“Chi rom e... chi no”, dalla baracca a Chikù

“Chi rom e…chi no” ha radicato la sua azione pensando alla periferia come spazio laboratoriale di pratica politica da portare avanti con i suoi abitanti: bambini, giovani, adulti, famiglie rom e napoletane.


“Chi rom e... chi no”, dalla baracca a Chikù

Spazi, persone, relazioni e piccole rivoluzioni. “Chi rom e… chi no” ha radicato la sua azione attraverso interventi culturali, pedagogici e sociali, lavorando intorno all’idea della città come luogo di condivisione e crescita collettiva, pensando alla periferia come spazio laboratoriale di pratica politica da portare avanti con i suoi abitanti: bambini, giovani, adulti, famiglie rom e napoletane.

di Emma Ferulano

L’associazione “Chi rom e… chi no” nasce a Scampia, periferia nord di Napoli, nel 2002.

Scampia è una periferia metropolitana, caratterizzata da un tasso giovanile tra i più alti d’Italia, dove l’organizzazione del lavoro illecito è favorita anche dalla mancanza di opportunità formative e lavorative, un territorio condiviso tra la comunità italiana e quella rom. È un territorio eterogeneo e complesso, con ancora addosso i segni di un incompleto sviluppo di una urbanizzazione iniziata negli anni ’60 e incompiuta in termini di servizi e di strutture essenziali per una vita armoniosa dei suoi numerosi abitanti [1].

Da oltre 25 anni accanto alle famiglie napoletane emigrate da altri quartieri sia in seguito al terremoto che alla ricerca di nuove abitazioni nell'espansione del centro città verso la periferia, convive una considerevole comunità rom proveniente dalla ex Jugoslavia, arrivata a Napoli attraverso una migrazione avvenuta in varie fasi a partire dagli anni '70 e diventata più rilevante durante le guerre balcaniche degli anni '90.

Dell’arrivo e della presenza dei rom in zone all’epoca ancora rurali, sono testimoni gli abitanti napoletani del quartiere, che nello stesso periodo arrivavano bambini a Scampia o le cui famiglie si erano trasferite poco tempo prima, occupando le palazzine dei nuovi rioni limitrofi alla campagna.

Queste comunità sono stanziali nel territorio e raggiungono una presenza, in assenza di dati pubblici e ufficiali, stimabile tra le 700 e le 800 persone, di cui almeno la metà minori, allocati in abitazioni autoprodotte – le baracche - con materiali di scarto, prevalentemente legno e lamiera. Il campo non autorizzato di Via Cupa Perillo è diviso in cinque gruppi per appartenenza familiare e geografica, sono famiglie rom provenienti in prevalenza dalla Serbia, dalla Macedonia, in maniera residuale dalla Croazia e Kosovo e, in numeri davvero esigui, dalla Romania e Bulgaria. I campi sono collocati all’interno del quartiere in una zona chiusa al traffico, confina con un’area che presenta ancora reminiscenze del suo passato agricolo che alcune famiglie rom e qualche anziano contadino continuano a tenere in vita.

“Chi rom e… chi no” ha radicato la sua azione attraverso interventi culturali, pedagogici e sociali, lavorando intorno all’idea della città come luogo di condivisione e crescita collettiva, pensando alla periferia come spazio laboratoriale di pratica politica da portare avanti con i suoi abitanti: bambini, giovani, adulti, famiglie rom e napoletane. Tra il 2003-2004, in piena faida di camorra, un lungo periodo buio caratterizzato da paura, morte, isolamento, disperazione, decidemmo di esplorare Scampia con un gruppo di giovani rom e non rom, di uscire per strada sfidando ostilità e pregiudizi, per catturare le bellezze nascoste e oscurate del quartiere e dei suoi abitanti e raccontare una storia differente.

