È utile il populismo di sinistra?

Può essere utile alla sinistra servirsi del bagaglio teorico e storico del populismo per uscire dal suo attuale minoritarismo?


È utile il populismo di sinistra?

Nello scorso numero ci eravamo interrogati sulla possibilità stessa di un populismo di sinistra. Nel tentativo di risolvere tale questione ci eravamo imbattuti nella difficoltà che il populismo, nella sua attitudine praticista, tende a considerare inessenziali o, comunque, storicamente superate le stesse distinzioni teoriche fra destra e sinistra. Nella sua tendenza antiuniversalistica, gli universali come destra e sinistra appaiono generalmente al populista meri flatus vocis, ossia pure emissioni di voce, vuote parole prive di un significato reale, concreto. Il suo approccio antiteoretico e inconsapevolmente positivista, mira a prendere in considerazione i puri fatti e a guardare con sospetto le impostazioni teoretiche e teoriche, che considera ideologiche nel senso negativo del termine, ossia dei meri sofismi. Ecco che, forse il più noto uomo politico esplicitamente populista, il generale e a più riprese presidente dell’argentina Juan Domingo Perón ha sostenuto apertamente la necessità di superare la distinzione ideologica fra destra e sinistra, come più recentemente hanno fatto i suoi epigoni italiani pentastellati e buona parte dei sostenitori della necessità di un populismo di sinistra.

Anche in tal caso la Historia magistra vitae dovrebbe metterci sull’allarme, in primo luogo perché tale concezione ha generalmente favorito le tendenze qualunquiste e antipolitiche che, in nome del contrasto al politically correct,hanno finito il più delle volte per favorire il revisionismo o meglio il rovescismo storico. Ecco, dunque, che Perón non solo nei suoi discorsi amava citare Hitler, ma, dopo la seconda guerra mondiale, ha anche dato asilo nel suo paese, cercando di sfruttarli a proprio vantaggio, ad alcuni dei peggiori criminali nazisti. Allo stesso modo vediamo oggi i suoi epigoni al comune di Roma votare compatti per l’intitolazione di una strada della capitale a un repubblichino fucilatore di partigiani, fra i più accesi razzisti e antisemiti fra i gerarchi fascisti, responsabile nel secondo dopoguerra di innumerevoli azioni violente e provocatorie contro gli esponenti della sinistra e implicato in molti dei tentativi eversivi durante la tragica stagione della strategia della tensione. Inoltre non bisognerebbe dimenticare come il populismo fascista nasca proprio dal superamento, in nome della prassi, di questa presunta astratta separazione fra destra e sinistra e più radicalmente fra forze reazionarie e rivoluzionarie. Tanto che fascisti e nazisti amavano definirsi rivoluzionari, in quanto artefici di una rivoluzione conservatrice, un vero e proprio ossimoro.

Del resto questo superamento o commistione di temi fra destra e sinistra costituisce il cuore stesso del programma di fondazione del fascismo in Italia. Nel programma di San Sepolcro, Mussolini dichiara apertamente che il suo movimento sarà aristocratico e democratico, conservatore e progressista, reazionario e rivoluzionario a seconda delle circostanze. Tale incoerenza esprime, dal punto di vista ideologico, le contraddizioni proprie del ceto di riferimento del fascismo, ossia della piccola borghesia per la sua posizione intermedia rispetto al conflitto fra forza lavoro e capitale, in quanto il piccolo borghese è al contempo sfruttatore e sfruttato di se stesso. Perciò, in quanto sfruttato e sempre a rischio di essere proletarizzato dal grande capitale, tende ad assumere posizioni anti-liberiste, assimilabili a quelle della sinistra, d’altra parte in quanto borghese rivendica una propria posizione, per quanto necessariamente subordinata, nel blocco sociale dominante rivendicando posizioni scioviniste e fautrici di una società gerarchica, per distinguersi e mantenere la propria superiorità sul proletariato. Infine tende a trovare una via intermedia, fra destra e sinistra, fra la grande borghesia liberale e il proletariato comunista, dichiarandosi, come avverrà in Germania, nazional-socialista. Il nazionalismo sta a indicare la sua intenzione di superare, in senso corporativo, i conflitti sociali fra capitale e lavoro; il socialismo l’esigenza di uno “Stato sociale” che riequilibri la società capitalista che, lasciata a se stessa, porta ad aumentare sempre di più la polarizzazione sociale. L’elemento socialista nazionale è essenziale per distinguerlo dall’internazionalismo proletario, il conseguente razzismo è funzionale, attraverso il fomentare la guerra fra poveri, al mantenimento delle gerarchie sociali e a politiche protezioniste, volte a favorire le piccole imprese nazionali di contro al grande capitale transnazionale. In tali aspetti populisti si possono individuare delle sinistre affinità fra i populismi oggi al governo in Italia e i programmi del fascismo e del nazionalsocialismo.

