Il Cile è in crescita?

L’apparente paradosso di un’economia che, nonostante una crescita economica sostenuta, è afflitto da tremendi problemi sociali ed acute disuguaglianze


Il Cile è in crescita? Credits: https://pixabay.com/it/photos/cile-cileno-sud-agricoltore-1055017/

Da buon emigrato napoletano del XXI secolo - di quelli con la valigia cinese a rotelle comprata al mercatino di Fuorigrotta, per intenderci, ho l’abitudine, durante il fine settimana e quando posso, di fare videochiamate con mia madre.

In genere parliamo del più e del meno. Un lunghissimo, immaginario, moderno ed anche un po’ surreale ponte tra mondi diversi ci unisce: qui è inverno e lì è estate, da me è prima mattina mentre a Napoli è già passata l’ora di pranzo. Vi sono anche altre diversità: storiche, economiche o relative all’organizzazione urbanistica e sociale, di cui ho già provato a parlare su questo stesso giornale. Esse, come accennai in quell’occasione, si assottigliano sempre di più dato che il “nostro” mondo tende ad assomigliare ogni giorno di più al “loro”.

A volte, le parlo anche delle mie banali preoccupazioni quotidiane. Come informatico, qui a Santiago, ho un lavoro decente. Ciò nonostante, da un po’ di anni a questa parte, il fantasma della precarietà aleggia anche qui. Il “mercato del lavoro” (termine orribile, che ci fa sentire un po’ come fossimo carne da macello) è diventato più “competitivo”: delocalizzazioni, licenziamenti, fusioni aziendali, mesi di attesa tra disoccupazione e lavoretti, colloqui di lavoro che somigliano sempre di più a un concorso a premi. Chi un lavoro ce l’ha ancora, come me, si sente molto insicuro (e spesso indirettamente ricattato) per i costanti “piani di riduzione” che trasformano gruppi d’impiegati nei “10 piccoli indiani” di Agatha Christie, sotto a una spada di Damocle pronta a cadere e a colpire all’improvviso.

È la dura legge del (libero) mercato bellezza: a un’offerta di forza-lavoro più alta, corrispondono retribuzioni più basse e condizioni più precarie.

Uno scenario molto “europeo”, direte voi. Non quadra molto con l’idea comune che si avrebbe di un paese “in via di sviluppo”, come si dice nel linguaggio economico o giornalistico. Difatti mia madre, quando le esterno queste preoccupazioni, obietta: “Secondo me ti preoccupi troppo, esageri; tuo cugino mi ha detto che il Cile è in crescita, e anche alla TV lo ripetono sempre“.

Finzioni giornalistiche? Non esattamente. Il PIL del Cile, nel 2018, è cresciuto del 4%. Il tasso di disoccupazione si mantiene attorno al 6-7%. In Italia stappiamo lo champagne per uno 0.1% di crescita, e la disoccupazione raramente scende al di sotto del 10% (per non parlare del sud o dei giovani).

Il presidente Piñera, esponente della destra cilena, rivendica la crescita del PIL come un importante risultato delle politiche economiche e sociali del suo governo. Eppure il gradimento del suo governo ha registrato di recente un altro minimo storico, attestandosi al 34% - con un significativo 54% di disapprovazione.

Come si spiega, allora, una tale differenza tra la “percezione” - termine particolarmente in voga nel giornalismo filo liberista - dell’uomo della strada, e la “realtà” dei freddi numeri? Ciò si deve all’ossessione, liberista anch’essa, per alcune cifre, idolatrate come moderni totem (vedi il famoso 3%, la moderna trinità).
Influiscono anche il modo in cui si rilevano i dati, e l’interpretazione degli stessi.

Per approfondire un po’ e vederci più chiaro, dovrò accennare a delle definizioni un po’ tecniche: me ne scuso in anticipo con il lettore.

Il saldo delle partite correnti di un paese è definito come somma delle esportazioni nette – export meno import di beni e servizi – e dei redditi netti dall’estero – saldo fra i pagamenti dall’estero ai fattori residenti e viceversa, cioè il saldo dei redditi da capitale. A loro volta, i redditi da capitale possono essere suddivisi tra investimenti e “donazioni” (trasferimenti senza corrispettivo). In parole povere, il saldo delle partite correnti indica se il paese (come sistema composto da pubblico e privato) si sta indebitando verso il mondo esterno, se negativo (deficit) o viceversa (surplus). Questo parametro è meno presente nel dibattito rispetto ai più famosi rapporto deficit/PIL o debito pubblico/PIL, per una ragione essenzialmente politica: il dogma liberista mainstream identifica tutto ciò che è pubblico (nostro) come implicitamente improduttivo e corrotto mentre il privato (in genere di altri) come “efficiente”, grazie alla “mano magica” del mercato e della concorrenza che dovrebbe (secondo loro) distribuire efficacemente le risorse. Sebbene sia molto utile analizzare pubblico e privato separatamente, in qualche caso ha senso anche dare un’occhiata ai valori aggregati: se un paese tende a importare e a prendere a prestito più di quanto esporta e dà a credito, e se lo fa per diversi anni consecutivi, potremmo essere di fronte a un problema di sostenibilità.

Ciò è appunto ciò che sta succedendo in Cile, da circa dieci anni a questa parte. Nel 2018 il deficit delle partite correnti è stato del 3.1% del PIL, e in base alle ultime rilevazioni (trimestrali) è addirittura in aumento. Un valore significativamente vicino al 4% di crescita di cui parlavamo prima.

Fig. 1. Deficit delle partite correnti in Cile in rapporto al PIL. Fonte: Fondo Monetario Internazionale

La domanda corretta da farsi, quindi, non sarebbe se il Cile stia crescendo, bensì con quali soldi lo faccia.