L’idea della trasformazione degli spazi pubblici è stata portata avanti con spirito utopico attraverso l’autocostruzione con gli abitanti rom di una baracca “abusiva”, spazio autogestito e autofinanziato in uno dei campi non autorizzati di Via Cupa Perillo, luogo per definizione ai margini dei margini. La baracca è diventata nel tempo ‘spazio pubblico e culturale’ della città, luogo di incontro, confronto e crescita collettiva, in cui sperimentare e condividere con gli abitanti del campo e del quartiere, pratiche pedagogiche, di politica attiva, di disobbedienza civile e organizzata. La baracca è stata definita un avamposto culturale, simbolo di una città aperta e accogliente, grazie alla quale cittadini gagè, non rom, da Napoli e dall’Italia, per la prima volta sono entrati in un campo, scoprendo la semplicità delle relazioni con un mondo e con persone considerate fino a poco prima troppo distanti, diverse, inavvicinabili. Diventa rapidamente luogo di scambio e riflessione, di controinformazione e critica sociale, in cui accanto ai percorsi pedagogico interculturali e ai laboratori, si sviluppa un movimento che inventa modi per prendersi cura e riappropriarsi degli spazi pubblici, per discutere in tempi non sospetti di superamento dei campi rom e di percorsi di housing, con la partecipazione attiva e critica degli abitanti.

Il campo, da sempre e dappertutto, è considerato simbolo di esclusione sociale, il luogo dove lo stato d’eccezione diventa ordinario (Agamben, 2003), in spregio alla regolare legislazione e alla tutela dei diritti. E così come il campo rom, anche Scampia per tanti, purtroppo ancora ora, rappresenta nell'immaginario collettivo il luogo periferico per eccellenza, il non luogo in cui lo spazio della relazione è assente e difficilmente può esistere, un territorio in cui imperversano criminalità e conflitti sociali, un posto molto pericoloso, da cui è meglio tenersi a debita distanza di sicurezza, da non vedere, non conoscere per non rischiare di farsi contaminare. Da molti anni proviamo a dimostrare il contrario, confrontandoci con i sogni e i bisogni delle persone, attraverso concrete iniziative rispettose delle storie di vita di ciascuno. Scampia, con i suoi rioni e i suoi campi rom, è dunque un territorio in cui la contaminazione culturale e la convivenza pacifica sono dati di fatto, un contesto fragile ma fortemente resistente dove a partire dalla condivisione di esperienze è stato possibile creare e consolidare relazioni significative e trasversali tra le persone e le comunità.

Gli interventi che negli anni hanno preso corpo e forma nella baracca e in altri spazi significativi del quartiere - Gridas [2], Auditorium, Vele e altri rioni - spesso autofinanziati, sono rivolti all’infanzia – laboratori di carnevale, colonie estive, doposcuola, percorsi all’interno delle scuole – agli adolescenti – inchieste sociali territoriali, murales di strada, il decennale progetto pedagogico teatrale Arrevuoto [3], sostegno alla formazione – agli adulti, in particolare le donne – supporto legale, percorsi di alfabetizzazione e scolarizzazione, sostegno all’inserimento lavorativo, progetto La Kumpania, percorsi gastronomici interculturali, autoproduzione di video partecipati, partecipazione e pubblicazione di inchieste sociali e territoriali, produzione di documenti e di materiali di controinformazione.

Nel 2008, in maniera informale le donne romnì iniziano a cucinare nel campo per gli eventi pubblici che si realizzano nel baracca e allestiscono tavolate conviviali in cui rom e non rom, mai incontrati prima tra di loro, condividono piatto, parole e pensieri.

Nel settembre 2010, grazie ad un bando vinto con la Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le Pari Opportunità – UNAR, nasce La Kumpania Percorsi Gastronomici Interculturali, che mette insieme dodici donne rom e italiane di Scampia.

Il percorso unisce la cucina - come strumento di emancipazione economica e professionale – con l’esperienza interculturale, la lotta alle discriminazioni etniche, sociali e di genere, la sperimentazione di modelli di economia e produzione ecosostenibile, la valorizzazione degli spazi.

Dal 2011, La Kumpania inizia a vincere premi internazionali di innovazione sociale.

Il 3 giugno 2013 Chi rom e… chi no vince con la Kumpania il premio di innovazione sociale ‘Naples 2.0’ promosso da Unicredit Foundation e Fondazione con il Sud, ricevendo un contributo che permette lo start-up della prima impresa sociale interculturale formata da rom e italiani.

In un contesto fortemente deprivato, abbiamo introdotto l’idea del lavoro come parte integrante dei percorsi di vita, inserito nei tempi e nei ritmi quotidiani di ciascun individuo. Abbiamo sperimentato come la cucina sia diventata un potente veicolo di incontro tra donne rom e italiane, che sono riuscite nel corso degli anni ad abbattere stereotipi e pregiudizi negativi reciproci, a considerare le diversità una ricchezza per la collettività e a privilegiare il lavoro di gruppo, unite in una progettazione comune che ha acquisito gradualmente forza, bellezza e lungimiranza.

