popolari contro lo zar e, conseguentemente, anche contro il governo liberale nato nel febbraio/marzo del 1917: la scelta di non combattere per una difesa patriottica e popolare, ma per la conquista di territori a discapito degli ‘imperi centrali’ evidenziava il contrasto ideologico tra l’imperialismo politico-militarista imperiale e l’imperialismo economico-finanziario espressione delle nazioni capitalistico-industriali come Francia, Inghilterra, USA. La Russia, che per interessi territoriali e mire espansionistiche di natura politico-militare, si era trovata collocata (opportunisticamente) con lo schieramento “imperialista borghese”, aveva alimentato la contraddizione tra la formazione autocratica [aristocratico-militarista] e lo schieramento parlamentarista [economico-finanziario]: questo provocò la fine di qua(fine seconda parte)lsiasi legame ‘sentimentale’ con lo zarismo, ma provocò nelle masse popolari anche la delusione verso la repubblica parlamentaristica, nata con la prima rivoluzione del febbraio/marzo, che non aveva dato le risposte alle richieste inequivocabili di porre fine alla guerra e di avviare riforme economico-sociali necessarie.

Paradossalmente, per quel che Hegel avrebbe definito un gioco dettato dall’ “astuzia della Ragione”, la Storia si orientò in direzione del processo rivoluzionario proprio per la pervicacia con cui gli esponenti del Governo provvisorio vollero proseguire con quelle attività militari invise alla maggioranza della popolazione: con una sorta di rovesciamento dialettico, lo schierarsi con le potenze dell’Intesa e l’intenzione di proseguire nella guerra portò le forze politiche organizzate verso una radicalizzazione che incise sul depotenziamento della forma parlamentaristica e sulla credibilità e autorità del Governo stesso, mentre sempre di più i Soviet (di Pietrogrado come di Mosca) incanalavano e, via via, esprimevano il sentimento popolare crescente di astio verso la guerra, di anelito verso nuove relazioni sociali, di richiesta di una distribuzione delle terre e della ricchezza in maniera più equa. Questi elementi si andavano miscelando in maniera sempre più esplosiva, fino al culmine che avrebbe impedito impedendo allo schieramento social-liberale (sempre più debole con il prosieguo dei mesi) di mantenere il potere.

La svolta nelle vicende del 1917 avvenne con il rientro in Russia di alcuni protagonisti del marxismo russo, costretti all’esilio durante la repressione zarista negli anni successivi alla rivoluzione del 1905. Tra questi, ne indichiamo in particolare due, come rappresentanti della contrapposizione dialettica emersa nella concretezza delle vicende storiche: Plechanov e Lenin.

Il primo rappresentava il cosiddetto “marxismo ortodosso” [concezione che aveva sempre più assunto i toni di una filosofia della storia progressiva e positivista in cui la fase istituzionale parlamentar-borghese sarebbe stata una tappa fondamentale e non aggirabile dello sviluppo storico verso il socialismo]: egli influenzò e sostenne le posizioni mensceviche più collaborazioniste con la borghesia, appoggiando la linea filogovernativa di Certeli che vedeva nella repubblica borghese (ma democratica…) una tappa fondamentale dello sviluppo storico che le masse dovevano accettare.

Il secondo, al contrario, rappresentava una nuova elaborazione del pensiero marxiano, in cui le categorie dell’evoluzionismo sociale venivano sostituite con una visione dinamica (dialettica) della realtà in cui le fasi storiche, affastellate nella fase dell’imperialismo, dovevano essere necessariamente ripensate. Già qualche anno prima, peraltro, Lenin aveva messo a confronto l’esperienza della Comune di Parigi del 1871 con i tentativi rivoluzionari del 1905, evidenziando una prospettiva del tutto nuova anche rispetto all’analisi marxiana:

Il periodo che ha preceduto e preparato la rivoluzione russa presenta una certa rassomiglianza col periodo del giogo napoleonico in Francia. Anche in Russia la cricca autocratica aveva condotto il paese agli orrori della rovina economica e dell’umiliazione nazionale. Ma per lungo tempo la rivoluzione non ha avuto modo di esplodere perché lo sviluppo sociale non aveva creato le condizioni per un movimento di massa […]. Solo la socialdemocrazia, con un lavoro tenace e metodico, ha educato le masse alle forme di lotta superiori: le azioni di massa e la guerra civile armata. Essa ha saputo […] preparare con energia l’inevitabile tappa successiva della rivoluzione: l’insurrezione armata. Libero dalle illusioni «nazionali», il proletariato ha raccolto le sue forze di classe nelle organizzazioni di massa: soviet dei deputati degli operai e dei soldati, ecc. E, nonostante che gli scopi e i compiti posti dalla rivoluzione russa fossero completamente differenti da quelli posti dalla rivoluzione francese del 1871, il proletariato russo ha dovuto ricorrere allo stesso metodo di lotta a cui aveva dato vita la Comune di Parigi: la guerra civile. Ricordandoi suoi insegnamenti, esso sapeva di non dover trascurare i mezzi di lotta pacifici, che giovano ai suoi interessi quotidiani, correnti, e sono necessari nei periodi di preparazione delle rivoluzioni, ma sapeva anche di non dover mai dimenticare che, in determinate condizioni, la lotta di classe sfocia in forme di lotta armata e di guerra civile; vi sono momenti in cui gli interessi del proletariato esigono la spietata distruzione del nemico in combattimenti aperti(Lenin, Gli insegnamenti della Comune, 1908).

