Conte bis, un simulacro della democrazia e dell’antisalvinismo

Davvero si pensa di poter parlare di democrazia senza mettere al centro delle questioni i diritti sociali?


Conte bis, un simulacro della democrazia e dell’antisalvinismo Credits: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b7/Il_Presidente_del_Consiglio_Giuseppe_Conte_e_la_Presidente_della_Commissione_Europea_eletta_Ursula_von_der_Leyen.jpg

La gestazione del governo Conte bis non è stata poi così lunga, anche perché quella tra M5S e PD è un’alleanza che risulta essere non così innaturale come a volte viene descritta. L'accordo di governo PD-M5S (nel quale si è poi inserito Leu) nasce su pochi punti cardine cresciuti nel corso delle trattative tra le delegazioni dei due partiti: dai 5 del Pd ai 10 di del M5S fino alla lista di 29 punti finale. La questione è che le basi dell’intesa più che a una discontinuità fanno pensare a una nuova occasione per la borghesia di ricompattarsi intorno a un programma di liberismo tecnocratico, scalzando in questo modo il liberismo nazionalista rappresentato dalla Lega.

Ciò risulta già abbastanza palese osservando come, nel corso degli incontri tra i due partiti e a margine di essi, si aveva, da una parte il PD che escludeva una riforma del Jobs act e dall’altra il M5S che escludeva (solo in maniera più categorica del nuovo partner di governo) l'abolizione dei decreti sicurezza voluti da Salvini. Negli stessi giorni, decine di migranti restavano su navi di Ong senza possibilità di toccare terra, prima grazie al divieto di sbarco firmato, oltre che da Salvini, dai ministri (ancora in carica in quel momento) Trenta e Toninelli, poi dalla decisione del neoministro degli Interni, Lamorgese che ha subito fatto sapere che la politica dei porti chiusi non si tocca. In quelle occasioni, vecchi e nuovi ministri non hanno dovuto nemmeno curarsi della presenza a bordo di esponenti del PD come Orfini e Delrio. Che tra l'altro mai si sono curati, con tutto il loro partito, tutto il M5S e tutta la Lega, delle conseguenze criminali che anche in questo momento producono i disumani accordi firmati tra il governo Gentiloni (nel frattempo nominato commissario europeo con delega agli affari economici) e la Libia.

Se questa è discontinuità

Seppure ci fossero stati dubbi riguardo l’orientamento sul quale stava nascendo il governo Conte bis, Di Maio (ora ministro degli Esteri) ha subito voluto metterlo in chiaro in maniera cristallina: il governo PD-M5S con Leu accodato ad essi dovrà fondarsi su una “netta contrarietà alla patrimoniale”, “essere un governo pro-imprese” e “continuare le legittime richieste di autonomia differenziata”. I decreti sicurezza? Secondo il nuovo capo della Farnesina, non ha “nessun senso parlare di modifiche”. Che quelle prerogative siano anche il programma del governo Conte bis l’hanno reso evidente il discorso che il presidente del Consiglio ha tenuto alle Camere per chiederne la fiducia. Tant’è che Conte ha annunciato una riforma del fisco senza accennare a una patrimoniale o a una adeguata progressività del prelievo fiscale; ha assicurato che l'autonomia differenziata (o la scissione dei ricchi, com’è stata più efficacemente ribattezzata) sarà portata a termine.

Sul fronte sicurezza, cavallo di battaglia della destra, il governo M5S-PD-LEU conferma di non voler abolire i decreti voluti da Salvini, ma solo rivederli “alla luce delle osservazioni formulate dal presidente della Repubblica”; ma ciò lascia supporre, ad esempio, che i decreti sicurezza non saranno toccati sul lato della limitazione del diritto a manifestare il dissenso, così che, chi manifesta e protesta continuerà a rischiare di essere penalmente perseguito. Perché, seppure spesso dimenticato soprattutto nella retorica che richiama a un governo Conte bis in difesa della democrazia e della libertà contro la deriva fascioleghista, il decreto sicurezza sta già agendo contro lavoratori in lotta, come stanno sperimentando i lavoratori della New Gel di Genova denunciati per manifestazione non autorizzata, blocco stradale e violenza privata sulla base delle aggravanti previste dal decreto sicurezza bis.

