Smart working e falsa coscienza

Il lavoro agile non è un nemico di classe, ma una modalità di lavoro differente da altre come il telelavoro o il lavoro in presenza: breve storia del fenomeno, rischi e benefici per i lavoratori. Va contrastato in generale il processo di cottimizzazione delle retribuzioni.


Smart working e falsa coscienza

Si può fare dello smart working ideologico? Sì, certamente, se ognuno decide di continuare a lavorare sulla realtà non uscendo dalla porta del suo domicilio teorico. È quello che è accaduto a molti osservatori del fenomeno del lavoro a distanza che seduti a destra o a sinistra lo hanno condannato (oppure esaltato) “eticamente”, nel senso di approcciarlo da un punto di vista idealistico, del come dovrebbe essere e non del come si presenta concretamente: per gli uni è la materializzazione in atto del “lavoro a cottimo”, ovvero la forma prediletta dal capitale per estrarre plusvalore; per altri è la realizzazione delle “magnifiche sorti e progressive” delle promesse tecnologiche digitali, ovvero la liberazione in atto dal traffico, dal mobbing e dall’estraneazione dai rapporti familiari.

In realtà, se si apre la finestra per guardare a quello che è accaduto negli ultimi anni nel mondo del lavoro, entrambi i punti di vista avranno delle sorprese. Innanzitutto, il lavoro agile era regolato in Italia da prima dell’avvento del Coronavirus attraverso la legge 81 del 2017 che si proponeva di agevolarne l’applicazione “allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.

Il risultato è stato che questa modalità di prestazione del lavoro nel 2019 era utilizzata dal 4,8% degli occupati in Italia, stando ai dati presenti in uno studio di Assolombarda del 2021. Nel marzo del 2020 per effetto della pandemia la percentuale degli smartworkers sul totale degli occupati sale invece fino a 6,6 milioni di persone, ovvero grosso modo in percentuale il 25,7% dei dipendenti.

In pratica, il capitalismo stesso prende coscienza della meravigliosa occasione offertagli dal lavoro agile solo attraverso la rude spinta del Covid-19 perché fino a quel momento, nonostante le opportunità offerte dalla normativa, il lavoro a distanza è stato prevalentemente ignorato dalle imprese.

Che ci dice questo fatto? Solo che la coscienza si muove sempre in ritardo sulle opportunità offerte dalla tecnologia. Un po’ la stessa cosa che accade a chi questa volta da sinistra guarda allo stesso lavoro a distanza definendolo di colpo “lavoro a cottimo” in atto, già realizzato. Non è così. Vediamo perché.

Una domanda: cos’è lo smart working?

Innazitutto, bisognerebbe farsi una domanda: cos’è il lavoro agile, o smart working per gli affetti da anglofilia? È una modalità di lavoro che implica la possibilità di essere effettuata in un luogo diverso dall’ufficio (ma non necessariamente) senza vincoli di orario e per obiettivi. Per la precisione si può lavorare da casa, da un bar, da un luogo dove ci sono postazioni informatiche (co-working) oppure anche dallo stesso ufficio.

Tutto ciò, però, ha poco a che fare con l’esperienza di massa indotta dall’emergenza sanitaria del 2020: perché quello che si è praticato allora e che in parte si pratica ancora adesso è semplice telelavoro che invece si configura come mero lavoro a domicilio, con vincoli di orario e di luogo che in Italia è stato normato dal Dpr n. 70 dell’8.03.1999 (per lo specifico della pubblica amministrazione) e dall’accordo interconfederale del 2004 in recepimento dell’accordo europeo sul telelavoro del 16 luglio 2002. Pertanto, non ha nulla a che fare con il lavoro a cottimo.

Si dirà: nei mesi scorsi sono stati firmati però alcuni contratti di lavoro nella pubblica amministrazione (Funzioni Centrali) e il Protocollo nazionale sul lavoro agile nel settore privato, quindi ormai il fantasma del lavoro per obiettivi e la conseguente retribuzione si è concretizzato. Ma non è affatto così perché se si ha la bontà di leggersi almeno il contratto collettivo di lavoro del comparto sopracitato della Pa rimane ovviamente la retribuzione fissa e l’unico accenno che si può intravedere al cottimo è la parte variabile dello stipendio che tuttavia sta (ahinoi) acquisendo un’importanza crescente a prescindere del luogo dove si svolge la prestazione di lavoro: o meglio si sta assistendo a una crescente cottimizzazione del lavoro sia in presenza, sia da remoto.