Un’altra questione interessante è: cosa sta causando quest’aumento di deficit? Scavando nei numeri, osserviamo che il Cile è un paese “virtuoso”, che “ha fatto i compiti a casa”: inflazione bassa (attorno al 2%), bilancia commerciale tendenzialmente in attivo, rapporto debito pubblico/PIL al 25,6%, cioè – sebbene in aumento – ben al di sotto del famoso parametro di Maastricht del 60%. Il giornale “El Mercurio” (espressione della destra cilena) svela – numeri alla mano – l’arcano: la causa principale dell’aumento di deficit è l’incremento degli investimenti diretti dall’estero.

Aspetta, direte voi, qualcosa non torna: ma la disoccupazione non era bassa? Beh, in Europa come in Cile, sappiamo bene che tutto dipende da come questo parametro si misuri. Difficile che qualcuno se ne stia con le mani in mano tutto il giorno, magari con una famiglia da mandare avanti. In genere, “tirerà a campare” come si dice dalle mie parti, con lavoretti da poche ore per sbarcare il lunario. Qualcun altro magari, frustrato, il lavoro smetterà proprio di cercarlo. I più fortunati, lavoreranno con un salario minimo – circa 300 euro al mese. Tutti gli appartenenti a queste categorie non saranno conteggiati come disoccupati.

Ricapitoliamo: da dieci anni a questa parte il Cile, invece di crescere con le proprie forze – come dovrebbe fare in teoria un paese in via di sviluppo - lo fa con soldi che vengono da fuori, principalmente investimenti esteri. Presumibilmente non si tratta di carità cristiana, ma di multinazionali che spendono aspettandosi un ritorno economico.

Ciò trova riscontro concreto nella “percezione” dell’uomo comune della strada: nonostante chi abbia un lavoro affronti un carico ed uno stress crescenti (più profitti alle imprese) le condizioni si fanno via via più precarie, ed i salari scendono. I consumi di coloro i quali hanno perso un lavoro e non l’hanno trovato, o di quelli che l’hanno trovato con uno stipendio più basso, sono sostenuti da un crescente indebitamento privato, oppure grazie agli straordinari (se e quando vengono pagati) o addirittura svolgendo due lavori. Nonostante la bolla immobiliare, a Santiago ci sono molti operai del settore edile disoccupati o precari, disposti ad accettare lavoretti di un mese o di una settimana. Tutti loro formano un vero e proprio esercito industriale di riserva, che sta alimentando tra l’altro in forma crescente la cosiddetta “gig economy”.

La tipica obiezione a questo ragionamento è: gli investimenti fatti avranno un impatto positivo, si tratta comunque di soldi che entrano in circolo ed aiutano a sviluppare l’economia del paese!

Per rispondere nel merito, è utile approfondire ed analizzare chi riceve i soldi, e come li spende. E pure cosa servono a produrre.

Il Cile è un paese con l’indice di Gini (misura della disuguaglianza) tra i più alti al mondo. I poveri, qui, sono molti ed in grave difficoltà. Ciò si deve innanzitutto alla disparità salariale e abitativa, ma anche – in misura non minore - a un accesso iniquo all’istruzione, alla sanità, al sistema pensionistico, tutti in mano al settore privato. In parole povere: se sei nato nella famiglia o nel quartiere sbagliato o in un campamento, allora vivi in un tugurio che non si può definire casa, non hai diritto alle cure, avrai una pensione da fame. La cosa peggiore è che purtroppo tuo figlio – tranne rare eccezioni – studierà (sempre che ci riesca) alla scuola ed all’università dei poveri, ed avrà un destino simile al tuo.

Fig. 2. Indice di Gini in Cile e nei paesi OCSE. Fonte: OCSE

È facile immaginare, quindi, che la “torta della crescita”, sarà distribuita in modo altrettanto iniquo. La maggior parte dei nuovi soldi in circolo, andranno ai più ricchi i quali li impiegheranno per comprare soprattutto prodotti importati o finanziari – acuendo lo squilibrio – o per investire in una seconda o terza casa, alimentando ulteriormente la bolla immobiliare e la speculazione edilizia. I poveri nel frattempo continueranno ad indebitarsi con le banche e le imprese per comprare beni di prima necessità. Questo indebitamento servirà a sostenere un minimo un minimo - come con una flebo – la domanda e con essa l’economia cilena.

È risaputo come paesi che riescono a diversificare la produzione interna, ed a produrre beni “più complessi”, raggiungono in genere un maggiore benessere economico e sono più robusti rispetto a possibili shocks esterni. Il Cile, invece, grazie all’assenza di politiche statali di lungo termine, si limita ad esportare rame (45% delle esportazioni cilene) o litio – materia prima di crescente importante e di cui il paese è ricchissimo – per poi comprare il prodotto finito, elaborato all’estero: microchips, batterie degli smartphones o – in un futuro sempre più vicino – auto elettriche.

D’altronde si sa, il “dio mercato” ha una miopia intrinseca: per sua stessa natura è in preda ad un’ansia da profitto di breve termine. Non vede più in là del suo naso.

Mettendo insieme tutti questi tasselli, è facile immaginare che i capitali in ingresso, a un certo punto, prenderanno la direzione opposta. La bolla immobiliare scoppierà, la crisi latente (ma non troppo) di domanda farà andare in sofferenza il piccolo credito e i mutui, lo stato dovrà indebitarsi per salvare il settore privato; alla fine, i mezzi di comunicazione e gli economisti liberisti mainstream, avranno la faccia tosta di dare la colpa al settore pubblico e faranno propaganda per adottare misure “lacrime e sangue”.

Anche questa, una storia già vista.

26/05/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: https://pixabay.com/it/photos/cile-cileno-sud-agricoltore-1055017/

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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