Bastone e carota

Quest’ultimo tema è tanto più importante quanto più si consideri che questo governo sarà subito chiamato ad affrontare il nodo della manovra economica, che al di là delle concessioni che si annunciano da Bruxelles riguardo una certa flessibilità in merito al rispetto dei parametri europei, potrebbe avere un pesante saldo negativo per la stragrande maggioranza delle persone. Non bisogna farsi troppe illusioni di maggiori attenzioni verso le classi popolari.

Se, infatti, in una contesa per il consenso tutta interna alle anime di governo qualche concessione potrà farsi strada tra le pieghe del bilancio, la struttura della manovra economica rimarrà ancorata alla linea dettata dalle regole europee. La nomina di Gentiloni si può leggere come un riconoscimento alla linea incondizionatamente europeista del nuovo governo; e comunque, quella nomina a commissario dell’UE all’Economia non basterà a incrinare troppo la rigidità del lettone Valdis Dombrovskis che nella stessa commissione occupa l’importante ruolo di Commissario per la stabilità finanziaria.

Inoltre, la stessa nomina di Gualtieri al ministero dell’Economia lancia un chiaro segnale all’establishment continentale: il governo sarà coeso su una coerente linea filo-europea. Tant’è che non solo chi da oggi occupa il dicastero dell’economia ha ricevuto un insolito endorsement dalla prossima presidente della BCE, Christine Lagarde, ma lo stesso Conte ha incassato un esplicito sostegno dal presidente uscente della Commissione Europea, Jean-Claude Junker, secondo il quale con Conte e il suo governo bis l’Italia saprà affrontare le “difficili sfide europee ed essere all’altezza delle responsabilità di stato fondatore dell’Unione”. Parlando di “difficili sfide europee”, Junker probabilmente teneva conto della recessione globale che si profila all’orizzonte e degli indicatori economici che mostrano il rallentamento dell’economia tedesca, finora considerata la locomotiva d’Europa.

Ecco allora che appaiono più chiari i richiami a una linea meno intransigente delle istituzioni europee che ha caratterizzato la tenuta dei conti fino ad oggi. Un’interpretazione che gli stessi giornali legati alle classi dirigenti europee sostengono. Tra l’altro, fa notare Marta Fana in un articolo di questi giorni su Jacobin Italia, “la Germania ha bisogno di frenare il calo della produzione, cioè deve mantenere alto il livello delle esportazioni di cui quelle verso l’Italia valgono 70,3 miliardi di euro (+6,8% rispetto al 2017). Tuttavia, l’Italia non è solo un partner commerciale della Germania, bensì un ingranaggio dei suoi stessi processi produttivi e filiere”.

Nonostante ciò, non bisogna lasciarsi illudere sulla possibilità di manovre espansive che permettano una più equa e giusta distribuzione della ricchezza. Tant’è che uno dei motivi che potrebbe favorire la concessione di margini di flessibilità al nostro Paese è dato dal fatto che già il primo governo Conte era intervenuto a luglio per un aggiustamento del deficit, sceso dal 2,4% al 2%. In sostanza, i margini di flessibilità sono dati, paradossalmente, anche dall’essere passati dai roboanti proclami che raccontavano di un governo che batte i pugni sul tavolo per rompere la rigidità delle regole europee all’accettarne le indicazioni; fino a mostrarsi, oggi, completamente organici alle sue regole. L’UE, insomma, continua a tenere tra le mani sia il bastone che la carota, maneggiandoli secondo le necessità dettate dai centri di potere economico e finanziario.