Il recupero di un rapporto sano con il cibo, l’alimentazione, l’ambiente circostante, la valorizzazione del patrimonio gastronomico e la contaminazione delle esperienze, la spinta all’aggregazione e la ricerca di passioni comuni sono tutti elementi che hanno contribuito alla nascita della Kumpania.

Le donne de La Kumpania sono accomunate dalla volontà di costruire coraggiosamente e in maniera sperimentale un processo di emancipazione verso un’autonomia personale e professionale dimostrando di essere capaci di “rischiare”, di fuoriuscire dai propri spazi abituali – il campo, il rione, i contesti familiari - di confronto e messa in discussione continua.

Il rischio e l’investimento personale e collettivo sono stati i punti cardinali attorno ai quali il gruppo intero ha ruotato in questi anni e grazie ai quali abbiamo superato ogni aspettativa iniziale. La continua ricerca di strategie e la ‘rottura’ di molte cornici di riferimento, perché certi di una metodologia vincente e di dover privilegiare le relazioni a discapito di regolamenti e burocrazie, hanno permesso la partecipazione di donne che altrimenti sarebbero escluse da tutti gli ambiti della società, sopravvivendo in un limbo giuridico e sociale. Così ad esempio, la battaglia legale in corso per l’ottenimento del permesso di soggiorno di alcune rom, apolidi di fatto, non ha impedito il loro inserimento nel percorso lavorativo già da subito. Oppure l’attivazione di uno spazio dedicato ai figli delle donne e di un gettone di rimborso spese, con fondi davvero esigui, perché altrimenti sarebbe stato impossibile per loro dedicarsi alla formazione professionale. I percorsi di alfabetizzazione paralleli per conseguire una licenza media sempre tralasciata. O la disponibilità a cucinare per i servizi di catering in giro per l’Italia, senza avere uno spazio comune, senza una cucina professionale, a volte senza corrente nel caso del campo, e quindi con la stufa a legna, riuscendo a esportare piatti prelibati che hanno soddisfatto sempre tutti, da Napoli a Milano. L’altro passaggio necessario, è stato il coinvolgimento continuo delle comunità di riferimento, delle famiglie: senza il loro supporto e riconoscimento, non sempre facile da ottenere, sarebbe stato impensabile muoversi in maniera così ampia per questo gruppo a maggioranza femminile ispirato e guidato profondamente da una grande utopia.

Nell’aprile 2013 La Kumpania si è costituita in una SRLS a capitale ridotto – Impresa sociale. I tempi sono maturi per ipotizzare di raggiungere una fonte di reddito autonoma, svincolarsi dai finanziamenti pubblici o privati, creare lavoro, provando a mantenere lo stesso spirito di sempre. Lo statuto de La Kumpania SRLS prevede l’impossibilità di ripartire gli utili tra i soci, ma di reinvestirli nelle attività sociali, pedagogiche e culturali di Chi rom e… chi no.

La ricerca dello spazio in cui consolidare l’attività culinaria e aprire un nuovo polo culturale come evoluzione della baracca, che ha resistito dieci anni, non è durata troppo.

Sopra l’Auditorium di Scampia - spazio sottoutilizzato del quartiere che abbiamo aperto con i cento adolescenti del progetto Arrevuoto che mettevano in scena ‘Pace!’ di Aristofane, nel lontano 2005 con ancora i segni della guerra di camorra – c’è il cosiddetto comparto 12, spazio comunale, che nasce come bouvette del teatro – ma mai usata come tale – che per circa 15 anni è stata gestita da un privato come luogo di cerimonie, paninoteca e american bar. Un giorno, durante una prova di Arrevuoto, rincorrendo i ragazzini in preda al solito eroico furore, ci rendiamo conto che lo spazio non interessa più al vecchio gestore, e ci sembra la nostra naturale espansione vista la presenza dell’Auditorium. Possiamo così coniugare attività di ristorazione e attività culturali e rendere il nuovo spazio aperto e fruibile per il quartiere e per la città: la periferia si scrolla di dosso le accezioni negative e si afferma come centro creativo e propulsore di cultura, emancipazione collettiva, trasformazione, accoglienza. Ma questo è un obiettivo di lungo termine, a Napoli le barriere mentali che separano centro e periferia sono ancora dure a morire. Lo spazio con le sue terrazze con vista sulla villa comunale di Scampia, dopo un paio d’anni di grovigli burocratici, ci viene affidato attraverso un bando pubblico in comodato d’uso gratuito, per una giovanissima impresa a vocazione sociale come la nostra sarebbe impossibile restare in vita pagando un considerevole affitto, viste le dimensioni dei locali. Ma c’è un altro punto fondamentale: lo spazio è sottoutilizzato e vuoto, il nostro intervento porta manutenzione, attrezzature, progettazioni all’avanguardia su vari livelli, crea lavoro in un quartiere con alti tassi di disoccupazione, mette insieme una comunità di persone intente in un’opera collettiva, come tutte quelle che abbiamo realizzato finora, rende vitale metri e metri di spazi destinati a marcire.