Lavoro agile, questo oscuro agente del capitale che affascina i lavoratori

Insomma, come comunisti abbiamo un problema reale, ovvero il peso crescente della retribuzione variabile sul totale e uno ideologico (o ipotetico) la lotta al feticcio dello smart working. Quale si intende perseguire?

Nel primo caso vanno contrastati tutti i tentativi del capitale di trasformare il salario in una voce dipendente della produttività, sia che il lavoro si svolga in un ufficio, in una fabbrica oppure nel salotto di casa; nel secondo ci si dedicherà invece alla “maledizione per sette generazioni” dei lavoratori che cedono alla tentazione del lavoro a distanza.

Eh sì, perché non vi è dubbio che milioni di lavoratori in questi due anni vi abbiano “ceduto” in cambio di alcuni vantaggi sul piano della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Dopodiché, questa evidenza fattuale non trasforma affatto il lavoro agile nell’oasi serena che i suoi cantori (grillini e non solo) ci hanno rappresentato:

- esiste sì un problema di isolamento del singolo lavoratore dalla massa dei suoi colleghi/compagni e di conseguente alienazione, ma va ricordato che paradossalmente questo è più un problema indotto dal telelavoro che pure si presta meno al cottimo che dallo smart working, più incline alla retribuzione variabile, ma ma meno all’isolamento dell’operatore, dato che prevede dei rientri in ufficio frequenti; 

- esiste anche un problema di scaricamento dei costi di produzione da parte dell’azienda sul lavoratore che vedrà crescere i costi delle bollette;

- esiste un problema relativo al pagamento dei buoni pasto che spesso non vengono riconosciuti come parte integrante del salario dai datori di lavoro pubblici o privati che siano.

Si tratta però di criticità e terreni di lotta da affrontare nel lavoro a distanza e non contro il lavoro a distanza, pena l’isolamento dei comunisti e in generale di chi fa sindacato di classe dai lavoratori e dai loro bisogni concreti.

Prendere invece una modalità di prestazione del lavoro come del tutto ostile implica uno scivolamento fuori dalle posizioni del marxismo e il confondere la prestazione stessa con il rapporto capitalistico che la include: così è quando, per esempio, si paragona il lavoro agile alla flessibilità delle forme contrattuali invalsa negli anni ’90. La differenza è invece sostanziale: la modalità di prestazione del lavoro a distanza potrebbe essere utilizzata in una società socialista; la precarietà no.

Smart working: Brunetta e noi

Certo, il lavoro a distanza pone problemi a chi vuole fare sindacato e ovviamente ai comunisti. Sono reali le difficoltà di organizzazione, di sindacalizzazione e di politicizzazione (come abbiamo visto più per il telelavoro che per lo smart working vero e proprio), ma non si può evitare di sporcarsi le mani e di fare i conti con i terreni di scontro che l’innovazione tecnologica offre sia a noi che al capitale.

A dire la verità, nemmeno il versante borghese è riuscito a dare un giudizio condiviso del fenomeno del lavoro a distanza. Il ministro Renato Brunetta, per esempio, ha del fenomeno un’opinione così negativa da averlo contrastato in ogni modo, giungendo a spingere Draghi al Dpcm del 23 settembre 2021 che riconosceva il lavoro in presenza come modalità prevalente di prestazione lavorativa nella pubblica amministrazione. Salvo poi dover fare parziale marcia indietro nel gennaio scorso sotto i colpi di Omicron.

Perché l’esponente di Forza Italia ce l’ha con il lavoro a distanza? I motivi ovviamente sono diversi da quelli dei nostri compagni spaventati dal “fantasma del cottimo” e sono riconducibili a due:

- c’è una necessità elettorale schiettamente reazionaria di accarezzare il pelo a una piccola borghesia fatta di commercianti, ristoratori e baristi che non vedevano di buon occhio la scomparsa di clientela all’ora di pranzo in uscita dagli uffici e che comunque sospettano che il lavoro da casa consista nel cambiare canali alla tv;

- c’è la necessità di impiegare al meglio (ovviamente nell’interesse del grande capitale) i 235 miliardi di euro proventi del Pnrr e per farlo si ritiene che ci sia bisogno di tenere sotto mano i dipendenti della pubblica amministrazione, date anche la scarsità di dotazioni informatiche e le scarse capacità di impiegarli di una forza lavoro pubblica poco numerosa e molto invecchiata.

Ora, per non finire nel calderone dei nemici del lavoro agile insieme a Brunetta, c’è da prendere coscienza del reale al di fuori del “cielo iperuranio” della falsa coscienza. Alcuni sindacati di classe lo hanno già fatto, urge raggiungerli.

11/02/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Essepi

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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