Ancora più chiaramente, in uno scritto del 1911 Lenin aveva delineato i caratteri della lotta parigina, per comprenderne errori e limiti, ma soprattutto per evidenziare le faglie interne agli schieramenti sociali del movimento rivoluzionario:

Gli operai furono i soli a restare fino alla fine fedeli alla Comune. I repubblicani borghesi e i piccoli borghesi se ne staccarono presto; gli uni furono spaventati dal carattere proletario, rivoluzionario e socialista del movimento, gli altri si ritirarono quando videro il movimento destinato a una sicura disfatta. Soltanto i proletari francesi sostennero senza paura e senza stanchezza il loro governo. Combatterono e morirono per la sua difesa, cioè per la causa dell’emancipazione della classe operaia, per un avvenire migliore di tutti i lavoratori. Abbandonata dai suoi alleati della vigilia e priva di qualsiasi appoggio, la Comune era destinata alla disfatta. Tutta la borghesia francese, tutti i grandi proprietari fondiari, tutti gli uomini della Borsa, tutti i fabbricanti, tutti i ladri grandi e piccoli, tutti gli sfruttatori, si unirono contro di essa. Questa coalizione borghese, sostenuta da Bismarck (che liberò 100.000 prigionieri di guerra francesi per sottomettere Parigi rivoluzionaria), riuscì a sollevare i contadini ignoranti e la piccola borghesia provinciale contro il proletariato di Parigi[…]. Due condizioni, almeno, sono necessarie perché una rivoluzione sociale possa trionfare: il livello elevato delle forze produttive e la preparazione del proletariato. Nel 1871, queste due condizioni mancavano. Il capitalismo francese era ancora poco sviluppato, e la Francia era ancora un paese prevalentemente piccolo-borghese (di artigiani, contadini, piccoli commercianti, ecc.). D’altra parte, non esisteva un partito operaio, la classe operaia non era né preparata né lungamente addestrata e, nella sua massa, non aveva un’idea chiara dei suoi compiti e dei mezzi per assolverli. Non esistevano né una buona organizzazione politica del proletariato, né grandi sindacati, né associazioni cooperative […] Nel campo puramente sociale, essa poté far poco; ma questo poco dimostra con sufficiente chiarezza il suo carattere di governo del popolo, di governo degli operai. Il lavoro notturno nelle panetterie fu proibito; il sistema delle multe, questo furto legalizzato a danno degli operai, fu abolito; infine, la Comune promulgò il famoso decreto in virtù del quale tutte le officine, fabbriche e opifici abbandonati o lasciati inattivi dai loro proprietari venivano rimessi a cooperative operaie per la ripresa della produzione. Per accentuare il suo carattere realmente democratico e proletario, la Comune decretò che lo stipendio di tutti i suoi funzionari e dei membri del governo non potesse sorpassare il salario normale degli operai (Lenin, In memoria della Comune, 1911).

In questi scritti già emergeva la consapevolezza che fosse necessaria un nuovo livello nella lotta politica, che avrebbe scatenato le reazioni borghesi e costretto gli operai a una difesa strenua delle proprie conquiste, del proprio governo degli operai.

Col ritorno in Russia nell’aprile del ’17, Lenin presentò subito una nuova e audace proposta programmatica, elaborata sulla base dell’intuizione di quanto stava accadendo nel paese, sparigliando le carte e rimettendo in discussione gli equilibri politici che si volgevano a vantaggio del proletariato e dei bolscevichi nei mesi precedenti all’Ottobre. La proposta fu scioccante anche per i suoi compagni, e infatti in un primo momento non fu condivisa neppure nel suo stesso partito: era un vero e proprio rovesciamento delle categorie marxiane che avrebbe sparigliato le vecchie (e ormai non più efficaci) concezioni del rapporto tra fase parlamentare e potere proletario. Lenin costruì una nuova prospettiva che avrebbe travolto le vecchi concezioni (anche quelle “evoluzioniste” e positiviste del “marxismo ortodosso”) a favore di una nuova concezione del potere che avrebbe egemonizzato le masse popolari.

Al rientro in Russia, nell’aprile, Lenin fece infatti leva su quel ‘dualismo di potere’ che si era prodotto non al fine di perpetuarlo e utilizzare i Soviet come mero condizionamento del Governo provvisorio e della Duma, come stavano facendo i suoi compagni di partito, ma per sferrare il colpo decisivo al potere della borghesia, sull’esempio della Comune di Parigi, ma su scala ben più ampia e storicamente avanzata.

