Lenin: capitalismo di Stato, socialismo e comunismo

Le diverse fasi, in un paese arretrato e isolato, necessarie a realizzare la transizione alla società comunista.


Lenin: capitalismo di Stato, socialismo e comunismo Credits: https://www.spectator.co.uk/2017/03/how-lenin-manipulated-the-russian-revolution-to-his-own-ends/

Secondo Lenin, in particolare in un paese arretrato e rimasto isolato a livello internazionale, non era certo sufficiente la conquista del potere per via rivoluzionaria per poter realizzare, da subito, non solo una società comunista, ma nemmeno una società socialista quale necessaria fase di transizione alla prima. Come osserva a tal proposito: “questa prima vittoria non è ancora una vittoria definitiva ed è stata ottenuta dalla nostra Rivoluzione d’ottobre”. Tanto più che questa prima grande affermazione delle forze rivoluzionarie era stata conseguita solo passando, necessariamente, “attraverso ostacoli e difficoltà senza uguali, sofferenze inaudite, attraverso una serie di insuccessi e di errori grandissimi da parte nostra” [1].

Era perciò, come Lenin e molti degli stessi bolscevichi diverranno con il passare del tempo sempre più consapevoli, necessario attraversare diverse fasi transitorie fra due così diversi modi di produzione, in quanto non solo il comunismo, ma nemmeno il socialismo si possono realizzare per decreto o con uno sforzo volontaristico. Così, osserva ad esempio Lenin, ricordando le ingenue illusioni dei tempi eroici del comunismo di guerra: “trasportati dall’ondata dell’entusiasmo e avendo risvegliato l’entusiasmo popolare – prima genericamente politico e poi militare – noi contavamo di adempiere direttamente, sulla base di questo entusiasmo, anche i compiti economici non meno grandi di quelli politici e di quelli militari. Noi contavamo – o forse, più esattamente, ci proponevamo, senza aver fatto un calcolo sufficiente – di organizzare, con ordini diretti dello Stato proletario, la produzione statale e la ripartizione statale dei prodotti su base comunista in un paese di piccoli contadini” [2].

Doveva essere il corso del mondo stesso a rivelare ai nostri cavalieri della virtù il loro profondo errore, consistente nello scambiare le proprie aspirazioni soggettive, con quanto era possibile realizzare in quelle determinate e tragiche condizioni storiche oggettive. Queste errate valutazioni furono in parte necessarie, in quanto senza un grande spirito di utopia difficilmente si sarebbe potuto mettere in movimento un popolo così arretrato come quello russo e delle altre future repubbliche socialiste sovietiche. Osserva a tal proposito Lenin: “come se, da solo, un popolo arretrato avesse potuto vincere senza insuccessi e senza errori le guerre imperialistiche dei paesi più potenti e più avanzati del mondo! Noi non abbiamo paura di riconoscere i nostri errori e li esaminiamo spassionatamente per imparare a correggerli. Ma il fatto rimane: per la prima volta, dopo centinaia e migliaia di anni, la promessa di ‘rispondere’ alla guerra tra gli schiavisti con la rivoluzione degli schiavi contro tutti gli schiavisti è stata mantenuta fino in fondo e lo è stata malgrado tutte le difficoltà” [3].

D’altra parte fu proprio la sofferenza provata dinanzi all’infrangersi della propria ingenua utopia a far comprendere a Lenin e poi, più in generale, alla maggioranza del partito comunista che proprio tale profonda frustrazione era lì a dimostrare l’unilateralità del loro modo precedente di operare. Dunque, quando la vita stessa rende consapevoli gli ardimentosi rivoluzionari degli errori commessi, può sorgere allora la consapevolezza che occorrevano “una serie di fasi transitorie: il capitalismo di Stato e il socialismo, per preparare – con un lavoro di una lunga serie di anni – il passaggio al comunismo” [4].

Da notare che è lo stesso Lenin a sostenere che, presupposto necessario per arrivare allo scopo finale di una società comunista, in un paese isolato e arretrato, non è solo il socialismo, ma è lo stesso capitalismo di Stato che sembra svolgere la funzione di necessaria fase di transizione al socialismo in quelle condizioni così impervie. Osserva a tal proposito Lenin: “non direttamente sull’entusiasmo, ma con l’aiuto dell’entusiasmo nato dalla grande rivoluzione, basandovi sullo stimolo personale, sull’interesse personale, sul calcolo economico, prendetevi la pena di costruire dapprima un solido ponte che, in un paese di piccoli contadini, attraverso il capitalismo di Stato, conduca verso il socialismo, altrimenti voi non arriverete al comunismo, altrimenti voi non condurrete decine e decine di milioni di uomini al comunismo. Questo ci ha detto la vita. Questo ci ha detto il corso obiettivo seguito dalla rivoluzione” [5]. Dunque, oltre a prendersi la pena di edificare un capitalismo di Stato, come passaggio necessario per giungere, almeno in quelle condizioni, al socialismo, ci vuole anche l’entusiasmo rivoluzionario accompagnato però dalla subordinazione alla disciplina del lavoro e dallo stimolo all’aumento della produttività, legando il salario diretto all’impegno profuso nell’attività lavorativa. Come osserva del resto Lenin: “l’interesse personale eleva la produzione, e noi abbiamo bisogno dell’aumento della produzione, innanzitutto e a ogni costo” [6].

In altri termini, Lenin si rende conto che, per quanto possa apparire lontano dagli ideali comunisti, solo stimolando l’interesse individuale è possibile elevare la produzione, presupposto indispensabile ad ogni futuro sviluppo sulla via del socialismo. Allo stesso modo, per impedire ogni forma di sperpero in un’economia disastrata dalla guerra, è necessaria la repressione non solo degli sfruttatori, ma di chiunque rifiuti di subordinarsi alla disciplina del lavoro provocando disordini. Tale insubordinazione è il prodotto di un retaggio culturale duro a morire che spinge ancora diversi lavoratori, sebbene liberati dalla schiavitù del lavoro salariato, a sottrarsi in ogni modo alla necessaria disciplina del lavoro.

