Dalla crisi di governo al conflitto sociale

Il governo più egemonizzato dalla destra radicale dal dopoguerra a oggi è in crisi, i fratelli nemici del capitale litigano, le larghe intese di nuovo all’orizzonte o un governo giallo-verde bis? È tempo di reagire.


Dalla crisi di governo al conflitto sociale Credits: https://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/super-mario-non-ci-lasciare-preoccupazione-mattarella-dopo-205515.htm

Avevamo chiuso l’editoriale della scorsa settimana prendendo atto dell’assordante silenzio della sinistra radicale di classe sulla dirompente crisi di governo. Poco dopo abbiamo potuto leggere una presa di posizione dei massimi dirigenti del Prc (Acerbo e Ferrero), che hanno attaccato i leader del Pd e del M5s perché non hanno impedito una certa vittoria elettorale della destra radicale costruendo subito insieme un nuovo governo. Dopo aver giustamente criticato tanto il Pd quanto i M5s per essere stati corresponsabili della crescita esponenziale della destra radicale, gli hanno intimato di non venire più a chiedere voti utili per impedire un governo pericolosamente spostato a destra, se ora che potevano farlo non lo hanno fermato proponendo un governo alternativo.

Dinanzi all’assurda posizione di Zingaretti che, pur di cercare di sostituire deputati a lui fedeli ai renziani, ha spinto per andare subito al voto, consegnando il paese alla destra radicale (con la segreta speranza di reimporre il bipolarismo) dinanzi a un prossimo governo apertamente di destra, spererebbe, pur non proponendo un programma realmente alternativo dal punto di vista economico e sociale, di presentarsi agli elettori come l’unico candidato in grado di bloccare la destra radicale, sul modello di Chirac o Macron in Francia. Nel frattempo, i renziani e Calenda hanno continuato una assurda guerra intestina mirando, per altro, allo stesso obiettivo, ossia quello di realizzare anche in Italia un equivalente del modello centrista realizzato in Francia di En marche, in grado di divenire il principale punto di riferimento politico per i poteri forti nazionali e internazionali. All’infuori delle teatrali esternazioni di Di Battista che nostalgicamente non riesce a superare l’infatuazione per la Lega, additando Salvini quale traditore e sostenendo che ci siano personaggi “più affidabili” nel Carroccio, Di Maio, l’unica voce autorevole a pronunciarsi del M5S, non va al di là della proposta-kamikaze di votare la drastica riduzione dei parlamentari e andare subito al voto, rafforzando in tal modo il netto successo della destra radicale. Infine, i leader dei sindacati maggiormente rappresentativi, con la consueta miopia, hanno invocato, sostanzialmente all’unisono con il grande capitale, un ritorno solerte alle urne per dare un governo certo al paese che abbia lo scopo di riaprire la concertazione, divenuta il programma massimo dei sindacati confederali. In questo sempre più assurdo teatrino della politica politicante la proposta di Acerbo-Ferrero sembrava, quanto meno, ispirata al sano buon senso.

Al contempo, però, la proposta di Acerbo e Ferrero aveva un tratto inquietante in quanto faceva di necessità virtù. Prendendo consapevolezza della propria impotenza a intervenire direttamente in un momento essenziale dello scontro politico in atto, ci si limitava a dare dei buoni consigli, da spettatori della politica. Inoltre, come accade spesso, il buon senso si dimostra ben presto miope, in quanto coglie il pericolo immediato, il governo della destra radicale, ma sembra non vedere che un nuovo governo fra i qualunquisti grillini e il Pd – sempre di più divenuto il partito dell’austerità e dei vincoli imposti dai mercati, ovvero dal grande capitale finanziario, sempre in nome del T.i.n.a. (there is no alternative) – porterebbe a un’ulteriore crescita esponenziale della destra radicale e presumibilmente a una ripresa della stessa estrema destra, al momento cannibalizzata dalla Lega.

D’altra parte la posizione Acerbo-Ferrero ha incontrato in tempi rapidissimi, proprio per il suo apparire dotata di buon senso, un larghissimo consenso. A schierarsi quasi subito su una posizione sostanzialmente analoga, anche se più timida, ma al momento più realista, sono stati a sorpresa i renziani che, timorosi di perdere le poltrone alle elezioni dopo aver fatto la guerra a chiunque del loro stesso partito aveva proposto una qualche intesa con i grillini, per bocca dello stesso Renzi (e nonostante la precedente netta opposizione del suo partito al taglio dei parlamentari) si dichiarava pronto ad appoggiare la drastica riduzione proposta immediatamente da Di Maio per formare poi insieme un governo in grado di traghettare il Paese, dopo aver mutato la riforma elettorale, alle urne. La riforma da cambiare, detto tra parentesi, era stata voluta proprio dai renziani – di cui al tempo era parte integrante Zingaretti – anche perché oltre ad azzerare la sinistra rafforzava la Lega. In tal modo i renziani avevano invano sperato di poter intercettare il voto utile.

