Com’è noto, già dai primi di settembre – dopo la famosa assemblea dei portuali di Genova dell’11 settembre – il movimento propal, che negli ultimi anni si è sviluppato in Italia raccogliendo una vasta fetta dell’associazionismo (dal radicale al progressista fino ai sinceri democratici), ha manifestato a più riprese, spesso in modo frammentato, senza però riuscire a rompere quel muro di gomma contro il quale si infrangono tutte le iniziative di protesta numericamente limitate e quindi incapaci di mettere in reale difficoltà il governo.
La fase di frammentazione del movimento aveva comunque già conosciuto, nella scorsa primavera, alcuni tentativi di coesione. La manifestazione di aprile promossa dal Movimento 5 Stelle, così come quella propal di giugno organizzata da PD e AVS, sono state entrambe molto partecipate e hanno costituito il terreno su cui è cresciuto un “sentimento unitario”: la convinzione che per cambiare il mondo bisogna essere in tanti a volerlo. Proprio queste piazze hanno favorito la nascita di una corrente di pensiero a sinistra, cui questo collettivo si ispira, che pur criticando partiti e sindacati moderati per il loro opportunismo e il loro oscillare indeciso, ha chiaro un punto: le forze sociali hanno peso solo quando si contano a centinaia di migliaia, e i “movimenti tellurici” degli strati sociali non nascono a tavolino dal progetto di piccole avanguardie, ma dallo sviluppo spontaneo della lotta tra le classi dove certo un’avanguardia ben consolidata può svolgere un adeguato compito di direzione o quantomeno di coordinamento.
Spesso l’innesco di una concentrazione di forze è un fatto imprevisto: una guerra, una legge particolarmente liberticida, un’azione di solidarietà internazionale. Raramente, invece, è lo sventolio del “programma massimo” a mobilitare le masse in una fase non rivoluzionaria.
Riconoscere la zona d’influenza proletaria
Ecco perché, proprio nelle fasi non rivoluzionarie, quando le masse non partecipano attivamente alla lotta di classe e il loro concentramento è difficile, l’azione politica non deve limitarsi a “chiarire”, ma deve costruire blocchi e alleanze, arrivando perfino alla desistenza con l’ala destra della borghesia se questo è vitale per il movimento rivoluzionario, che sarebbe il primo a pagare il prezzo di un consolidamento fascista al governo.
Tutte le organizzazioni di massa rappresentano quella zona d’influenza proletaria all’interno della quale i comunisti conducono la loro battaglia per l’egemonia. Questa non si combatte con petulanza o massimalismi sterili, ma mostrando realismo e, al tempo stesso, intransigenza.
Le manifestazioni di aprile e giugno – che molti a sinistra hanno liquidato con sufficienza – sono state decisive per accumulare forze e per aprire un terreno di battaglia egemonica. Dentro la CGIL, ad esempio, si è sviluppato un dibattito tuttora in corso sulla linea generale da adottare. Un dibattito che attraversa la fase che va dalla piazza convocata da Serra dello scorso marzo fino allo sciopero del 22 settembre, passando per i referendum sul lavoro e le manifestazioni già ricordate dei 5 stelle e del PD. In tutti questi frangenti, i vertici del principale sindacato italiano ed europeo si sono trovati in difficoltà di fronte a una base sempre più cosciente e combattiva, fino allo strappo del 22 settembre, quando in molte realtà del pubblico impiego sono stati approvati documenti di adesione allo sciopero in seno agli iscritti.
La concentrazione di forze vista lunedì scorso è dunque il frutto di un lungo percorso, ma ha avuto anche un innesco immediato: l’appoggio sentimentale alla Flottilla e l’attacco di terra che hanno catalizzato il più genuino sentimento di rigetto della barbarie. Le piazze italiane si sono riempite ben oltre le aspettative, mostrando una prima vera concentrazione di forze (sentimentalmente) antimperialiste e mettendo in evidenza l’errore della CGIL che, non aderendo allo sciopero, è apparsa settaria tanto quanto i sindacati di base, spesso incapaci di preparare unitariamente le mobilitazioni.
Lo sciopero ha avuto una dinamica più “sociale” che strettamente operaia, con una forte partecipazione di scuole e studenti. La CGIL non ha colto in tempo lo sviluppo di questo movimento, arrivando persino a smobilitare con la convocazione di uno sciopero alternativo, dividendo così il fronte proletario e lasciando la piazza ai sindacati di base, i quali però non hanno la forza né la capacità di governare fenomeni di tale portata.
Il movimento, dunque, non ha una testa: non lo sono i sindacati di base, non lo è la CGIL e non lo è nessuna forza politica. È l’insieme contraddittorio di tutte queste forze. Lo spontaneismo delle masse ha travalicato steccati e teorizzazioni astratte sul geometrico perimetro delle alleanze possibili per i settari, così come ha travalicato le paure e l’opportunismo delle correnti moderate.
Resta da vedere cosa lascerà questo piccolo tsunami dopo la risacca, e se sarà capace di ricaricarsi. Crediamo che in momenti come questo l’unica via per rilanciare il movimento sia una politica aperta, assembleare, capace di sviluppare lo spontaneismo con autentico spirito unitario. Tutte le iniziative e gli appelli che vanno in questa direzione – mantenendo il principio che solo contandosi a centinaia di migliaia si può cambiare qualcosa – vanno sostenuti.
L’isteria del governo Meloni
A dimostrazione che la storia la scrivono i popoli in rivolta, questa manifestazione ha prodotto cambiamenti significativi nelle posizioni del governo, mettendolo in difficoltà più di tanti inciampi parlamentari (Nordio, Albania, Santanchè). Il governo Meloni ha affrontato nel peggiore dei modi -a dimostrazione della difficoltà imprevista- l’analisi dello sciopero,
Per la prima volta, un movimento di massa ha fatto emergere una crepa nell’egemonia del governo, costringendolo a correre ai ripari: dichiarandosi, seppur ambiguamente, favorevole al riconoscimento dello Stato di Palestina e arrivando perfino a inviare fregate a sostegno della Flottilla. Piccole cose, certo, ma che indicano la direzione di sviluppo della storia.
Mentre il governo Meloni è impegnato sul piano internazionale a contendersi zone d’influenza nella logica imperialista dei “fratelli nemici”, l’aprirsi di una dinamica interna che rischia di “distrarlo” dai grandi affari è una gatta da pelare. L’affaire Flottilla mette dunque in crisi il governo su due piani: quello interno e quello internazionale.
L’isteria dell’Europa
In concomitanza con quanto accade in Italia e nel Mediterraneo, anche nella vecchia Europa le borghesie sono preda dell’isteria, con la Francia in prima fila, precipitata nel caos dopo la caduta del governo Bayrou.
Da qualche giorno – precisamente dal vertice dei “volenterosi” del 4 settembre – si susseguono notizie che alimentano l’escalation militare. Si tratta spesso di fatti avvolti nel mistero e nell’ambiguità: presunti droni russi che sorvolano cieli europei, generali statunitensi richiamati in patria da diverse zone del mondo, caccia che intercettano aerei militari russi.
Tutto lascia presagire un ulteriore salto in avanti nella politica militare europea, che appare oggi come la principale chiave di volta e la sintesi politica raggiunta, sul piano internazionale, dalle borghesie del vecchio continente.