Il 17 novembre 2014 s’inaugura il primo ristorante italo – rom di Napoli e d’Italia, Chikù Gastronomia Cultura Tempo libero, che mette insieme le due anime – Chi rom e… chi no e kumpania –, punto di riferimento locale e cittadino. Il connubio tra le due organizzazioni, la continua contaminazione tra persone, idee, provenienze geografiche e patrimoni esperienziali, lo colloca in una dimensione di sostenibilità e sviluppo di idee e progetti dal carattere innovativo e visionario.

Le dieci persone che vi lavorano sono tutte a contratto a tempo indeterminato, per una precisa scelta etica, per non escludere nessuna e nessuno, rispettando i limiti e le lentezze di tutti. Il lavoro in gruppo è prezioso, ma necessita di una attenzione costante agli equilibri individuali ed è frutto di una continua mediazione e contenimento di spinte competitive e individualiste.

Chikù, caso unico in Italia, rappresenta una sfida in un’epoca caratterizzata da populismo, odiose strumentalizzazioni e paure crescenti, soprattutto nei confronti dei rom, poiché dimostra visibilmente e concretamente che la convivenza e lo scambio culturale non solo sono possibili ma sono addirittura vantaggiosi e proficui, perché la maggioranza di donne che animano il luogo destabilizzano l’idea maschile di potere, perché è uno spazio prezioso che non ci si aspetta di trovare incastonato sulle rampe del polifunzionale di Scampia.

Il menù di Chikù è composto da piatti della tradizione italiana e in particolare napoletana e della tradizione rom e più precisamente balcanica, che subiscono continue contaminazione reciproche, sia per l’utilizzo degli ingredienti che per la necessità di sperimentare, osservare, innovare, inventare. L’utilizzo di prodotti stagionali, possibilmente a chilometro 0, bio, è una condizione essenziale per la composizione dei menù che si alternano tra quelli quotidiani della ristorazione diurna, semplici e alla portata delle tasche di tutti, e quelli più elaborati legati ad eventi, catering esterni, cerimonie. Dalla combinazione delle due cucine e da un affiatato lavoro di gruppo sono nate nuove e originali ricette. Anche la pasticceria e la rosticceria fanno parte dell’offerta di Chikù. La sfida è offrire una cucina di qualità, sana, gustosa e alla portata di tutti.


Note


1) Secondo l’ultimo censimento ufficiale nell’VIII Municipalità risultano residenti ca. 92.000 persone, senza considerare tutta quella fascia di ‘residenti’ di fatto che sono sprovvisti di documenti e quindi invisibili, come nel caso di molti rom.

2) Il Gridas è il primo centro sociale occupato Napoli nel 1981 da Mirella e Felice Pignataro, il muralista che ha portato luce, colori, critica sociale sui grigi muri delle periferie di tutta Italia, inaugurando una stagione di graffitisti e writer che tuttora fa arrivare giovani da tutta la città e dall’Europa a Scampia per proseguire la sua opera e lasciando tracce indelebili, per gli edifici e per gli abitanti che vengono coinvolti, negli ampi meandri del quartiere. Il Gridas è inoltre il fondatore del Carnevale di Scampia, giunto al suo 33° anno di età, precursore assoluto del riciclo e del riutilizzo dei materiali con cui vengono costruiti carri e maschere che sfilano per tutto il quartiere, sfidando le intemperie, le piazze di spaccio, l’isolamento e la paura

3) Progetto pedagogico teatrale iniziato nel 2005, www.arrevuoto.org

 

19/09/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Emma Ferulano

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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