Del resto, la transizione al socialismo non è solo un processo economico, strutturale, ma deve essere accompagnato da un parallelo sviluppo antropologico e, dunque, anche sovrastrutturale, dell’uomo nuovo che si è formato in vista della realizzazione di una società socialista. Ecco che allora, ad esempio, Lenin fa notare che lo sviluppo della produzione agricola su larga scala presuppone, necessariamente, “l’esistenza di un proletariato rurale molto evoluto, consapevolmente rivoluzionario e che abbia ricevuto una buona educazione organizzativa, politica e professionale. Dove questa condizione non esiste ancora o dove non c’è la possibilità o l’opportunità di affidare quest’opera a operai industriali coscienti e competenti, i tentativi di passare prematuramente alla gestione statale delle grandi aziende agricole possono soltanto compromettere il potere proletario; e, quando si creano delle ‘aziende sovietiche’, sono necessarie la massima prudenza e la più seria preparazione” [7].

Dalla raggiunta consapevolezza di tali presupposti sorge in Lenin, per poi conquistare la maggioranza del partito, l’esigenza di fare un deciso passo indietro, dinanzi alla carica utopistica del comunismo di Stato, ripiegando sulla più realistica, in quelle condizioni, N.E.P. (nuova politica economica). Ecco come la necessità di tale delicato passaggio è giustificata da Lenin: “e noi, che in tre o quattro anni abbiamo imparato un poco a compiere svolte repentine (quando sono necessarie), abbiamo cominciato con zelo, con attenzione, con perseveranza (benché non ancora con abbastanza zelo, attenzione e perseveranza) a studiare la nuova svolta della ‘nuova politica economica’” [8]. Quest’ultima sembra, quindi, coincidere proprio con quella forma di capitalismo di Stato ritenuta da Lenin necessaria, quantomeno in quelle determinate condizioni di arretratezza, quale fase di transizione al socialismo. Tanto che Lenin la descrive sostenendo che in tale fase “lo Stato proletario deve diventare un ‘padrone’ cauto, scrupoloso, esperto, un commerciante all’ingrosso puntuale, perché altrimenti non potrà mettere economicamente sulla buona via un paese di piccoli contadini” [9].

Lenin utilizza di proposito termini forti, tinte fosche, per descrivere questa fase di necessario arretramento, sostenendo che lo Stato rivoluzionario deve divenire un “padrone”, un “commerciante all’ingrosso”, in quanto è pienamente convinto che in quelle condizioni di battuta d’arresto del processo rivoluzionario in occidente, “accanto all’Occidente capitalista (ancora capitalista per il momento), non c’è altro mezzo per passare al comunismo” [10]. Lenin si rende ben conto di quanto questa tragica esistenza sia lontana dagli ideali comunisti, ma affinché questi ultimi dal piano utopistico possano, nei tempi necessari, divenire reali, non ci si può sottrarre alle contraddizioni reali che lo stesso corso del mondo pone, che costringono il processo rivoluzionario a degli imprevisti detour. “Un commerciante all’ingrosso sembrerebbe un tipo economico lontano dal comunismo come il cielo dalla terra. Ma questa è appunto una delle contraddizioni che, nella vita reale, attraverso il capitalismo di Stato, conducono dalla piccola azienda contadina al socialismo. L’interesse personale eleva la produzione, e noi abbiamo bisogno dell’aumento della produzione, innanzitutto e a ogni costo” [11].

Al tempo stesso bisognerà, dunque, sviluppare forme di controllo e coercizione per far lavorare in modo regolare e disciplinato una parte significativa delle masse in preda “all’individualismo anarchico, all’esasperazione e all’irritazione più confusa, prodotto della brutale barbarie che accompagnano ogni guerra lunga e reazionaria” [12]. Tale lotta per vincere la mancanza di disciplina del sottoproletariato, il disordine piccolo-borghese richiede uno sforzo più complesso e di lunga durata della lotta per porre in condizione di non nuocere alta borghesia e grandi proprietari terrieri. D’altra parte, sostiene Lenin, “per quanto siano dure le sofferenze del periodo di transizione, le calamità, la fame, lo sfacelo, noi non ci perderemo d’animo e, ad ogni costo, condurremo la nostra causa a una conclusione vittoriosa” [13]. Infine, dal principio di sottoporre e vagliare l’intera società alla luce della disciplina del lavoro, non deve sottrarsi lo stesso partito, che per Lenin dovrebbe essere costantemente tenuto pulito da chi non abbia dimostrato con il lavoro pratico il proprio diritto a far parte dell’avanguardia.


Note

[1] V. I. Lenin, Per il quarto anniversario della rivoluzione d’ottobre [ottobre 1921], in Sulla rivoluzione socialista, Edizioni Progress, Mosca 1979, p. 570.
[2] Ivi, p. 572.
[3] Ivi, p. 570.
[4] Ivi, p. 572.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 573.
[7] Id., Primo abbozzo di tesi sulla questione agraria [giugno-luglio 1920], in Sulla rivoluzione… cit., p. 510.
[8] Id., Per il quarto…, cit., in Sulla rivoluzione… cit., p. 572.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, pp. 572-73.
[12] Id., Sei tesi sui compiti immediati del potere sovietico [aprile-maggio 1918], in Sulla rivoluzione…, cit., p. 320.
[13] Id., Per il quarto…, cit., in Sulla rivoluzione… cit., p. 573.

26/01/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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