A questo punto, secondo colpo di scena: dopo un lungo periodo di silenzio, rotto di tanto in tanto solo per sostenere la disastrosa leadership di Di Maio, Beppe Grillo gridava che l’imperatore era nudo, ovvero che non si poteva lasciare il paese ai nuovi barbari. Come se il suo partito non si fosse schierato con i nuovi barbari nel parlamento europeo, per poi governarvi in Italia sino a che il leader di questi ultimi aveva deciso di staccare la spina. D’altra parte il comico non poteva non rendersi presto conto di rischiare di perdere, andando nella direzione dell’inciucio con i renziani – pur di non dare la parola agli elettori – il suo credito populistico conquistato cavalcando la più becera antipolitica. Così Grillo ha rettificato, aggiungendo che bisognava sì fermare i barbari ma senza trattare con Renzi.

Nel frattempo tutta la sinistra radical, in parlamento e attraverso “Il manifesto”, si dichiarava sostanzialmente compatta nel dimostrarsi disponibile a baciare per l’ennesima volta il rospo e accettare un governo di larghe intese pur di non consegnare subito il governo alla destra radicale. Tanto che uno degli intellettuali più preparati ed eminenti di questa area politico culturale, Massimo Villone – su “Il manifesto” del 14 agosto – arrivava a chiedere a Mattarella di dare l’incarico di governo a un uomo di grande spessore come Draghi per poter realizzare un governo di larghe intese. Nei fatti, dunque, si arrivava a proporre una sorta di Monti bis pur di non concedere subito il governo alle destre, con la quasi certezza di far perdere però qualsiasi residua popolarità ai fautori di questo nuovo governo lacrime e sangue, dando molto maggiore credito al populismo della destra radicale ed estrema permettendogli di radicarsi ancora di più fra i subalterni, parabola peraltro già percorsa in modo identico in passato, dalla destituzione del governo Berlusconi nel 2011 in poi, sino all’affermazione del penta-leghismo alle scorse elezioni politiche.

A consentire al Pd di non spaccarsi e uscire dall’impasse, con un nuovo colpo di scena, ci ha pensato il centro franceschiniano con una proposta dell’uomo per tutte le stagioni ossia Bettini che, senza citarla, riprendeva la proposta lanciata da Acerbo-Ferrero, accettando di votare la riduzione dei parlamentari voluta dai qualunquisti grillini, per formare con loro un governo in grado di guidare il paese sino alla fine della legislatura, per cambiare, tra l’altro, la legge elettorale.

Su questa proposta, come abbiamo detto apparentemente di buon senso, sembravano convergere un po’ tutti. Dai radical, alle diverse anime del Pd, fino ai grillini di “sinistra” e i radicali, tentando persino qualche parlamentare di Forza Italia. Al punto da costringere, per la prima volta, Salvini, a un penoso dietro front. Dichiarando di aver cambiato idea e di essere d’accordo con Di Maio riguardo la riduzione dei parlamentari per poi andare subito alle urne. Ma ormai era troppo tardi. Tanto che persino Giorgetti, punto di riferimento nella Lega dei poteri forti, ha preso le distanze dal “capitano”, dicendo che la crisi di governo era da attribuire al solo Salvini e che lui non avrebbe agito allo stesso modo, dimostrando quanto facilmente, nella Lega, possano potenzialmente susseguirsi ammutinamenti senza scrupoli nei confronti del capo di turno a seconda dell’aria che tira o dell’interesse da servire.

