Il governo del cambiamento in attesa degli eventi

I rappresentanti tradizionali del grande capitale non hanno alcuna prospettiva per l’Italia che non sia quella di procrastinare e delocalizzare il più possibile l’ennesimo, inevitabile, crollo; i gialloverdi, invece, possono spingerci nel baratro più rapidamente.


Il governo del cambiamento in attesa degli eventi Credits: resistenzeinternazionali.it

Dopo quattro mesi dal suo insediamento il governo gialloverde dimostra ogni giorno di più di non rappresentare null’altro che il frutto delle contraddizioni capitalistiche arrivate ad un punto critico ma prive di antagonismo organizzato da parte dei lavoratori. Contraddizioni immanenti il modo di produzione che stanno facendo nuovamente ripiombare l’economia mondiale nella crisi, malgrado le sofferenze morali e materiali patite negli ultimi anni dalle classi popolari in quasi ogni angolo del pianeta. Sofferenze che non hanno saputo distruggere e svalutare il capitale abbastanza da permettere una vera ripresa dell’accumulazione e che non hanno trovato una coscienza critica in grado di organizzare l’emancipazione delle masse sfruttate.

Un malessere ed un’incoscienza che in Italia hanno spinto la maggior parte di chi ancora vota tra i membri della classe media e di quella operaia ad affidare le proprie speranze di riscatto al gatto e la volpe. E ora i due si preparano a varare la loro prima legge di bilancio. Un momento importante ma non decisivo per capire se l’esecutivo, al netto della propaganda, si limiterà ad una politica di mera continuità coi precedenti governi, sull’onda di quanto già sperimentato col decreto-dignità e la vendita dell’Ilva; o se le condizioni sono mature per politiche (economiche e non solo) di stampo apertamente autoritario. A determinare l’evoluzione della politica italiana, infatti, non saranno le schermaglie su un deficit di bilancio inferiore a quanto fatto da tutti i precedenti governi da decenni, bensì l’andamento della crisi economica e la sua ripercussione sui rapporti di forza internazionali da valutarsi già a partire dall’accordo sulla Brexit, fissata per il 29 marzo, e dalle elezioni del parlamento europeo di fine maggio.

La statalizzazione di autostrade, la flat tax, il reddito di cittadinanza, il superamento della legge Fornero [1], sono tutte misure che servono a tutelare gli interessi della classe dominante, in primis l’interesse alla pace sociale. E tuttavia vengono attaccate dai suoi più importanti esponenti, i capitalisti che monopolizzano i mercati finanziari, le autorità economiche europee, l’Fmi, le agenzie di rating, gli economisti liberisti. Perché? A leggere i giornali sembrerebbe che il timore di lorsignori è che il governo non voglia limitarsi ad una loro attuazione poco più che simbolica - come sarà in questa legge di bilancio - ma che voglia procedere ad una vera e propria rottura del fragile equilibrio internazionale fondato sull’austerità di bilancio per le classi popolari ed i salvataggi con soldi pubblici per i grandi capitalisti. Se poi all’elenco aggiungiamo il paventato blocco del Tav e della Tap, ce ne sarebbe abbastanza per far rizzare i pochi capelli rimasti a chi sembrerebbe già sotto stress per le limitazioni alla libera circolazione di merci provenienti da Washington.

Ma lorsignori possono dormire sonni tranquilli e lo sanno. L’attacco piccolo-borghese portato dal governo gialloverde alle regole del gioco non è condotto per mettere in pericolo gli interessi del padronato ma per meglio tutelarli alla vigilia di una fase caratterizzata da una più aspra concorrenza inter-imperialistica, per affrontare la quale il grande capitale potrebbe puntare anche nell’Ue sul fronte sovranista e nazional-populista, sotto cui si celano forze reazionarie e fasciste, storicamente meglio attrezzate a gestire le fasi maggiormente critiche e centrifughe.

In altre parole, pur in assenza dell’opposizione delle classi oppresse che storicamente ha spinto i padroni ad istituzionalizzare il terrorismo fascista, il padronato, attraverso queste forze, potrebbe sostituire la più che ventennale alternanza tra centro-destra e centro-sinistra, inadeguata a gestire l’inevitabile inasprimento della concorrenza derivante dalla ricaduta prossima ventura degli indici di crescita ed accumulazione. Un’alternativa, quella nazional-populista, spendibile nel caso in cui la crisi non dovesse limitarsi a coinvolgere solo i paesi c.d. emergenti.