D’altra parte il superamento della dicotomia destra-sinistra è un caposaldo del pensiero positivista che critica come idee metafisiche, non dimostrabili, oggi diremo ideologiche, la stessa sovranità popolare e l’illimitata libertà della coscienza individuale. Concezioni ideologiche che sarebbero proprie di un’epoca ormai, per sempre, superata di sconvolgimenti sociali. Ora, per affermare una società pacificata e razionale bisognerà abbandonare queste antiche ideologie in quanto anti scientifiche. In ambito scientifico, infatti, non si creano i contrasti creati dalla irrazionale pretesa della sovranità popolare o dalla libertà di coscienza individuale, in quanto tutti si atterrebbero alle regole stabilite dai competenti. La scienza, infatti, non è un’opinione soggettiva. Perciò nel mondo contemporaneo bisognerebbe abbandonare i contrasti ideologici del passato anche perché, creando contraddizioni e dissidi insanabili all’interno del popolo-nazione, lo indeboliscono e lo portano a soccombere rispetto alle nazioni straniere. Perciò mentre il potere spirituale spetterà ai soli competenti, gli scienziati, il potere temporale spetterà ai più competenti, i dirigenti industriali o manager. In tal modo la politica, liberata dalle sterili diatribe fra destra e sinistra, diventerà una scienza, affidata ai competenti, ossia ai tecnici e sarà al pari delle altre scienze al riparo dal contrasto delle opinioni e dalle pretese di giudizio della coscienza individuale.

Tala “nuova” concezione della politica risolverà la più grave difficoltà della politica contemporanea, la condizione di vita delle masse, senza mettere in questione la proprietà privata o la subordinazione gerarchica che sono considerate indispensabili al benessere sociale. Questa politica, non più ideologicamente condizionata, farebbe comprendere a imprenditori e salariati il loro ruolo e i loro doveri, consentendo una pacifica cooperazione fra la testa e le braccia. Contro l’antagonismo fra le classi, si stabilirebbe una comune autorità morale indipendente e illuminata che consentirebbe di conciliare in modo imparziale i contrasti sociali.

Tali concezioni, non a caso egemoni per lungo tempo nel mondo occidentale, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con l’affermarsi della società borghese, le ritroviamo soprattutto nel populismo pentastellato, che non a caso sia nella sua proposta di governo precedente alle elezioni che nei governi locali, dove non è costretto al compromesso con il populismo della Lega, ha selezionato su tali basi il gruppo dirigente a livello locale e nazionale, a partire dai curricula e del tutto a prescindere dalle posizioni ideologiche e politiche. Con i problemi che ben conosciamo dei governi tecnici, che finiscono con il considerare il pensiero unico dominante l’unico non ideologico, finendo con l’applicare in modo ancora più dogmatico le ricette economiche mainstream che tanti disastri hanno prodotto. Infine, trattandosi di individui essenzialmente privi di grandi ideali universali, hanno come orizzonte solo quello particolaristico del far carriera e questo mostra come le formazioni populiste ora al governo in Italia, sebbene si siano affermate proprio con la lotta alla corruzione del ceto dirigente politico, una volta giunte al potere, anche a livello locale, hanno finito con il riprodurre gli stessi livelli di corruzione che avevano denunciato.

Infine, sempre dal punto di vista storico, la posizione anti-ideologica, volta a superare le contrapposizioni politiche all’interno della società, è propria di tutto il pensiero reazionario, dalla Kriegsideologie, a pensatori vicina al nazionalsocialismo come M. Heidegger, o ideologi del fascismo come G. Gentile, fino ai moderni comunitaristi, come A. McIntyre. In tutti questi casi si tende a esaltare, in modo reazionario, di contro all’individualismo e alla libertà di coscienza caratteristiche del mondo moderno, il comunitarismo delle società antiche in cui il singolo aveva valore solo in quanto componente organica di una totalità collettiva quale la comunità popolare o razziale, la società o lo Stato a seconda delle diverse declinazioni che ha avuto questa comune concezione. In tale orizzonte lo stesso dissenso diviene impossibile o, quantomeno intollerabile, all’interno della comunità retta dagli stessi valori non scritti della tradizione (nazionale). Da qui la sostanziale xenofobia di tali concezioni che vedono nello straniero in quanto tale, proprio perché necessariamente in contrasto contro la comunità (nazionale), il nemico, o quantomeno un pericolo, qualche cosa di estraneo che non può che costituire un elemento di turbamento della comunità nazionale. Da qui la persecuzione delle minoranze nazionali e religiose, generalmente considerate alla base stessa dei conflitti sociali, da qui l’identificazione del sovversivo con l’ebreo, il musulmano, o lo straniero. Anche in tal caso possiamo vedere quanto queste concezioni siano presenti nell’attuale populismo di destra che pare sempre più capace di egemonia nel nostro paese.