I significativi “non detti”

Non è affatto un caso che il discorso programmatico di Conte abbia sorvolato quasi completamente, o comunque sia stato del tutto generico quando c’era da affrontare i temi sociali. Ad esempio, quale modello di sanità questo governo abbia in mente possiamo immaginarlo dal non aver dato alcuna indicazione su come rendere effettivo il diritto alla salute anche agli oltre dieci milioni di persone che oggi sono costrette a rinunciare alle cure, mentre nel frattempo si annunciava di voler proseguire sulla strada dell’autonomia differenziata che minaccia di mortificare ancora di più il principio di universalità del diritto alla salute. Invece, è già chiaro che le grandi opere, quelle che richiedono lauti finanziamenti pubblici ai privati, e non quelle piccole e diffuse sul territorio nazionale, saranno la priorità di governo.

Quindi, è il trasferimento di ricchezza nelle tasche di grandi gruppi privati ad essere messo subito in agenda, non opere e servizi utili alla collettività, quali scuole, adeguamento di tratte ferroviarie percorse da pendolari, trasporto pubblico, messa in sicurezza del territorio, ospedali, stato sociale. Non si dice praticamente nulla sul lato pensionistico, ma già risulta chiaro che Quota 100, uno dei cavalli di battaglia del primo governo Conte e della Lega in particolare, cesserà di esistere alla fine della fase di sperimentazione, nel 2021. Nel frattempo, sul versante lavoro non si accenna a nulla di più di un generico “ampliare la partecipazione al lavoro di giovani e donne”, che può significare tutto o niente.

Sul lato del lavoro non si dice niente più di frasi generiche e buone per ogni occasione, un “viva la mamma” che conferma la volontà di non intervenire sulla deregolamentazione del mercato del lavoro, sulla flessibilità che costringe milioni di persone al lavoro precario, spesso fatto di contratti di breve e brevissima durata. La questione è dirimente anche con riguardo alle richieste di interventi di Confindustria, praticamente accolte dal governo, che indicano la necessità di aumentare i salari. Una necessità, indubbiamente, ma che rischia di essere uno specchietto per le allodole che nasconde l’idea di relazioni conflittuali tra capitale e lavoro sterilizzate, artificialmente private dell’antagonismo insanabile tra profitti e salari.

Allo studio, infatti, ci sarebbero tre strade per aumentare i salari nominali: riduzione dell’Irpef; ampliamento della platea dei beneficiari degli “80 euro”; taglio del cuneo fiscale. Tutte misure che sarebbero finanziate da tagli alla spesa pubblica e comunque dai lavoratori come classe sociale, in assenza di un sistema tributario informato a criteri di forte progressività, cioè di equità. E il nostro fisco è tutt’altro che equo, né il governo appena insediato appare intenzionato a renderlo tale o almeno mettersi sulla strada dell’equità. Non solo: per lo stesso salario minimo è in previsione una riduzione dei contributi a carico delle imprese, dal momento che, fa sapere il neoministro del Lavoro, Catalfo “Il taglio del costo del lavoro è uno dei punti fondanti del programma del nuovo Governo”.

Si percepisce chiaramente, allora, come le condizioni della distribuzione rispecchiano le condizioni delle relazioni sociali; sono, cioè, un aspetto delle condizioni della produzione che in Italia si muove continuamente verso la riduzione del costo del lavoro, abbassa, cioè, il prezzo reale della forza-lavoro, quindi il salario sociale di classe, ritarda il progresso tecnico in quanto mantiene profittevoli anche vecchi metodi produttivi e mantiene i rapporti di forza saldamente in mano al padronato. L’Italia, infatti, contrariamente a quanto viene spesso detto, rispetto ai Paesi europei più avanzati non soffre di minore competitività legata a un elevato costo del lavoro, che ha visto ridursi negli anni e oggi è più basso della media dell’area Euro, ma semmai di bassi salari reali. Sono questi ultimi che vengono erosi se l’aumento del salario nominale risulta essere una redistribuzione tutta interna alla classe lavoratrice, mentre i profitti vengono aumentati diminuendo contributi ed altri oneri che costituiscono il salario indiretto; se il sistema fiscale, com’è avvenuto negli ultimi decenni, reperisce le risorse necessarie per rendere effettivi i diritti sociali (quel poco che ne rimane) sempre più nelle tasche della classe lavoratrice e non in quelle delle classi privilegiate o se, come avviene sempre più spesso, i diritti sono ridotti a merce e messi a disposizione dei privati in nome della necessità dell’abbattimento dei costi o del debito pubblico.