Le Tesi di aprile furono il punto di svolta: innanzitutto, con il riconoscimento che “anche sotto il nuovo governo di L’vov e soci” la guerra che si stava combattendo era “incontestabilmente una guerra imperialistica di brigantaggio” fondata sul “carattere capitalistico” del Governo provvisorio; inoltre, Lenin delineava precisamente la fase storico-politica della Russia in quel momento:

La peculiarità dell'attuale momento in Russia consiste nel passaggio dalla prima tappa della rivoluzione, che, a causa dell'insufficiente coscienza ed organizzazione del proletariato, ha dato il potere alla borghesia, alla seconda tappa, che deve dare il potere al proletariato e agli strati poveri dei contadini (Lenin, Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale. Tesi di aprile, 1917).

Era dunque necessario svolgere un’azione educativa per “spiegare alle masse che i Soviet dei deputati operai sono l’unica forma possibile di governo rivoluzionario”. Perciò, la prospettiva a quel punto non poteva essere il ritorno alle “repubblica parlamentare”, bensì un passo avanti verso la “Repubblica dei Soviet di deputati degli operai, dei salariati agricoli e dei contadini in tutto il paese, dal basso in alto”, centrata su programmi avanzati di abolizione dei corpi repressivi (esercito, polizia, funzionari), di “nazionalizzazione” delle terre affinché fossero messe a disposizione dei soviet locali, della fusione delle banche private in una unica banca nazionale “sotto il controllo dei Soviet dei deputati operai”. Non si trattava di costruire il socialismo, ma di porre sotto controllo operaio il processo rivoluzionario:

Il nostro compito immediato non è “l’ instaurazione” del socialismo, ma, per ora, soltanto il passaggio al controllo della produzione sociale e della ripartizione dei prodotti da parte dei Soviet dei deputati operai.

Se fossero o meno maturi i tempi per la rivoluzione socialista è un dibattito che ha attraversato un secolo, anche con toni assai aspri, dividendo tragicamente i marxisti rivoluzionari filo-bolscevichi dai marxisti gradualisti e riformisti socialdemocratici, e di cui cercheremo di dar conto sinteticamente in questa breve riflessione: sicuramente, le contraddizioni emerse con la guerra scatenarono una reazione popolare ed un’accelerazione storico-politica degli eventi dal febbraio/marzo 1917 che consentirono ai bolscevichi la presa del potere che altrimenti non sarebbe stata possibile. Chi seppe sfruttare la situazione a vantaggio dei bolscevichi, orientando le masse popolari verso la rottura del quadro istituzionale bicefalo, fu Lenin, senza il quale si sarebbe continuato ad seguire (anche i bolscevichi stessi) le categorie del “marxismo ortodosso”, difendendo il già logoro governo provvisorio e le istituzioni parlamentar-borghesi, rinunciando all’accelerazione che avrebbe portato al potere il proletariato.

Si andavano approfondendo invece il malcontento e la diffidenza contro le forze liberal-borghesi, determinando le condizioni per l’ascesa della nuova formazione politico-sociale auspicata dal leader del partito bolscevico, Lenin, come struttura del nuovo potere popolare: il ‘dualismo di potere’ tra la Duma e i Soviet poteva essere superato solamente attribuendo il controllo dello Stato a questi ultimi organismi popolari, se si voleva interpretare correttamente il sentimento popolare che invocava la fine della guerra e che il Governo provvisorio continuava ad ignorare, rilanciando campagne militari sempre più disastrose quanto impopolari.

I contrasti tra il Governo provvisorio e le masse popolari continuavano ad aumentare, con l’ottuso atteggiamento di L’vov e Miljukov (Ministro degli Esteri) che imperterriti proseguivano le manovre belliche nel tentativo di espansione territoriale della Russia. Le nuove ondate di protesta provocarono un cambio della guardia nel governo presieduto da L’vov, con l’arrivo di nuovi ministri tra cui Kerenskij (al Ministero della Guerra), Cereteli (alle Poste), il social-rivoluzionario Černov (all’Agricoltura) che va avanti fino alla fine di luglio/inizio agosto quando Kerenskij assumerà la Presidenza del Governo provvisorio. Nei Soviet, nonostante menscevichi e social-rivoluzionari mantenessero la maggioranza rispetto ai bolscevichi, sempre più emergevano motivi di contrasto e contrapposizione con le istituzioni borghesi: la Duma e il Governo provvisorio.

In agosto, ai tentativi di Kerenskij di fare da garante di una tregua sociale tra operai e borghesi risposero i bolscevichi con la proclamazione di uno sciopero generale a Mosca. A seguito di una serie di mobilitazioni, a fine agosto/primi di settembre il generale Kornilov tentò di instaurare un regime militare che però venne contrastato dal Governo con l’aiuto degli stessi bolscevichi. L’episodio segna il punto di non ritorno: stavano maturando tutti gli elementi che avrebbero provocato la disfatta del Governo provvisorio e lo sfaldamento del regime parlamentaristico.

Il partito bolscevico aveva ormai la forza, la credibilità politica, la determinazione e la lungimiranza di un leader come Lenin per poter dare il colpo decisivo alle fragili e claudicanti istituzioni sorte dalla rivoluzione di febbraio.

(fine seconda parte)

28/10/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Giovanni Bruno

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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