Evidentemente si tratta di concezioni del tutto antitetiche alla sinistra e, dunque – a meno di non riprendere l’ideologia rosso-bruna, all’origine del nazi-fascismo, o a meno di non seguire M. Cacciari, ossia chi sostiene che essendo vincenti le concezioni della destra, l’unico modo per tornare a vincere da parte della sinistra consisterebbe nel farle proprie – su tali basi un populismo di sinistra sarebbe o impossibile o comunque inutile.

D’altra parte, il loro successo, che rimane purtroppo immutato nel tempo, è indizio che tali concezioni, per quanto espressioni dell’ideologia dominante e funzionali al mantenimento di rapporti di produzione e di proprietà sempre più irrazionali, debbono avere al loro interno qualche cosa se non di vero, quantomeno di verosimile e, perciò, appetibile per il senso comune, privo di una salda coscienza di classe. A questo proposito giocano un ruolo fondamentale i pregiudizi prodotti dal linguaggio, quelli che F. Bacon definiva Idòla fori, considerandoli i più comuni e i più perniciosi. Si tratta della tendenza – non solo del linguaggio comune, ma anche di quello “giornalistico” dei grandi mezzi di comunicazione – di dare agli stessi termini, alle stesse parole significati differenti, a seconda che vengano usate in senso letterale, metaforico, tecnico ecc.

Così i termini destra e sinistra vengono usati sia in senso letterale-empirico secondo una consuetudine sorta con la Rivoluzione francese – che ha prodotto i partiti politici – per cui i deputati più radicali e progressisti tendono a sedere in parlamento alla sinistra del presidente dell’assemblea, mente a destra sono solito posizionarsi conservatori e reazionari. Evidentemente tale distinzione ha senso, anche in senso tecnico-concettuale, quando in un parlamento esistono realmente delle forze che si contrappongono dal punto di vista ideologico, politico e sociale. Come, ad esempio, alcuni decenni fa in Italia, quando a sinistra vi erano forze progressiste, socialiste e comuniste – che rappresentavano gli interessi delle classi subalterne – mentre a destra forze conservatrici e reazionarie, che difendevano gli interessi dei settori più retrivi del blocco sociale dominante. In un parlamento in cui, come è avvenuto progressivamente in Italia con il passaggio alla Seconda repubblica, tutti i parlamentari sono sostanzialmente sostenitori del pensiero unico, ossia rappresentanti della classe dominante, tali differenze tendono a perdere il loro significato originario e a divenire meri nomi cui non corrisponde più una sostanza sociale, politica ed ideologica.

Dunque, dinanzi al bipolarismo liberale introdotto con la seconda repubblica, con un centro-destra e un centro-sinistra sempre più indifferenti, che in ogni campagna elettorale si accusavano vicendevolmente di copiarsi i programmi, non poteva apparire evidente al senso comune – che si ferma alle apparenze empiriche – che fra destra e sinistra fosse venuta meno ogni differenza sostanziale, come nella nota canzone di G. Gaber. D’altra parte, però, la scienza esiste proprio perché per approssimarci alla verità occorre andare al di là delle apparenze. Inoltre, in quanto tale, il linguaggio della scienza non può essere equivoco come il linguaggio comune o quello “giornalistico” ma deve essere, necessariamente, univoco e rigoroso. Da tale punto di vista, sino a che la società sarà divisa in classi, con interessi necessariamente antitetici, non potrà perdere senso la distinzione fra chi, definendosi di sinistra, si schiera dalla parte delle classi subalterne e chi, definendosi di destra, si pone dal punto di vista delle classi dominanti.

Negare ciò significa negare la realtà, negare o la divisione in classi della società, o gli interessi antagonistici fra dominanti o dominati, o negare l’esistenza di un blocco sociale dominante e di uno subalterno. Evidentemente tali negazioni favoriranno chi, su tali divisioni e contrapposizioni sociali, fonda i propri privilegi. Mentre altrettanto evidentemente è controproducente per chi intende eliminare tali privilegi. Dunque, anche da questo punto di vista, il populismo che considera superate le differenze fra destra e sinistra non può essere di sinistra o, quantomeno, non sarà utile alla sinistra.

30/06/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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