Simulacri di democrazia e di antisalvinismo

E qui si inserisce la strombazzata questione del salvare la democrazia dalle pulsioni autoritarie di Salvini, della Lega e in genere della destra reazionaria. Parte della sinistra ha già baciato il rospo richiamando il Pd alle proprie responsabilità sulla necessità (che esiste, per carità) di fermare l'avanzata di Salvini e delle sue politiche autoritarie e antipopolari. C’è, però, un problema: Pd e M5S quel ruolo possono svolgerlo solo per una contrarietà nominalistica e artefatta a Salvini e alla Lega, non come prospettiva di superamento di quelle disuguaglianze sociali che costringono le classi popolari a rinunciare ai diritti e alle libertà essenziali, come quella di partecipare “all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, cioè di esercitare la democrazia. Perché non c'è democrazia dove agisce il pareggio di bilancio in Costituzione (votato dal PD mentre il leghista Giorgetti ne era Il relatore per la commissione Bilancio della Camera), una mozione favorevole alla Tav (votata dal PD e dalla Lega), il Jobs act, il decreto Minniti, che ha aperto la strada ai decreti sicurezza leghisti, una riforma delle pensioni che costringe al lavoro fino a un'età in cui la fatica ti piega la schiena (è di Maroni l’introduzione di uno scalone all’età pensionabile e la riforma Fornero non è stata toccata da nessuno tra PD, M5S e Lega).

Non si persegue la democrazia senza una tensione verso l’emancipazione delle classi popolari dallo stato di bisogno, in assenza della quale le libertà e i diritti restano formalità, diventano variabile dipendente del rigore dei conti pubblici o delle esigenze di mercato. Non dovrebbe essere necessario ricordare che il tentativo di manomissione delle istituzioni democratiche per rispondere alle esigenze di mercato è stato l'indirizzo politico dello stesso PD, oggi chiamato ad assumersi la responsabilità di fermare le pulsioni autoritarie di Salvini e della Lega.

Siamo di fronte ad un governo che per storia politica dei soggetti che lo compongono rappresenta, più che un argine a una deriva autoritaria, un suo simulacro. Davvero si può pensare di affidare la tutela della democrazia ad un governo formato da PD e M5S con LEU a fare da stampella sinistra, quando proprio questi hanno trasformato diritti e libertà in variabili dipendenti del rigore dei conti pubblici, delle esigenze di mercato e delle pulsioni xenofobe? Davvero si può pensare di fermare così la Lega e Salvini che invece potremmo ritrovarci tra qualche tempo più forti di oggi (una questione che è stata posta anche da Ilvo Diamanti sulle colonne di Repubblica, nei giorni scorsi), rinvigoriti da una rabbia popolare ancora più sedimentata sotto i colpi di manovre economiche che impongono ulteriore riduzione dei diritti sociali e del salario reale?

Davvero si pensa di poter parlare di democrazia senza mettere al centro delle questioni i diritti sociali?

Non sarà il caso, allora, di provare a recuperare alla sinistra di classe autonomia di analisi e iniziativa politica (abbandonate negli anni in una politica fatta per contrarietà) e tentare di organizzare la mobilitazione più ampia possibile intorno a temi unificanti per le classi popolari, che mirino a recuperare pezzi di potere politico, cioè di possibilità di partecipazione democratica invece di far finta di inserirsi in dibattiti e processi istituzionali che non cambieranno sostanzialmente le sorti delle classi sociali più vulnerabili? Non sarebbe, questo, un modo più efficace di difendere la democrazia dalle pulsioni autoritarie prima che l'opposizione ad esse si riduca a un inutile esercizio retorico?

14/09/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Carmine Tomeo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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