A questo punto – anche perché, non sapendo il più delle volte che pesci prendere, membri del Pd, del M5s, della sinistra radical e dei sindacati confederali non hanno fatto che ripetere che comunque la decisione spetta al Capo dello Stato – è probabile che dirimente sarà la posizione che assumerà Mattarella. Rebus sic stantibus lo scenario più probabile è che si avveri la speranza di Villone, ovvero che Mattarella si orienti come il suo predecessore e compagno di partito Napolitano, puntando su un governo di legislatura di grandi intese guidato da un tecnico che garantisca che l’Italia rispetti nel modo più ligio in politica interna i dettami della Troika in politica estera quelli della Nato. Anche perché (aspetto, negli scorsi giorni, osservato anche da Renzi) si accorciano i tempi per dotare il Paese di un governo affidabile che esprima una nomina a Commissario europeo altrettanto affidabile per i poteri forti, nel nuovo quadro UE a trazione Von der Leyen. Il timore per lorsignori è che l’Italia (o meglio: le sue aree produttive, della cui autonomia si è molto discusso, curiosamente senza attriti, anche nel corso nell’ultimo governo), impaludata in questa crisi di governo in un momento tanto delicato per il nuovo rilancio ultra-liberista dell’Unione Europea, resti fuori dai giochi.

Dunque, lo scenario più pericoloso è il riprodursi di uno schema a cui abbiamo più volte assistito negli ultimi anni, ovvero un governo tecnico, come quello di Amato, Ciampi, Dini e Monti che produca una politica apertamente neoliberista e antipopolare, facendo perdere popolarità alla sinistra parlamentare e ai sindacati confederali che li avevano sostenuti o non (adeguatamente) contrastati. Ma con un nuovo colpo di scena dell’ultima ora, Salvini, pressato presumibilmente dalle stesse forze sociali che lo avevano spinto a rompere con il governo, sembra costretto a cercare un accordo a tutti i costi coi 5 stelle per evitare lo spettro di un governo politico alternativo.

Naturalmente questi inquietanti scenari non sono il prodotto del fato o di un oscuro destino, dal momento che ognuno di noi è, in modo più o meno consapevole, il principale responsabile del proprio destino. Questo vale a maggior ragione per le masse popolari (i subalterni e in primis il proletariato), le forze progressiste (sinceramente democratiche) e le forze comuniste (rivoluzionarie). Queste forze collettive unendosi nella lotta contro il partito del pensiero unico capitalista potrebbero, se non nell’immediato, in termini relativamente rapidi invertire la situazione. Iniziando dal contrastare da subito nei luoghi di lavoro, di formazione della forza-lavoro, nei quartieri proletari e, quindi, nelle piazze le diverse proposte politiche egualmente perniciose poste in campo dal nemico di classe. Se anche non si sarà in grado, vista la mancanza di coscienza di classe, di organizzazione, di impedire la formazione di un nuovo governo antipopolare, si accumuleranno le forze necessarie a dare battaglia politica, economica, sociale e culturale contro il prossimo governo. In effetti, persino contro i governi di destra (filo-capitalisti) e i tecnici che si sono succeduti negli ultimi anni si sono riuscite a ottenere delle vittorie parziali più o meno significative quando si è ricostruito un abbozzo di blocco sociale antagonista al dominante in grado di organizzarsi per combatterlo.

Per quanto la situazione generale, sul piano del teatrino della politica, è senz’altro sconfortante, nelle piazze in cui il leader della destra radicale si presenta sembra incontrare contestazioni sempre più efficaci di segmenti di questo potenziale blocco sociale antagonista, non ancora organizzato e, quindi, incapace di dare una direzione consapevole alla conflittualità che spontaneamente sembra tornare in campo. Del resto, nessuna alchimia politica o, peggio politicista, nessuna delega politica o sindacale e, tanto meno, istituzionale, potrà toglierci le castagne dal fuoco. Siamo noi gli artefici del nostro destino e dobbiamo, dunque, in primo luogo come comunisti ritrovare l’unità dal basso, dal conflitto sociale, politico e culturale, per poter contribuire a ricostruire un blocco sociale antagonista in cui il proletariato sia egemone sui settori dei ceti medi, della piccola borghesia e del sottoproletariato che si riusciranno a coinvolgere.

Se non saremo in grado di praticare questo obiettivo - anche e soprattutto fuori dalle potenziali (e spesso deludenti) performance elettorali - rischieremo di ridurci al tragico ruolo di Cassandra, ossia di chi è in grado di prevedere gli esiti tragici degli eventi, senza essere capace di convincere ad organizzarsi, per tenervi testa, le forze che solo sono in grado di impedirli. Se non vogliamo ridurci a semplici spettatori, magari attenti e arguti, ma sostanzialmente passivi della politica dobbiamo, innanzitutto, abbandonare le piccole ambizioni che ci hanno portato negli ultimi anni a considerare strategico rafforzare la nostra, nei fatti, inefficace organizzazione, per riprendere a praticare la grande ambizione di voler rivoluzionare lo stato delle cose attraverso un nuovo assalto al cielo.

17/08/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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