Se il peggioramento del quadro economico mondiale dovesse effettivamente riguardare quasi esclusivamente questi ultimi - o non manifestarsi prima di un paio d’anni - allora lo scenario più probabile sarebbe quello di una ‘normalizzazione’ dell’attuale governo italiano. Una normalizzazione sulla quale è bene non illudersi e che consisterebbe nel rimanere nella padella senza passare alla brace. Un ‘tirare a campare’ da parte del governo che, al di qua della propaganda, non precluderebbe l’estensione ‘quantitativa’ delle peggiori politiche che abbiamo già sperimentato negli ultimi decenni, come l’introduzione del Taser ed il decreto Salvini dimostrano; e che non escluderebbe neanche l’esacerbarsi delle relazioni internazionali, sebbene Tria, Moavero e Trenta da soli non bastino a trasferire i problemi all’estero (il famoso “aiutiamoli a casa loro”) e a tenere a bada i fratelli-nemici che mirano al ‘giardino di casa’ tradizionalmente ad appannaggio del capitale italiano (Libia); e quindi a non far scivolare ancora di più il paese nel novero dei contoterzisti in cui la propria classe dominante l’ha cacciato.

Si aprirebbe ben altro scenario, invece, - un vero e proprio salto qualitativo - nel caso in cui la crisi montasse anche da noi, si facesse una Brexit dura e dalle elezioni del Parlamento europeo uscisse una maggioranza nazional-populista. In tale contesto, la fascistizzazione in corso si estenderebbe anche alle relazioni istituzionali intra-europee, dando a ciascuno la possibilità di sviluppare politiche maggiormente autonome (da Bruxelles, Francoforte e Berlino) col rischio di rendere le contraddizioni dell’eurozona non più sostenibili ed avvicinarci ancora di più all’altro padrone, quello residente dall’altro lato dell’Atlantico. Ed avviare, ciascuno le sue possibilità, quelle politiche di soccorso pubblico all’economia capitalistica che negli anni trenta la Germania nazista ha sperimentato meglio di tutti (se non altro a detta dell’economista di riferimento, J. M. Keynes [2]) ma che non sono state sufficienti né in Europa né in Nord America ad evitare la seconda guerra mondiale e successivamente il ritorno della crisi, cominciata a fine anni sessanta e non ancora terminata. E che il retroterra ideologico non manchi lo dimostrano le dichiarazioni del vicepremier Di Maio il suo primo giorno di ‘lavoro’ al Ministero dello sviluppo economico e al Ministero del lavoro e delle politiche sociali. I due dicasteri, infatti, riuniti sotto un’unica regia, “insieme sono una potenza se riescono a parlarsi, mettono insieme il datore di lavoro e il dipendente che non devono essere nemici”. Più chiaro di così…

Uno scenario che ci vedrebbe necessariamente ancora più succubi degli Stati Uniti e che non comporta l’aperta dittatura terroristica solo perché la protesta sociale si materializza soprattutto sul web, passivamente, e si indirizza non ad abolire lo stato di cose presenti bensì a sfruttarlo meglio per ramazzare qualche briciola a danno di chi sta peggio.

Se dunque i rappresentanti tradizionali del capitale monopolistico finanziario transnazionale non hanno alcuna prospettiva per l’Italia che non sia quella di Mario Draghi primo ministro, procrastinando e delocalizzando il più possibile l’ennesimo, inevitabile, crollo, i parvenu dell’altroieri gialloverdi-vestiti rappresentano una prospettiva che può spingerci nel baratro più rapidamente. Il che spiegherebbe l’entusiasmo che generano in chi crede nel ‘tanto peggio tanto meglio’ ed il timore che suscitano in chi pensa che la classe lavoratrice non è attrezzata per affrontare uno scenario del genere. Dunque prepariamoci a resistere ad una campagna elettorale giocata sulla paura, la chiamata alle grandi alleanze e al voto utile ma, soprattutto, a saper cogliere le occasioni che lo sviluppo storico ci metterà di fronte. Ma come?


Note:

[1] “Gli imprenditori mi chiedono di superare la legge Fornero”, così Matteo Salvini a Porta a porta l’11 settembre 2018. Per quanto riguarda gli elementi favorevoli alla classe imprenditoriale della ventilata riforma della legge Fornero sulle pensioni si veda anche questo articolo.

[2] Per chi avesse dubbi sulla connotazione di classe di John M. Keynes si leggano tra le altre le seguenti righe tratte dalla prefazione all’edizione tedesca della sua Teoria Generale pubblicata in Germania alla fine del 1936: “la teoria complessiva della produzione, che questo libro si propone di offrire, si adatta assai più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario, di quanto lo sia la teoria della produzione e della distribuzione di un volume dato di produzione, ottenuta in condizioni di libera concorrenza e di prevalenza laissez-faire”. Dal che è facile comprendere la coerenza di eminenti economisti che si dichiarano neo/post-keynesiani e stanno in Parlamento con la Lega.

13/10/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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